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Scenari energetici conseguenti la caduta del prezzo del petrolio

Mario Agostinelli (www.energiafelice.it)

La caduta del prezzo del greggio e il contemporaneo rifiuto degli arabi dell’OPEC di ridurne l’offerta, incide certamente sulla competizione nel mercato del petrolio, del gas e del carbone, ma probabilmente meno sul futuro energetico in Europa e nel mondo, più che mai conteso tra affermazione delle rinnovabili e ripresa del nucleare. L’obiettivo più evidente del tracollo sui mercati sembrerebbe l’attacco alla Russia di Putin, ma non va sottovalutata l’intenzione di mettere fuori gioco la concorrenza di parte dello shale gas americano – o almeno della produzione dai sedimenti meno remunerativi – così da farne emergere senza più l’alibi del prezzo tutti i rischi ambientali e la bolla speculativa che si porta alle spalle. E’ questione di cui da noi si parla pochissimo, ma che mette in ansia i grandi finanziatori delle fossili “non convenzionali”. Se la partita del petrolio – con il paradosso di una offerta superiore alla domanda – nonostante il superamento accertato del “picco di Hubbert” – sfugge al controllo del cartello dell’OPEC e si gioca in un mercato senza protezioni, abbiamo la conferma che stia finendo un’epoca caratterizzata da un sistema fortemente centralizzato, controllato da un intreccio di monopoli e stati produttori, retto su combustibili ad alta densità calorica e agevolmente trasportabili dopo estrazione.

L’eccesso di offerta di petrolio non è dovuto a previsioni sbagliate sul suo accertato esaurimento, ma agli enormi investimenti progettati più di un quinquennio fa, quando il prezzo del barile era a 110 $ e si andava a perforare nei luoghi più impervi. Le stime di consumo poi, non hanno tenuto conto del boom delle rinnovabili e del carattere strutturale della crisi: si pensi che solo nel 2014 la IEA ha rivisto al ribasso le stime della domanda mondiale ben sei volte!

Non facciamoci quindi impressionare dai colpi di coda di un sistema che dovrà comunque fare conti inesorabili e non procrastinabili con il riscaldamento globale e la diffusione sempre più imprevedibile di conflitti armati per il controllo dei giacimenti. Hermann Scheer nel 2005 sosteneva che la sfida energetica del XXI secolo si sarebbe giocata tra atomo e sole, in un anticipo ridotto all’essenziale dello scenario entro cui la geopolitica deve far i conti con la sfida per la sopravvivenza della biosfera. E’ questo scenario che vorrei attualizzare, anche a fronte delle manovre, pur rilevanti, sui prezzi del greggio.

La mia opinione è che non si stia affatto allontanando l’opportunità di scenari alternativi ai fossili e nemmeno che il crollo dei prezzi del combustibile possa prolungare oltremodo il sistema attuale, in quanto la connessione tra clima e combustioni dei fossili comporta danni non stimabili per la vita e costi economici altissimi per la riparazione dell’ambiente, ancorché costantemente occultati, ma sempre più avvertiti dall’esperienza comune.

Nei fatti e nelle statistiche degli ultimi dieci anni, si può constatare il progresso continuo di decisioni locali, non certo assunte ai vertici per il clima, per accelerare il passaggio ad un sistema energetico decentrato, fondato sulle rinnovabili e sulla riduzione dei consumi. A riprova, in una interessante intervista del 26 Novembre il nuovo presidente dell’ENEL Francesco Starace parla di reti intelligenti, crescita delle rinnovabili e riassetto organizzativo, con un approccio così innovativo e sensato per l’Ente nazionale, da mettere a disagio gli interlocutori del Sole 24 Ore.

Anche per i sacerdoti del sistema energetico attuale (la IEA), entro il 2040 la fornitura mondiale di energia sarebbe scompaginata e divisa in quattro parti quasi uguali: fonti a basso tenore di carbonio (nucleare e rinnovabili), petrolio, gas naturale e carbone. Le energie rinnovabili diventerebbero il numero uno al mondo come fonte di produzione di energia elettrica, superando il carbone, mentre la crescita della domanda mondiale di petrolio rallenterebbe fino quasi a fermarsi, con un calo rilevante anche dello shale gas.

La discesa dei prezzi del combustibile è in definitiva vista come fase di transizione, di durata imprecisata, ma che influirà ancora per un breve periodo sulla fornitura di calore e sulle soluzioni alternative per la mobilità, anche se ormai il binomio petrolio+auto individuale sembra in progressiva consunzione. La “rivoluzione shale”, è parte anch’essa della transizione. Attualmente fornisce agli USA un vantaggio competitivo che si riflette nel rilancio della manifattura, ma che potrebbe nel medio periodo rivelarsi strategicamente non risolutivo, dato che i vincoli climatici e finanziari potrebbero risultare per questa tecnologia esiziali nel tempo.

Per contestualizzare la sfida atomo-sole, aggiungo che, mentre la tecnologia nucleare mostra limiti insormontabili, soprattutto per l’eredità delle scorie e per l’eventualità insopprimibile di incidenti catastrofici, le fonti rinnovabili decentrate, pur limitate da una relativa discontinuità, sono sfruttabili direttamente in pressoché ogni angolo del mondo e stanno raggiungendo la “grid parity” a ritmi fino ad un decennio fa impensabili.

La continuità di chi vuole mantenere un sistema centralizzato, è in realtà affidata alle chance di un nucleare “di nuova generazione” (!?), sostitutivo dei fossili, che contrasti a infrastrutture in larga parte invariate la diffusione capillare di impianti alimentati da fonti naturali. Il nucleare rimane l’opzione che il sistema elettrico delle grandi utilities si riserva anche oltre la metà del secolo. Il Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti ha emesso un prestito garanzia per 12,5 miliardi di dollari per progetti di reattori innovativi. La US Energy Information Administration ha recentemente riferito che quasi tutte le centrali nucleari degli Stati Uniti dovrebbero ottenere un prolungamento della vita oltre i 60 anni per operare dopo il 2050.  La Cina ha avviato il nuovo programma nucleare con la realizzazione di 31 reattori e la presa in considerazione di ulteriori 110. La Russia assicura impianti chiavi in mano e manutenzione per i Paesi con ridotte risorse tecnologiche.

Le rinnovabili però continuano a crescere a ritmi sorprendenti, con il vantaggio di una parity grid ormai raggiunta anche senza particolari incentivi. Nei primi tre trimestri del 2014, la Cina ha speso 175 miliardi dollari in progetti di energia pulita e il paese installerà 14 GW di capacità solare nel solo 2014. Secondo il National Renewable Energy Laboratory (NREL), il costo di pannelli solari su una tipica casa americana è sceso di circa il 70 per cento negli ultimi dieci anni e mezzo. In Europa la convenienza è ormai accertata e migliorerà con investimenti in reti intelligenti e accumuli appropriati.

Purtroppo il Governo Italiano si pone in Europa in una posizione di retroguardia, dato che prevede 45 miliardi per infrastrutture fossili (30 miliardi per rigassificatori+ 15 miliardi per la quota italiana di gasdotti), senza una seria riflessione sui costi in alternativa di una infrastrutturazione rinnovabile con stoccaggi diffusi. E sarebbe interessante conoscere chi spinge Federica Mogherini, ministro degli esteri della UE voluta da Renzi, a premere sul segretario di Stato americano John Kerry per l’inserimento di un capitolo sull’energia (cioè carbone, petrolio e gas di scisto) nel Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti (TTIP), nonostante le motivate critiche degli ambientalisti, preoccupati dell’abbassamento degli standard ambientali dell’UE. E, dopo le accuse agli affetti da NIMBY e il pretenzioso Sbloccaitalia, solo un Governo ineffabile ha potuto pensare di trivellare fuori tempo massimo e di mandare la polizia a caricare manifestanti che si rivelano non solo attenti all’ambiente ma ben competenti in economia e finanza!

Il futuro dell’energia è uscito ormai dai confini della geopolitica e della finanza tradizionali e l’interesse della collettività si fa spazio, entrando in conflitto con il computo economico che si vorrebbe imporre a qualsiasi costo.

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SHALE E SABBIE BITUMINOSE IN REGRESSO?

di Mario Agostinelli per Il Fatto Quotidiano

La caduta del prezzo del greggio e il contemporaneo rifiuto degli arabi dell’OPEC di ridurne l’offerta, muta la competizione nel mercato del petrolio, del gas e del carbone. Sono molti gli analisti che ritengono che non solo l’attacco è rivolto alla Russia, ma anche alla concorrenza del gas e dell’olio da shale americano (v. Bloomberg News del 27 Nov), così da farne emergere, senza più l’alibi di un prezzo inferiore, tutti i rischi ambientali e la bolla speculativa che si porta alle spalle. E’ questione di cui da noi si parla pochissimo, ma che mette in ansia i grandi finanziatori delle fossili “non convenzionali”.

In uno scenario in movimento, Circle of Blue, un periodico americano che affronta il problema delle risorse

http://www.circleofblue.org/waternews/2014/world/north-american-fossil-fuel-boom-raises-risks-expanding-oil-gas-transport-network/ e The Nation, con un articolo di Naomi Klein (http://www.thenation.com/article/191417/4-reasons-keystone-really-matters ), mettono impietosamente in evidenza gli inconvenienti dell’olio e del gas di scisto.

Sono diffuse in USA e Canada preoccupazioni sui rischi per l’acqua, la terra, e le comunità, dato che il boom di estrazione da scisto richiede cambiamenti dirompenti dei sistemi di tubazione e di quelli ferroviari di trasporto. Le nuove riserve energetiche si trovano in aree che non sono ben collegate ai porti o alle raffinerie già sviluppate nel secolo precedente e le imprese del settore energetico sono impegnate in una rete ferroviaria e di gasdotti per abbinare la mutata geografia alla nuova offerta.

Nel corso degli ultimi due anni, treni che trasportano petrolio dal Canada e Dakota sono esplosi almeno in sei località, con perdita di centinaia di vite e vasti inquinamenti. Nel 2010, un oleodotto che trasporta greggio per la raffineria a Detroit dalla regione di sabbie bituminose di Alberta ha rovesciato quasi 1 milione di litri di greggio appiccicoso nel fiume Kalamazoo. Gli analisti del settore prevedono che una media di circa 50 miliardi di dollari all’anno saranno spesi da qui al 2025 per creare reti di gasdotti e di ferrovie adeguate: con 28968 km. di condutture si tratta di uno “tsunami di nuovi gasdotti

In attesa dei nuovi tubi il trasporto ferroviario è cresciuto in modo esponenziale con un aumento del 3600%.

Il percorso del gasdotto Keystone XL, che collegherebbe Alberta al Golfo del Texas, è l’esempio più visibile di protesta nazionale (l’itinerario proposto attraversa un acquifero sensibile in Nebraska, che i cittadini e il governatore dello stato vogliono proteggere). Le proteste vanno al di là delle popolazioni locali, perché si considera che l’arresto del programma possa bloccare la produzione da sabbie bituminose, una delle fonti più costose e più sporche (più del doppio di effetto serra rispetto al petrolio tradizionale), che porta benefici economici ad una parte dell’industria, ma danni rilevanti all’agricoltura e al turismo.

In meno di un anno, Shell, Statoil e Total hanno abbandonato i loro progetti sulle sabbie bituminose, avviati quando il petrolio era a 100 $.

Barack Obama, a questo punto, deve decidere se, fermando Keystone, ferma anche un progetto industriale che sta destabilizzando il clima. Nel frattempo i rappresentanti delle popolazioni indigene continuano a vincere coi loro ricorsi in tribunale.

Il cambiamento climatico è tornato sulla scena mondiale, ad un livello che non si scorgeva da quando è fallito il vertice di Copenaghen nel 2009  (http://www.repubblica.it/speciale/2009/summit-sul-clima/)  . Mentre Stati Uniti Cina e Europa sembrano indotti a ricorrere a drastiche misure, il Canada, con emissioni di quasi il 30 per cento superiore a Kyoto, comincia esso stesso a dubitare che le sue sabbie bituminose siano opportunità di business a lungo termine, in cui depositare centinaia di miliardi di dollari nei prossimi decenni.

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Vienna, grande pressione per il bando delle armi nucleari: ma è stata recepita?

La maggioranza degli Stati non nucleari, nella Conferenza per il disarmo “umanitario” (8-9 dicembre), interviene e si fa sentire per passare subito ed in modo autonomo ai fatti giuridici vincolanti, ma la Presidenza austriaca media con gli USA e rinvia al percorso tradizionale del Trattato di non proliferazione “per colmare il vuoto giuridico” (New York, 2015)

44 Stati si impegnano, aderendo all’appello ICAN, per un Trattato di interdizione: l’Austria organizzatrice, il Bangladesh, il Brasile, il Burundi, il Ciad, la Colombia, il Congo, la Costa Rica, Cuba, l’Ecuador, l’Egitto, El Salvador, le Filippine, la Giamaica, la Giordania, il Ghana, Grenada, il Guatemala, la Guinea Bissau, l’ Indonesia, il Kenya, la Libia, la Malesia, il Malawi, il Mali, il Messico, la Mongolia, il Nicaragua, il Qatar, Samoa, il Senegal, , la Santa Sede, il Sudafrica, la Svizzera, la Taïlandia, Timor Est, il Togo, Trinidad e Tobago, l’Uruguay, il Venezuela, lo Yemen, lo Zambia e lo Zimbabwe

Anche i leader religiosi dovrebbero essere più chiari nel condannare la stessa “deterrenza”, e non solo l’uso delle armi nucleari: un messaggio di Papa Francesco alla Conferenza comunque auspica che “le armi nucleari siano interdette una volta per tutte”

I “disarmisti esigenti” Alfonso Navarra e Luigi Mosca (facenti riferimento all’appello lanciato da Stéphane Hessel e Albert Jacquard pubblicato in Italia dalla EDIESSE) incontrano il delegato del governo italiano Giovanni Brauzzi che ha chiesto loro una “consultazione” ma interviene – pro forma –  “per mediare tra Stati nucleari e Stati non nucleari”

 

12.12.2014 – Alfonso Navarra, direttore di DIFESA-AMBIENTE, nella delegazione di ESIGIAMO! Il disarmo nucleare totale, vicepresidente di Energia Felice, obiettore alle spese militari e nucleari (www.osmdpn)

 

La Conferenza sull’Impatto Umanitario delle Armi Nucleari, tenutasi a Vienna l’8 e il 9 dicembre 2014, per organizzazione del governo austriaco, ha offerto principalmente agli Stati non nucleari, ma non solo per essi, data anche la presenza di Stati nucleari come USA e Cina, un luogo di confronto sulle conseguenze devastanti dell’esplosione delle armi nucleari.

La cornice è stata quella storica e maestosa del castello di Hofburg, nel centro della città, con la sua ampia sala capace di contenere 4.000 persone sedute (e vi posso assicurare che se non ci si sbrigava a prendere posto, si rimaneva in piedi e senza traduzione simultanea! Le lingue degli interpreti, oltre l’inglese, includevano lo spagnolo, il francese, il cinese, l’arabo, ma non l’italiano). Non poteva entrare chiunque, ma bisognava essere accreditati, e farlo per tempo: il sottoscritto e Giovanna Pagani ci siamo registrati per la testata DIFESA-AMBIENTE, edita dalla Euroedizioni, di cui sono direttore responsabile.

Per la società civile, quella organizzata ed accreditata, c’è stato qualche spazio, e se ne è tenuto conto più che in altre occasioni: in particolare è stato accolto il contributo del forum organizzato sempre a Vienna da ICAN (Campagna internazionale per abolire le armi nucleari) a ridosso della stessa, il 6 e 7 dicembre.  Possiamo anzi dire che l’intervento più applaudito è stato quello di Beatrice Fihn, una giovane rappresentante della ICAN. Sono intervenute ufficialmente anche la Croce Rossa Internazionale, Peace Boat  e la WILPF.

L’ampia partecipazione a questa conferenza,  158 Stati dei cinque continenti, allargatasi quest’anno, come si è rammentato,  persino agli Stati nucleari (USA, Regno Unito, Cina, India), ed agli Stati della condivisione nucleare NATO (il governo italiano, ad esempio, stavolta era presente, anche se pro forma), ha dimostrato che le catastrofiche conseguenze di un’esplosione nucleare, ed ancor più di una guerra nucleare anche su scala limitata, costituiscono una preoccupazione universalmente diffusa.

L’intervento di apertura del Ministro degli Esteri austriaco, Sebastian Kurz, “il padrone di casa”, ha sottolineato ancora una volta che la questione nucleare non è un relitto del passato: “Esistono ancora più di 16.000 testate nucleari – distribuite tra i 14 paesi e attraverso gli oceani – molti dei quali in allerta e pronti per l’uso con brevissimo preavviso. E dobbiamo essere chiari: fino a quando esisteranno armi nucleari, il rischio del loro uso – di proposito o per caso – rimane reale”.

Vi è quindi stata una evoluzione rispetto alla considerazione, al centro delle precedenti conferenze di Oslo (marzo 2013) e Nayarit (febbraio 2014), che nessuno Stato, nessuna organizzazione internazionale sarebbero in grado di affrontare l’emergenza umanitaria immediata causata dalla detonazione di un’arma nucleare, né sarebbero in grado di fornire assistenza adeguata alle vittime.

Per la prima volta, in una Conferenza intergovernativa, è stata data la parola ai sopravvissuti dei test nucleari, che testimoniano degli effetti a lungo termine di queste armi. Oltre alla testimonianza giapponese da Hiroshima, abbiamo avuto interventi dall’Australia, dal Kazakistan, dagli stessi Stati Uniti (Stato dello Utah), e dalle Isole Marshall.

Gli effetti dell’inquinamento radioattivo da esplosioni nucleari sarebbero, secondo gli ultimi studi scientifici, più gravi di quanto non immaginiamo. Secondo questi dati, comunque ancora da confermare, dovremmo mettere da parte il luogo comune secondo il quale mentre i missili nucleari ammuffiscono nei silos, sono le armi leggere quelle che effettivamente uccidono. No, la preparazione della guerra atomica (i test esplosivi, l’accumulazione del materiale fissile a partire dall’estrazione di uranio nelle miniere) è anche essa mortifera fin da subito e probabilmente già sufficiente ad innescare processi che mettono a grave rischio gli ecosistemi, quindi la nostra stessa sopravvivenza.

Il focus della problematica si è però spostato sulla probabilità che una guerra nucleare possa avvenire per incidente o per errore, senza che ci si possa affidare con sicurezza ai “sistemi di comando, controllo e comunicazione” per evitarla.

Un ruolo fondamentale per questa consapevolezza lo ha avuto l’intervento di Erich Schlosser, l’autore di “Command and control”, il libro-inchiesta che ricostruisce la storia delle armi nucleari negli Stati Uniti, le dottrine militari sul loro possibile impiego, i rischi di conflitto nucleare che il mondo ha corso e gli incidenti che hanno coinvolto armi nucleari verificatisi nel corso degli anni. È una denuncia efficace del loro pericolo e rafforza in modo riteniamo decisivo gli argomenti a favore della loro messa al bando.

Gli sforzi dell’umanità, data l’entità immensa del pericolo, che supera di gran lunga qualsiasi altra minaccia presente, allora dovrebbero essere indirizzati prioritariamente e principalmente nell’eliminare questa condizione suicida. L’unico modo per garantire che le armi nucleari non vengano mai più usate è di prevederne l’eliminazione totale partendo dalla loro proibizione giuridica. Ma nonostante tutti gli Stati, comprese le Potenze nucleari, parlino di necessità del disarmo nucleare si continua a rimandare gli impegni del Trattato di Non Proliferazione (il famoso articolo sesto sulle “trattative in buona fede” degli Stati nucleari) e a ostacolare il bando giuridico internazionale delle armi nucleari.

La proibizione giuridica delle armi nucleari è una assoluta necessità e questo sta sempre più emergendo nella consapevolezza collettiva anche a livello di governi. Molti Stati latino-americani la invocano ormai apertamente nei loro interventi e con una decisione ed una lucidità che impressionano. La richiesta si leva anche dalla maggioranza degli Stati in Africa. Ma non è il caso, a quanto si è dovuto constatare, della “tiepida” e “timida” Europa, specie in quella coinvolta nella “condivisione nucleare NATO”.

Abbiamo registrato che quasi tutti gli Stati si sono iscritti a parlare ed hanno voluto intervenire parlando direttamente in aula (la prassi è consegnare un intervento scritto alla presidenza), i tempi programmati sono saltati per le dichiarazioni “a mitraglia” dei delegati degli Stati non nucleari; e questo è stato indice di una grande volontà di partecipare e di contare, manifestando una insofferenza per lo stallo dei negoziati del percorso ufficiale del Trattato di non proliferazione – TNP .

Alcune delegazioni sono state più radicali ed esplicite delle altre nel pronunciarsi, assumendo l’appello di ICAN, per un Trattato che vieti le armi nucleari. Ecco l’elenco di questi 44 Paesi, ricavato da un comunicato dell’ICAN Francia: l’Austria, il Bangladesh, il Brasile, il Burundi, il Ciad, la Colombia, il Congo, il Costa Rica, Cuba, l’Ecuador, l’Egitto, El Salvador, le Filippine, la Giamaica, la Giordania, il Ghana, Grenada, il Guatemala, la Guinea Bissau, l’ Indonesia, il Kenya, la Libia, la Malesia, il Malawi, il Mali, il Messico, la Mongolia, il Nicaragua, il Qatar, Samoa, il Senegal, , la Santa Sede, il Sudafrica, la Svizzera, la Tailandia, Timor Est, il Togo, Trinidad e Tobago, l’Uruguay, il Venezuela, lo Yemen, lo Zambia e lo Zimbabwe.

Quello che avremmo voluto sentire, nella sintesi del ministro austriaco, che ha concluso alle 19.20 di martedì 9 i lavori della conferenza, è una dichiarazione, chiara ed esplicita, pur nelle dovute forme diplomatiche, a nome della maggioranza degli Stati presenti, che si sono pronunciati in tal senso: le armi nucleari, TNP o non TNP, devono esser messe al bando in modo inequivocabile e giuridicamente vincolante, bisogna partire subito con chi ci sta e questa proibizione è la premessa necessaria e non eludibile per la successiva eliminazione degli arsenali nucleari.

Se non  ho capito male, Sebastian Kurz (non ho ancora sotto gli occhi il comunicato scritto ufficiale che non è stato diramato, ed anche questo è significativo) si è invece limitato ad affermare che appoggerà questa richiesta, proveniente, come si è detto, in modo inequivocabile dal basso, nella sede internazionale realmente decisiva, cioè la sessione a New York  di revisione del Trattato di non proliferazione del 2015 (aprile-maggio), in cui aiuterà a porre all’ordine del giorno l’inizio di negoziati in tal senso.

La “reticenza” è forse frutto della “mediazione” che è stata esercitata per portare gli USA (e molti loro alleati, tra i quali l’Italia) a partecipare e quindi a riconoscere come complementare il percorso umanitario rispetto al percorso TNP. Ma il ministro austriaco ha comunque avanzato delle dichiarazioni orali che lasciano sperare che l’impegno austriaco proseguirà nella direzione giusta.

Ecco quanto di saliente ha affermato oralmente Kurz nella sua sintesi conclusiva (secondo la ricostruzione effettuata dagli amici antinucleari francesi, con i quali noi italiani abbiamo fatto comunella):

Molti delegati hanno espresso preoccupazione per i pochi progressi in materia di disarmo nucleare e hanno sottolineato che le considerazioni umanitarie non dovrebbero più essere ignorate, ma essere al centro di tutte le decisioni di disarmo nucleare… Molte delegazioni hanno osservato che il discorso sull’impatto umanitario delle armi nucleari ha mostrato che le armi nucleari rappresentano un rischio inaccettabile, che questo rischio è superiore a ciò che era stato comunemente inteso, e che continua ad aumentare nel tempo…Molte delegazioni hanno ribadito che l’eliminazione totale delle armi nucleari è il modo più efficace per prevenire il loro uso…La maggioranza delle delegazioni ha rimarcato che l’eliminazione definitiva delle armi nucleari deve essere perseguita in un quadro normativo concordato, tra cui una convenzione sulle armi nucleari… Molte delegazioni hanno sottolineato il bisogno di sicurezza per tutti e che l’unico modo per garantire questa sicurezza è attraverso il divieto e l’eliminazione totale delle armi nucleari. Esse hanno espresso sostegno per la negoziazione di un nuovo strumento giuridico che vieti le armi nucleari che costituiscono una misura efficace verso il disarmo nucleare, come richiesto anche dal TNP.”

Bisogna, allora, come diplomaticamente dice Kurz, “cooperare con tutte le parti interessate per colmare il vuoto giuridico verso il bando”; ma occorrerebbe anche sottolineare che, se qualche parte “nicchia” o avanza resistenze ingiustificate, si va avanti lo stesso.

Quella del bando delle armi nucleari è comunque di una questione letteralmente “vitale”, che non riguarda solo i governi, ma ogni cittadino e cittadina di questo nostro mondo interconnesso ed interdipendente. La questione delle questioni, però è normalmente sottovalutata dai media (e quindi dalla gente), se non rimossa.  Aumentando la consapevolezza delle catastrofiche conseguenze che inevitabilmente si produrrebbero con il continuare a “scherzare con il fuoco atomico”, la società civile ha un ruolo cruciale da svolgere, da spina nel fianco dei governi, affinché si assumano le proprie responsabilità.

Dobbiamo, noi cittadinanza attiva e movimenti di base, fare lo sforzo di lavorare insieme, fianco a fianco, per liberare, con una azione coordinata, il mondo, non solo il nostro cortile di casa, dalla minaccia posta dalle armi nucleari: è la nostra responsabilità verso le future generazioni ed anche delle passate. La salvaguardia infatti del senso del passato comune è costituente essenziale della nostra umanizzazione, condizione della nostra facoltà di pensiero.

Un intervento che avrebbe potuto essere “storico”, ma che invece – a giudizio di chi scrive – è rimasto confinato nella convenzionalità (contano infatti i discorsi ufficiali e non le interviste estemporanee rilasciate davanti ad una telecamerina), è stato quello di Silvano Maria Tomasi, Nunzio Apostolico della Santa Sede, che ha portato un messaggio di Papa Francesco: non ha detto in modo chiaro che la Chiesa Cattolica non è contraria solo all’uso delle armi nucleari, ma anche alla loro stessa detenzione.

Il testo ufficiale del messaggio papale è riportato integralmente, sotto, in appendice, tratto dall’agenzia stampa ufficiale del Vaticano. Questi i passi che mi sembra importante mettere in rilievo:

I codici militari e il diritto internazionale, tra gli altri, hanno da tempo condannato persone che hanno inflitto sofferenze non necessarie. Se simili sofferenze sono condannate nel corso di una guerra convenzionale, allora dovrebbero ben di più essere condannate nel caso di conflitto nucleare… La deterrenza nucleare e la minaccia della distruzione reciproca assicurata non possono essere la base di un’etica di fraternità e di pacifica coesistenza tra i popoli e gli Stati. I giovani d’oggi e di domani hanno diritto a molto di più. Hanno il diritto ad un pacifico ordine mondiale… Sono convinto che il desiderio di pace e di fraternità, profondamente radicato nel cuore umano, porterà frutti in modi concreti al fine di assicurare che le armi nucleari vengano vietate una volta per tutte…”

Questo mancato intervento papale (perché troppo sfumato e inibito nei contenuti) di condanna esplicita della deterrenza nucleare avrebbe potuto essere collegato al fatto che, come si è accennato, nei lavori di questa conferenza, con i discorsi delle delegazioni latino-americane, ed in particolare con il discorso del delegato dell’Ecuador, si è affacciata la nuova ipotesi strategica di impostare la proibizione delle armi come attuazione del diritto alla sopravvivenza, che esige il dovere immediato ed inderogabile di proibire e di rimuovere gli ordigni che la mettono a rischio.

Il disarmo nucleare come diritto umano fondamentale e non come concessione (interpretante una necessità): la “Carta per un mondo libero dalle armi nucleari” che i “disarmisti esigenti” hanno elaborato (e che si vuole fare discutere e approvare dalla Rete di scuole che simulano le Nazioni Unite) costituisce un modo per sperimentare un nuovo approccio culturale che forse potrebbe sbloccare le trappole che hanno finora impantanato e rallentato i negoziati sul disarmo.

Attualmente tutti i ragionamenti partono infatti dalla “necessità” del disarmo nucleare (si veda il discorso di Obama a Praga nel 2009), non dalla sua obbligatorietà: si permette quindi, da parte della comunità internazionale, che alcuni soggetti vantino il diritto di minacciare l’uso delle armi nucleari al fine di evitarne l’uso.

Occorre invece escludere in radice, come anche il Papa e gli altri leaders religiosi potrebbero invitarci a fare (quando si decideranno), ogni possibilità di giustificare la cosiddetta deterrenza: non si deve, lo ribadiamo, scherzare con il fuoco atomico, pensare di poter mettere tra parentesi il diritto di sopravvivere, ricorrere, ipocritamente, a mezzi illeciti, alla minaccia di distruzione, per ottenere obiettivi leciti…

L’obiettivo che ci eravamo proposti con Alex Zanotelli nel 2006 lanciando un appello resta quindi attuale: i rappresentanti di tutte le religioni dovrebbero dichiarare la guerra atomica nella sua stessa minaccia e preparazione Tabù e peccato, un crimine contro l’Umanità come tale non assolutamente giustificabile.

I “disarmisti esigenti” presenti a Vienna (il sottoscritto e Luigi Mosca, con Giovanna Pagani assente per problemi tecnici) hanno anche incontrato per una buona mezz’ora il funzionario delegato del governo italiano prima che intervenisse, la mattina del 9 dicembre. Il delegato del MAE, Giovanni Brauzzi, incalzato dalle nostre sollecitazioni, ha espresso una volontà di “giocare un ruolo di mediazione tra Stati nucleari e Stati non nucleari”.

Secondo Brauzzi la via più conducente che oggi può essere esperita è quella dell’estensione delle zone libere dalle armi nucleari, a partire da quella che il TNP-Trattato di non proliferazione ha individuato, nella sessione di revisione del 2010, per il Medio Oriente.

Ci stiamo lavorando alacremente come governo italiano e posso dirvi che siamo molto vicini ad organizzare una Conferenza, superando l’opposizione del governo di Tel Aviv, che pone come condizione una considerazione generale degli equilibri geopolitici della regione. Dobbiamo quindi impostarla – questa conferenza sul Medio Oriente – non solo sul disarmo nucleare, ma su un quadro di sicurezza globale”.

Menzioniamo, per concludere, anche l’iniziativa di discussione, negli ambiti pacifisti e nonviolenti, sulle risultanze della conferenza che si terrà a Roma, per organizzazione della WILPF, il 16 dicembre 2014, presso il CESV, via Liberiana, 14, con inizio alle ore 17.00.

Sarebbe importante che servisse ad approfondire e a sprovincializzare la nostra visuale, che spesso non va oltre ciò che ci tocca direttamente e da vicino: non possiamo pensare, quando ci sbattiamo sopra il muso, ammesso poi che lo facciamo veramente (ad alcuni interessa solo additare un “cattivissimo” unica facile causa dei mali del mondo), solo alle bombe e alle basi che ci sono in Italia,  dobbiamo renderci conto che abituiamo in un piccolo Pianeta che hanno fatto diventare, più protagonisti, una polveriera che prima o poi salterà in aria.

Opporci alle B-61 di Ghedi ed Aviano, come del resto alle altri basi militari “offensive”, deve avvenire con questa ottica ampia, rivolta alla costruzione organizzata internazionalmente della comune umanità che avanza con comuni obiettivi e comuni percorsi. Lo stesso ragionamento vale per le “campagne” che si propongano l’uscita dell’Italia dalla NATO.

Come ci invita a fare “ESIGETE!”, dobbiamo pensare, agendo anche localmente ma coordinati globalmente, all’avvenire di tutti, ad un avvenire dell’Umanità fondata sull’emulazione, non sulla competizione, ad uscire dai nostri piccoli “ego” per occuparci di perpetuare la fiaccola della vita da cui proveniamo.

Ringrazio per il loro aiuto:

I “disarmisti esigenti” (in particolare Luigi Mosca e Giovanna Pagani) che si riconoscono nell’appello lanciato da Stéphane Hessel ed Albert Jacquard. In Italia facciamo riferimento alla petizione on line rinvenibile a questa pagina

vedi http://www.petizioni24.com/esigiamo

Adesioni anche sui siti: Energia felice (www.energiafelice.it); Campagna di Obiezione di Coscienza alle Spese Militari (www.osmdpn.it); Lega Internazionale Donne per la Pace e la Libertà ( http://wilpfitalia.wordpress.com/)

 

 

http://www.news.va/es/news/226638

 

Messaggio del Santo Padre alla III Conferenza sull’Impatto Umanitario delle Armi Nucleari (Vienna, 8-9 dicembre 2014)

Testo in lingua italiana

Pubblichiamo di seguito il testo del Messaggio che Papa Francesco ha inviato all’On.le Sebastian Kurz, Presidente della Conferenza sull’Impatto Umanitario delle Armi Nucleari che si svolge in questi giorni a Vienna, in Austria:

Testo in lingua italiana

A Sua Eccellenza il Signor Sebastian Kurz

Ministro Federale per l’Europa, l’Integrazione

e gli Affari Esteri della Repubblica d’Austria

Presidente della Conferenza sull’Impatto Umanitario delle Armi Nucleari

Sono lieto di salutare Lei, Signor Presidente, e tutti i rappresentanti delle varie Nazioni e delle Organizzazioni Internazionali, come pure della società civile, che partecipano alla Conferenza di Vienna sull’impatto umanitario delle armi nucleari.

Le armi nucleari sono un problema globale, che colpisce tutte le nazioni, e avranno un impatto sulle generazioni future, come pure sul pianeta, che è la nostra casa. Occorre un’etica globale se vogliamo ridurre la minaccia nucleare ed operare per un disarmo nucleare. Ora più che mai, l’interdipendenza tecnologica, sociale e politica esige urgentemente un’etica di solidarietà (cfr Giovanni Paolo II, Sollicitudo rei socialis , 38), che incoraggi i popoli ad operare insieme per un mondo più sicuro ed un futuro che sia radicato sempre più nei valori morali e sulla responsabilità in una dimensione globale.

Le conseguenze umanitarie delle armi nucleari sono prevedibili e planetarie. Mentre spesso ci si concentra sul potenziale delle armi nucleari per le uccisioni di massa, si deve porre maggior attenzione sulle “sofferenze non necessarie” causate dal loro uso. I codici militari e il diritto internazionale, tra gli altri, hanno da tempo condannato persone che hanno inflitto sofferenze non necessarie. Se simili sofferenze sono condannate nel corso di una guerra convenzionale, allora dovrebbero ben di più essere condannate nel caso di conflitto nucleare. Vi sono coloro, tra noi, che sono vittime di tali armi; essi ci mettono in guardia a non commettere gli stessi irreparabili errori, che hanno devastato popolazioni e la creazione. Porgo i miei calorosi saluti agli Hibakusha , come pure alle altre vittime degli esperimenti delle armi nucleari, presenti a questo incontro. Incoraggio tutti loro ad essere voci profetiche, richiamando la famiglia umana ad un più profondo apprezzamento della bellezza, dell’amore, della cooperazione e della fraternità, ricordando allo stesso tempo al mondo i rischi delle armi nucleari, le quali hanno il potenziale di distruggere noi e la civiltà.

La deterrenza nucleare e la minaccia della distruzione reciproca assicurata non possono essere la base di un’etica di fraternità e di pacifica coesistenza tra i popoli e gli Stati. I giovani d’oggi e di domani hanno diritto a molto di più. Hanno il diritto ad un pacifico ordine mondiale, basato sull’unità della famiglia umana, fondato sul rispetto, sulla cooperazione, sulla solidarietà e sulla compassione. Il tempo di contrastare la logica della paura con l’etica della responsabilità è adesso, così da promuovere un clima di fiducia e di dialogo sincero.

Spendere in armi nucleari dilapida la ricchezza delle nazioni. Dare priorità a simili spese è un errore e uno sperpero di risorse che sarebbero molto meglio investite nelle aree dello sviluppo umano integrale, dell’educazione, della salute e della lotta all’estrema povertà. Quando tali risorse sono dilapidate, i poveri e i deboli che vivono ai margini della società ne pagano il prezzo.

Il desiderio di pace, di sicurezza e di stabilità è uno dei desideri più profondi del cuore umano, poiché esso è radicato nel Creatore, che fa membri della famiglia umana tutti i popoli. Tale aspirazione non può mai essere soddisfatta soltanto da mezzi militari, e meno che mai dal possesso di armi nucleari ed altre armi di distruzione di massa. La pace non “può ridursi unicamente a rendere stabile l’equilibrio delle forze avverse; essa non è effetto di una dispotica dominazione” ( Gaudium et spes , 78). La pace deve essere costruita sulla giustizia, sullo sviluppo socio-economico, sulla libertà, sul rispetto dei diritti umani fondamentali, sulla partecipazione di tutti agli affari pubblici e sulla costruzione di fiducia fra i popoli. Papa Paolo VI sintetizzò tutto questo nella sua Enciclica Populorum progressio : “Lo sviluppo è il nuovo nome della pace” (76). E’ nostra responsabilità di prendere azioni concrete che promuovano la pace e la sicurezza, rimanendo, però, sempre attenti al limite costituito da approcci a breve termine a problemi di sicurezza nazionale ed internazionale. Dobbiamo essere profondamente impegnati nel rafforzare la fiducia reciproca, poiché solo mediante tale fiducia si può stabilire una pace vera e duratura fra le nazioni (cfr Giovanni XXIII, Pacem in terris , 113).

Nel contesto della presente Conferenza, desidero incoraggiare un dialogo sincero e aperto tra parti che sono all’interno di ogni Stato che possiede armi nucleari, fra vari Stati che hanno armi nucleari, e fra questi e gli Stati sprovvisti di armi nucleari. Un simile dialogo deve essere inclusivo, coinvolgendo le organizzazioni internazionali, le comunità religiose e la società civile; esso deve essere orientato verso il bene comune e non verso la protezione di interessi particolari. “Un mondo senza armi nucleari” è un obiettivo condiviso da tutte le nazioni, del quale si sono fatti portavoce i leader mondiali, come pure l’aspirazione di milioni di uomini e donne. Il futuro e la sopravvivenza della famiglia umana si impernia sull’andar oltre a tale obiettivo e assicurarsi che esso divenga realtà.

Sono convinto che il desiderio di pace e di fraternità, profondamente radicato nel cuore umano, porterà frutti in modi concreti al fine di assicurare che le armi nucleari vengano vietate una volta per tutte, a beneficio della nostra casa comune. La sicurezza del nostro stesso futuro dipende dal garantire la pacifica sicurezza degli altri, poiché se la pace, la sicurezza e la stabilità non vengono fondate sul piano globale, non saranno per nulla godute. Siamo responsabili individualmente e collettivamente del benessere sia presente che futuro dei nostri fratelli e sorelle. E’ mia viva speranza che tale responsabilità plasmi i nostri sforzi a favore del disarmo nucleare, poiché un mondo senza armi nucleari è davvero possibile.

Dal Vaticano, 7 dicembre 2014.

FRANCISCUS PP.

[02024-01.01] [Testo originale: Italiano]

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A sostegno dello Sciopero Generale

Per il Manifesto Bologna

A sostegno dello Sciopero Generale del 12 e a testimonianza dell’opera di salvatore D’albergo per la difesa integrale e l’autentico significato dell’art. 18

Il 4 Ottobre scorso è improvvisamente morto Salvatore D’albergo. Diciamo improvvisamente, perché proprio la sera precedente alcuni di noi avevano commentato con lui al telefono la pubblicazione di una sua nota sulla fase politico-sociale su “il manifesto” del 2/11/2014. Salvatore ha avuto un rilevante ruolo culturale e politico, da “uomo sociale” quale era, uomo della Costituente, dirigente politico-intellettuale per l’emancipazione dei lavoratori e l’affermazione del potere e del diritto “dal basso”, fondato sulla democrazia organizzata e di base. L’abbiamo apprezzato non solo per la sua elaborazione, sempre corroborata da una militanza cristallina, ma anche perché sapeva valorizzare la dialettica tra posizioni come promotrice di nuova conoscenza. Nel giorno precedente la sua scomparsa aveva stilato la nota che segue sul valore e il significato particolare dell’Articolo 18, che noi stessi, primi firmatari, gli abbiamo chiesto per rilanciare “collettivamente” i contenuti dell’articolo a due firme: “L’impresa, il lavoro e il cuneo dell’art. 18” (Il Manifesto 2 ottobre 2014). Considerata la completa convergenza e condivisione dei contenuti, abbiamo chiesto a il manifesto di pubblicarla “post mortem”, con la sua firma – ovviamente – e con quelle che seguono in ordine alfabetico a testimonianza di un patrimonio che vorremmo conservare. Chi condivide e desidera aderire a questa iniziativa, che presuppone una continuità, invii una mail a angelo-ruggeri@alice.it.

 

Per la difesa integrale e

l’autentico significato dell’art. 18

                            L’impresa, il lavoro e il cuneo dell’art. 18

Al di là delle incertezze e dei funambolismi delle centrali sindacali esitanti a far valere la linea politica culturale della massa dei lavoratori, esistono gruppi combattivi che non si limitano ad una difesa di facciata e corporativa dell’art. 18, ma sono consapevoli del salto di qualità verificatosi nel passaggio degli anni 60-70 mediante il rafforzamento garantista della posizione dei lavoratori in fabbrica tramite il ruolo assegnato alla magistratura come potere statale , autonomo e interdipendente.

Gli scriventi insistono particolarmente sul ruolo decisivo che il permanere dell’art. 18 assumerebbe, al di là delle effettive occasioni per le quali l’intervento è stato determinante, per fronteggiare con strumenti vincolanti il dispotismo del padronato d’impresa ansioso di decidere in proprio e in via esclusiva sulla vita dei lavoratori e sulla disponibilità e qualità della loro prestazione.

E questo nonostante l’art. 1 e l’art. 4 della Costituzione, la cui revisione attualmente in corso punta ad attaccare tutti i valori economico-sociali della Carta e le Leggi che la attuano e che qualificano la Repubblica in nome del lavoro, donde il nesso col tentativo di ripristinare anche formalmente il dispotismo in fabbrica

Di fronte a tutto ciò appare oltremodo inaccettabile ed oltraggioso verso la Costituzione l’atteggiamento del Presidente del Consiglio che non ha esitato a attaccare pubblicamente (in una trasmissione serale TV) la magistratura, specificatamente irridendo proprio il potere democratico di reintegro assegnato al magistrato. Potere trasferito al giudice dal Parlamento per conto dello stato – e non certo sfuggito all’estremismo ideologico del conservatorismo renziano ispirato a quello berlusconiano – sicchè la svolta politica e culturale, dopo le lotte di fine anni ’60, è stata rappresentata in Italia dall’obbligo di reintegro dei lavoratori licenziati senza giusta causa, altrimenti abbandonati alla mercé del padronato e della dirigenza burocratica dell’impresa

A prescindere dalla posizione della destra sociale sull’art.18, di fronte all’arroganza e all’antidemocratico attacco alla magistratura – coadiuvato anche dagli illegittimi interventi del capo dello stato – è indispensabile insistere sull’autentico significato di valore costituzionale dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, stimolando anche le associazioni dei magistrati a non tacere sul ruolo spesso inespresso della magistratura, garante della continuità del diritto di lavorare. Diritto inteso come responsabilità sociale fatta valere dal “terzo potere” dello stato, contro il sistema delle imprese e il dispotismo padronale in fabbrica, negli uffici, nei servizi. Dispotismo che revisionando la Costituzione e i suoi valori sociali, si vuole ripristinare, proprio abolendo la centralità della magistratura e negando di conseguenza il potere e non solo il diritto di chi lavora.

Il significato dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori è nella natura ed origine della norma: le lotte operaie “liberando” la Costituzione da 20 anni di “blocco” imposto dai conservatori, hanno permesso la sua attuazione in tutti i campi (lavoro, sanità, ruolo delle Regioni, ecc.).

La norma, quindi, è espressione “di potere” e “di lotta”. Enfatizzarla soltanto come manifestazione di “civiltà o “diritti”, impedisce ai lavoratori di prendere coscienza genuinamente di classe, che l’articolo 18 – non a caso datato al 1970 – è stato introdotto per esprimere la convergenza dei principi sociali, su cui si fonda l’autonomia sindacale, col ruolo politico democratico del legislatore. Volto a coniugare i principi sociali e politici che caratterizzano la Costituzione italiana con i suoi Principi Fondamentali.

Sicché, è proprio come conseguenza della sua revisione che si tenta di rilegittimare anche formalmente l’arbitrarietà dell’impresa, esorcizzata dai principi costituzionali. Infatti, in questa fase dominata dall’equivoco concetto di “globalizzazione” dell’economia, si vuol far perdere di vista alla classe operaia che l’impresa rimane comunque e innanzitutto un istituto di potere a livello nazionale. Come dimostra (anche) la preoccupazione della stessa Confindustria e dei suoi alleati di abolire l’articolo 18.

In realtà in base a questa norma, il potere ordinatorio della magistratura di rimuovere i licenziamenti illegittimi diventa lo strumento di prolungamento del potere sindacale al livello politico, mediante la connessione tra due poteri statali, come il potere legislativo (Legge 300 del 70, S. d. Lavoratori) e il potere giurisdizionale di ordinare all’impresa il reintegro del lavoratore e di condannarla al risarcimento del danno illegittimamente da lui subito.

Come si vede, l’articolo 18 interferisce, in una prospettiva democratica oggi arrestatasi, sia con il diritto dell’impresa sia con il diritto del lavoro e sia con il diritto sindacale: cosa che sfugge se ci si limita ad una difesa dei “diritti” dei lavoratori che è resa vana nel (e dal ) misconoscere che l’articolo 18 coinvolge i poteri dello stato, del sindacato e dell’impresa, per riequilibrare il mercato – a favore dei lavoratori come corpo sociale e nei diritti che ne derivano – mediante il   riconoscimento istituzionale della forza di pressione congiunta dei poteri democratici dello Stato e del sindacato.

Occorre quindi che non solo i partiti ma anche il sindacato – e qui il pensiero va a quella parte di sindacato che mostra una maggiore criticità e volontà di lotta – ponga la massima attenzione al “rovesciamento” in corso della forma di governo parlamentare e ad una legge elettorale a favore del proporzionale integrale, se si vuole che la rappresentanza sindacale possa ancora e come all’epoca dell’emanazione dello Statuto dei lavoratori, svolgere il ruolo assegnatogli dall’articolo 39 della Costituzione.

Salvatore d’Albergo (presidente del Movimento Nazionale Antifascista per la Difesa e il Rilancio della Costituzione e del Centro culturale “Il Lavoratore”)

Agostinelli Mario, Agostini Alessandra, Agostini Gigi, Angelini Francesca, Astengo Franco, Baiocchi Paola, Bardelli Beatrice, Barrucci Paolo, Besostri C. Felice, Bianchetti Filippo, Bigli Enrico, Bucci Gaetano, Caggiati Giovanni, Calamida Franco, Capecchi Vittorio, Catone Andrea, Chiellini Giovanni,

Chirico Domenico, Ciampi Angelo, Cini Gabriele,Cipolla Nicola, Confortini Mario, Cremaschi Giorgio, D’Angelo Tommaso, De Fiores Claudio, De Luca Giuseppe,

De Simone Rosanna, Flamigni Sergio, Fugazza Marisa, Gavagna Carla, Giannangeli Ugo, Gioiello Vittorio, Gjergji Iside, Hobel Alexander, Kammerer Peter, Lucchesi Paolo, Marchetto Gianni, Marsocci Paola, Martignoni Gian Marco, Menapace Lidia, Molinari Emilio, Montella Andrea, Mordenti Raul, Moroni Loris, Navarra Alfonso, Orivoli Nello; Pagani Elio, Papetti Francesco, Piccin Gregorio, Piro Antonio, Ravasio Bruno, Rinaldini Tiziano, Roggeri Arianna, Ruggeri Angelo, Salvi Marinella, Sani Antonia, Schettino Francesco, Simonetti Raffaele, Tamburini Marco,

Tasselli Gianni , Sanpietro Tiziana, Tomba Massimiliano, Turci Gianfranco,

Turelli Antonio, Veicoli Alessandra, Zanotelli Alex, Zardetto Rina,

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Finmeccanica e la guerra

Incontro /Convegno:

Castello dei Comboniani, Venegono Superiore (VA)

L’industria delle armi alimenta le guerre.

Il ruolo di Finmeccanica.

29 Novembre 2014

 

Contributi di: Domenico Moro, Manlio Dinucci, Alex Zanotelli, Fiorenzo Campagnolo, Giansandro Bertinotti, Rossana De Simone, Ugo Giannangeli, Gregorio Piccin, Mario Agostinelli

 

Report a cura di Laura Tussi – PeaceLink

 

Dalla presentazione del convegno:

“Nell’epoca della “guerra infinita”, una delle attività considerate strategiche dallo Stato è il mantenimento delle capacità industriali e tecnologiche giudicate essenziali per la sovranità operativa dell’esercito e delle forze armate. Finmeccanica intende ri-fondarsi come azienda-potenza orientata verso i settori dell’aereospazio e della difesa, in linea con strategie aggressive. Obiettivo del convegno è l’avvio di un dibattito per individuare le criticità di questo modello economico e difensivo e per rimodulare le scelte militariste verso una produzione finalizzata ad attività civili. E se invece Finmeccanica, come agglomerato di sapere collettivo, diventasse un centro tecnologico per la progettazione e lo sviluppo di strumenti per fronteggiare il collasso del sistema climatico e l’esaurirsi delle risorse idriche ed energetiche, per lo studio di nuovi materiali o innovazioni di processo atte a ridurre i pericoli dei danni all’ambiente e i rischi degli incidenti sul lavoro, per produrre aeromobili, veicoli e robot ad uso del nostro territorio e dei suoi cittadini, non sarebbe meglio?”

 

Il convegno si è svolto nel contesto ambientale del Castello dei Comboniani a Venegono Superiore. In queste territorio della provincia di Varese sorgono alcune fra le principali industrie di Finmeccanica: Augusta Westland e Alenia Aermacchi.

Questo è il territorio che vide importanti e grandi lotte dei lavoratori e degli operai per la riconversione dell’industria bellica. Cosa è Finmeccanica dal punto di vista delle relazioni internazionali? Qual è il ruolo di Finmeccanica nella profonda crisi che stiamo vivendo? Quale tecnologia per quali guerre? Questi i tanti interrogativi posti durante il Convegno. Nelle guerre attuali si utilizzano i droni, aerei a pilotaggio remoto e il governo italiano contribuirà all’acquisto degli F35 e all’ammodernamento delle bombe nucleari statunitensi, le B61, stoccate in Italia, nelle basi Nato di Ghedi e Aviano. Il ministro della difesa Roberta Pinotti, nelle interrogazioni parlamentari, sostiene che siamo legittimati all’ammodernamento delle B61 e all’acquisto degli F35 perché facciamo parte della Nato.

Perché la guerra? quale etica percorre il nostro presente dall’articolo 11 della Costituzione alla legge 185/90 per regolare l’export di armi? Quale ruolo dei sindacati confederali e di base rispetto al piano industriale di Finmeccanica? (argomento di cui trattano Fiorenzo Campagnolo e Giansandro Bertinotti). Il presidente di Finmeccanica Moretti vuole ri-fondare e smantellare l’azienda per seguire un filone produttivo già intrapreso dall’Europa e per seguire altri settori: secondo Moretti, Finmeccanica deve dedicarsi al settore militare e non civile.

 

Nell’intervento dell’economista Domenico Moro, Finmeccanica costituisce il tema principale perché è un’azienda strategica, in quanto opera nell’aereospazio e nel militare, settori ad alta tecnologia e sensibili dal punto di vista politico e strategico. Finmeccanica è la cartina di tornasole del sistema capitalistico contemporaneo.

Il carattere internazionale di Finmeccanica si combina con la partecipazione dello Stato per il 30% e per il resto, con la presenza internazionale o di azionisti privati. Finmeccanica non è solo un’azienda italiana perché rappresenta il capitalismo contemporaneo, che si cala in un periodo storico di grandi trasformazioni economiche. Dal 1975 si sono presentate crisi di sovrapproduzione di capitale (cfr. Marx), in fasi di accumulazione capitalistica: troppo capitale che non produce profitto. Si è assistito allo sviluppo tecnologico e all’aumento della produzione che non è dedicata alla soddisfazione dei bisogni, ma al profitto. Dopo la distruzione della seconda guerra mondiale e l’ingente ricostruzione, nel 1975 si riproduce la crisi che si presenta ciclicamente nel 1980, 1990 e 2000, per un cortocircuito strutturale del sistema di produzione capitalistico. Così dal 2007 e 2008 si vive una crisi più forte di quella del 1929, con l’aumento del debito pubblico europeo e con l’effetto della distruzione della capacità produttiva nei paesi a capitalismo avanzato. Finmeccanica, interna al processo di finanziarizzazione globale in corso, sta procedendo ad una grossa fase di ristrutturazione, con l’eliminazione del settore dei trasporti. Moretti decide che se un’attività non genera profitto, secondo le regole dei mercati finanziari, la si elimina. Finmeccanica è collegata allo Stato italiano e lo Stato è collegato con le forze armate e i servizi segreti, in un contesto occidentale dominato e controllato da Inghilterra e Stati Uniti. La trilaterale Europa è un consesso del capitalismo internazionale in collegamento con Stati Uniti e Inghilterra. La trilaterale è un organismo del capitalismo transnazionale della classe capitalistica apolide con interessi intrecciati con Stati Uniti ed Europa occidentale. Negli anni ’70, la trilaterale sferra attacchi ai partiti comunisti perché essi possono nazionalizzare, mentre l’organismo capitalistico transnazionale vuole privatizzare. Attualmente si assiste ad un attacco contro i sindacati e i partiti di sinistra, con un processo di integrazione europea che ha costretto in un angolo il movimento dei lavoratori, imponendo linee di privatizzazione e internazionalizzazione dei capitali: il processo di integrazione europea è a guida del grande capitale. Quindi la ristrutturazione di Finmeccanica risulta all’interno di un processo di industrializzazione dove prevale l’accumulazione privata. Il Movimento per la Pace deve essere, invece, a favore dell’intervento dello Stato. Dobbiamo lavorare per una politica industriale che si ricolleghi ai problemi e che guardi alle vere cause della crisi mondiale e riveda il ruolo dell’Europa per il nostro Paese.

 

Come sostiene l’attivista Rossana De Simone, assistiamo a governi che finanziano le singole industrie per incentivare lo sviluppo industriale, ma non la ricerca, finalizzata a far crescere la conoscenza. Come Movimento per la Pace, contro la guerra, dobbiamo chiedere ai governi di incentivare la ricerca universitaria e che l’intero settore di Finmeccanica incentrato sull’energia, l’assistenza sanitaria, le risorse naturali, la mobilità sostenibile sia sostenuto per realizzare progetti in questa direzione. Finmeccanica non deve essere più finalizzata al settore militare, ma Moretti vuole eliminare il settore civile. Le altre nazioni al loro interno hanno laboratori tecnologici statali per le industrie innovative con idee, per fare ricerca e realizzare innovazione. Le grandi innovazioni sono sostenute da una ricerca minuziosa di prodotti competitivi, tramite finanziamenti pubblici, per il bene comune.

 

Il saggista Manlio Dinucci, nel suo intervento, spazia in molteplici spunti interessanti, tra cui le proposte di un nuovo modello di difesa, il problema delle forze armate, i corpi civili di pace, rispondendo alle domande dei partecipanti.

Il Comboniano Padre Alex Zanotelli svolge un intervento in sintonia con il suo operato personale, affrontando la questione della guerra da un punto di vista etico. Zanotelli, dalle pagine di Nigrizia, denuncia l’export, il traffico delle armi verso il terzo mondo, regolamentato dalla legge 185/90, la cui trattazione è poi ripresa dall’avvocato Ugo Giannangeli e da Gregorio Piccin.

Zanotelli attribuisce un taglio etico al discorso, in quanto oggi ci troviamo davanti all’orrore delle guerre, dall’Ucraina alla Somalia, dalla Nigeria all’Iraq, dalla Siria al Sudan: il mondo è in conflitto. Zanotelli cita l’Apocalisse per spiegare il mondo attuale: le guerre generano morti e distruzione. Attualmente i rifugiati che fuggono dalle guerre sono 51 milioni. I profughi dal sud del mondo cercano di salvarsi con le conseguenze a cui assistiamo nel Mar Mediterraneo: un disastro. Dobbiamo assumere la sofferenza di questa gente, dei disastri umanitari, delle atrocità. Davanti allo spettro delle guerre dobbiamo riconoscere che siamo prigionieri del complesso militare industriale mondiale. Siamo prigionieri di questo complesso che serve a difendere un sistema economico e finanziario, che permette a pochi privilegiati di consumare a una velocità incredibile: il 10% della popolazione mondiale consuma il 90% dei beni prodotti nel pianeta, con conseguenze disastrose e devastanti, con miliardi di persone che soffrono la fame e con conseguenze irreversibili sull’ecosistema. Impieghiamo denaro e finanziamenti in un sistema di morte. Anche a livello italiano spendiamo soldi in armi pesanti, per difendere gli interessi del 10% della popolazione del mondo che non vuole mettere in discussione il proprio benessere: il sistema deve essere invece radicalmente messo in discussione. Un vero sistema camorristico. Il cuore del sistema sono le banche, per cui è importante intraprendere una vasta campagna contro le banche armate.

È essenziale seguire il monito del grande Partigiano e Padre Costituente dell’ONU, Stéphane Hessel, che lancia un appello mondiale nel suo libro postumo, in esclusiva per l’Italia, dal titolo emblematico “Esigete! un disarmo nucleare totale” (EDIESSE 2014), sottolineando l’importanza di metterci insieme e di rispettarci attraverso reti di attivismo e di persone impegnate per la pace e il disarmo. Padre Alex Zanotelli conclude l’intervento, citando Martin Luther King: “Dobbiamo imparare a vivere tutti insieme come fratelli, altrimenti moriremo tutti come idioti”.

Mario Agostinelli, tra i curatori dell’edizione italiana di ESIGETE!, insieme a Luigi Mosca ed Alfonso Navarra, ha trattato la geopolitica dell’energia, sottolineando come la questione energetica sia uno dei pilastri della sicurezza nazionale ed internazionale. Secondo Agostinelli la conversione al 100% rinnovabile dell’attuale sistema energetico e il suo decentramento sul territorio abbinato alla riduzione dei consumi – modello peraltro finalmente democratico che avanza e possiamo incrementare in Italia e in Europa – costituisce una alternativa praticabile già ora con successo.

Contro il nucleare civile (che è alla fin fine militare), contro i combustibili fossili e l’alterazione del clima, contro lo spreco sociale ed ambientale, per il risparmio, l’efficienza e la valorizzazione dei beni comuni e, infine, per una piena occupazione oggi bandita dal neoliberismo, la via delle fonti rinnovabili è un contributo, dal punto di vista di Energia Felice e degli obiettori alle spese militari e nucleari, indispensabile alla costruzione di una società più libera e giusta, pacifica nella sua più intima e fondamentale struttura.

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