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Nell’economia delle miniere non è tutto oro quel che luccica

di Daniela Patrucco

Le popolazioni amazzoniche indigene proteggono e conservano le foreste. Il forte legame tra un popolo indigeno e il suo territorio e il rispetto fondamentale che le comunità indigene hanno verso gli ecosistemi da cui dipendono sono fattori chiave per mantenere la ricchezza ecologica delle terre indigene. L’America Latina è la più grande riserva di minerali metallici in tutto il mondo. I più ambiti sono oro e argento ma tantissime sono le risorse del sottosuolo la cui estrazione mette a repentaglio enormi aree, che garantiscono la sopravvivenza stessa del Pianeta. La resistenza delle popolazioni locali e indigene alle violazioni ambientali è causa della delocalizzazione forzosa di intere comunità, di violenze di ogni genere nei confronti dei giovani e delle donne, di crimini e persecuzioni ai danni degli attori sociali. Nonostante tutto, c’è una resistenza determinata e vitale, nonviolenta, creativa e propositiva, che si alimenta di sempre nuove energie. Una resistenza che riflette sull’inopportunità di depredare e svendere le risorse naturali del sottosuolo e si chiede cosa succederà quando queste risorse saranno esaurite?

 

COP20 di Lima: un fondo territoriale indigeno per il clima

 
Dove ci sono territori indigeni si ha 7 volte meno deforestazione (0,2%) che nelle aree protette (1,4%). I popoli indigeni dei nove paesi amazzonici proteggono 210 milioni di ettari di foreste che forniscono una serie di servizi per l’umanità. Il WWF ha dichiarato che l’80% delle più ricche “ecoregioni” del mondo è abitato da comunità indigene. La tutela della grande quantità di carbonio delle foreste in territori indigeni e aree protette – che è il 55% del carbonio di tutta regione amazzonica – è cruciale per la stabilità del clima globale, per l’identità culturale degli abitanti della foresta e per la salute degli ecosistemi in cui essi vivono.
Le foreste affidate ai popoli indigeni catturano ogni anno 26.250 milioni di tonnellate di carbonio e 96, 075 mila tonnellate di CO2. Questi numeri equivalgono a tutte le emissioni di CO2 a livello mondiale del 2010, 2011 e 2012 sommati tra loro.

 

Nel quadro della COP20 di Lima le popolazioni indigene  – organizzate in una rete di 5.000 comunità  – hanno chiesto di essere titolari di 20 milioni di ettari in Amazzonia e 400 milioni nel resto del mondo. Per la prima volta nella storia le organizzazioni indigene e comunitarie dell’Africa, Asia e America Latina – territori che rappresentano l’85% delle foreste tropicali del mondo – si sono unite per richiedere la creazione di un fondo territoriale indigeno per il clima. L’obiettivo è il rafforzamento dei diritti dei popoli indigeni e il loro sostegno nella protezione delle foreste tropicali nel mondo, prima che deforestazione e degrado avanzino ulteriormente.

 

Il prezzo pagato dalle comunità e dai popoli indigeni dell’America latina: le miniere

 

Nello stato di Minas Gerais (Brasile) c’è una piccola comunità, Bean Creek, recentemente minacciata da una nuova società mineraria, la “Green Metals” che vuole installarsi sul suo territorio. La semplicità della vita quotidiana di questa comunità (i fagioli, le radici e la cultura popolare) è minacciata dall’ignoto – estraneo e incomprensibile – che arriva senza permesso e senza che alcuno sia stato consultato, spesso per conto di grandi aziende come la Vale SA, una multinazionale che domina tutta la regione.  E’ soltanto un esempio microscopico di ciò che sta accadendo in tutta l’America Latina e nel resto del mondo.

 

L’America Latina è la più grande riserva di minerali metallici in tutto il mondo – i più ambiti sono oro e argento – e poiché circa il 90% delle miniere sono a cielo aperto, la loro estrazione causa la contaminazione delle acque di superficie e sotterranee, nonché del suolo e dell’aria. Il caso dell’oro è paradossale: “solo il 10% di quello estratto viene utilizzato nella tecnologia, mentre il 40% diventa gioielleria e il rimanente 50% investimento finanziario. Esce dal sottosuolo dei territori e degli ecosistemi vivi per andare a finire nel sottosuolo dei territori finanziari: le banche” (Sursiendo http://sursiendo.com/blog/2014/01/repensar-el-uso-de-metales-frente-al-modelo-extractivista/).
L’ossessione del mondo per i minerali è in crescita. Ciò è dovuto principalmente all’avanzare di una nuova classe media globale, principalmente in Asia, che si ispira ai modelli di consumo dei paesi industrializzati. Si prevede che in 20 anni i soli BRIICS (Brasile, Russia, India, Indonesia, Cina e Sud Africa) raddoppieranno il loro prelievo complessivo di minerali metalliferi (2,2 miliardi di tonnellate nel 2002- 4,4 nel 2020). Se questa resterà la velocità di estrazione, le riserve mondiali di minerale di ferro saranno esaurite in 41 anni, in 48 quelle di alluminio, rispettivamente in 18 e 16 rame e zinco. Il meccanismo è perverso perché la crescita della domanda mondiale, la riduzione delle migliori riserve di minerali e la possibile scarsità di alcuni minerali a medio termine determinano un generale aumento dei prezzi. Ciò causerà probabilmente una rapida espansione delle miniere esistenti e l’intensificazione della ricerca di nuovi giacimenti. Dopo la colonizzazione e il saccheggio delle miniere e altri beni comuni per arricchire le casse delle metropoli nazionali, ancora una volta il Brasile accoglie il modello di esportazione delle commodities come una soluzione pronta per la generazione di facile rendita.

 

Una realtà perversa, anche nei paesi in cui l’intensificazione dell’estrazione di minerali e idrocarburi è giustificata con gli investimenti da parte dello Stato in programmi contro le povertà sociali. Il modello economico estrattivo si basa su profonde ingiustizie ambientali: “società diseguali dal punto di vista economico e sociale caricano il maggior peso del danno ambientale dovuto allo sviluppo alle popolazioni a basso reddito, gruppi razziali discriminati, comunità etniche, tradizionali quartieri della classe operaia, emarginati e popolazioni vulnerabili” (Acselrad H. et al., “O que é injustiça ambiental”, Garamond, 2008)“. Secondo la teoria dell’”ecologismo dei poveri”, la maggior parte degli attuali conflitti sociali in America Latina è causata dalle minacce e dagli impatti ecologici: i poveri cercano di mantenere il controllo delle risorse ambientali di cui hanno bisogno per vivere, con la minaccia che queste diventino proprietà dello Stato o proprietà privata capitalista.
La reazione a catena dei numerosi singoli progetti. L’impatto dell’industria mineraria non si limita alle zone immediatamente circostanti le miniere. Nella maggior parte dei casi l’impatto locale è solo uno degli esiti di un modello economico che ha forti influenze sulle decisioni politiche degli stati, e che pertanto incide sugli equilibri e i destini di intere società. Inoltre, tutti i grandi progetti minerari hanno bisogno di una solida infrastruttura di supporto per la generazione e la fornitura di energia, per l’accumulo della grande quantità di acqua necessaria, per trasportare il minerale attraverso condutture, strade, ferrovie e porti.
In Brasile, ad esempio, il treno più lungo del mondo ha 330 vetture che si snodano lungo 900 km di ferrovia: si tratta di una concessione a favore della Vale SA per esportare il minerale di ferro amazzonico del Carajás in Cina, Giappone ed Europa. Una ferrovia delle stesse dimensioni è stata costruita dalla stessa azienda tra il Mozambico e il Malawi per il trasporto del carbone.

In Perù, il tanto contestato gasdotto di Camisea è principalmente destinato ad alimentare i grandi progetti minerari nel sud del Brasile. Sempre in Perù, mano nella mano con il famigerato progetto minerario “Conga”, che ha mobilitato migliaia di persone in manifestazioni sorprendenti (http://www.yanacocha.com.pe/proyecto-conga/) cammina anche il progetto idroelettrico Chadin (http://minacorrupta.wordpress.com/tag/chadin-2/), della società di costruzioni brasiliana Odebrecht, con un’enorme diga che ostacola il rio Marañón, uno dei più grandi affluenti del Rio delle Amazzoni. Sono molte e diverse le persone e le comunità che si ritengono colpite dall’estrazione mineraria, con diverse conseguenze. Alcune tra le principali offrono qualche spunto di riflessione.
Gli impatti ambientali più evidenti delle attività estrattive sono la deforestazione (Carajás, Brasile), le enormi quantità di rifiuti residui (Lake Sandy Pond in Canada, che scomparirà a causa del materiale di scarto in esso smaltito), l’inquinamento prodotto dalle industrie che compongono la catena estrattiva (La Oroya – Perù, Piquiá de Baixo e Santa Cruz, Brasile) e l’enorme consumo di acqua (le grandi miniere del Cile possono consumare 13 metri cubi di acqua al secondo, corrispondente al consumo di acqua medio per secondo di oltre 6 milioni di persone). Il progetto minerario Pascua Lama (Cile-Argentina) dimostra quanto sia impattante l’estrazione dell’oro: per ottenere un grammo d’oro è necessario rimuovere 4 tonnellate di roccia, consumando 380 litri di acqua, 1 kg di esplosivo e quasi la stessa quantità di cianuro. L’energia richiesta per separare 1 g di oro può essere paragonata a quella consumata mediamente in una settimana da una famiglia argentina. Il fenomeno di drenaggio acido, per la presenza della pirite che degenera in acido solforico, influenza la falda dei territori dove avviene l’estrazione mineraria. Le conseguenze perdurano per migliaia di anni e sono particolarmente acute quando le miniere sono poste vicino alle sorgenti a causa della contaminazione delle acque dell’intero bacino.
Gli spostamenti forzosi delle popolazioni. Per fare spazio ai progetti minerari e alle infrastrutture connesse molto spesso famiglie o intere comunità sono espulse dai loro territori. Le comunità rurali e urbane sono reinsediate in condizioni e contesti in molti casi peggiori di quelli in cui sono vissuti. Per far posto alle miniere di carbone sono state reinsediate le comunità di Cateme e 25 de Setembro in Mozambico e El Hatillo, Piano Bonito e Boqueron in Colombia; la comunità di Piquiá de Baixo, in Brasile, è un raro caso in cui è la comunità stessa a chiedere il reinsediamento a causa delle disperate condizioni di inquinamento cui è condannata.

Sebbene la Convenzione n. 169 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro raccomandi di consultare e ottenere il consenso delle comunità indigene e tradizionali prima dell’avvio di qualsiasi tipo di attività produttiva nel loro territorio, nella maggior parte dei paesi il processo di consultazione è spesso inesistente, estremamente precario e volutamente inefficace. In questo modo le comunità indigene subiscono gli effetti della deforestazione, la fuga degli animali da cacciare, la perdita di controllo dei territori e la riduzione delle loro dimensioni. È il caso, ad esempio, del popolo Shuar in Ecuador o Awa-Guajá in Brasile.
La negazione del futuro e la violenza sui più giovani. L’industria mineraria stabilisce vere e proprie economie di enclave nei territori in cui decide di operare. Che significa che la maggior parte delle iniziative locali rientrano nel settore minerario, che diventa una prospettiva economica quasi esclusiva. Questo processo – che garantisce gli interessi di alcune minoranze influenti a livello economico e politico, nazionale e internazionale – molto raramente permette agli attori economici locali e alle comunità di pianificare e diversificare i propri investimenti, scegliendo attività alternative come l’agricoltura familiare o la micro-impresa in altri settori produttivi. Poiché le politiche di sviluppo regionale sono fondate sul diritto alla partecipazione da parte di chi abita il territorio, queste tendono a promuovere incentivi fiscali e finanziamenti per i progetti del settore minerario, boicottando altri punti di vista e prospettive. La mancanza di alternative gioca a favore delle miniere: genera manodopera a basso costo che si concentra, geograficamente ed economicamente, e si vincola permanentemente alla filiera estrattiva. Si tratta a volte di vere e proprie migrazioni verso il moderno “Eldorado”, che in contesti di povertà e con il fallimento del ruolo dello Stato inducono l’idea di sviluppo. Si tratta invece di un falso sviluppo, con una crescita incontrollata che provoca caos e violenza. Marabà e Parauapebas – le città dello Stato del Pará (Brasile) più vicine al Carajás, la più grande miniera di ferro del mondo –  sono tra le città più violente del Brasile: in queste città la probabilità di un giovane uomo di essere ucciso da un’arma da fuoco o da taglio, è del 25% superiore a quella dell’Iraq, un paese con uno dei più alti tassi di mortalità da conflitti armati.

La criminalizzazione degli attori sociali. Chi critica la grande industria mineraria è esposto a persecuzione giudiziaria, minacce, diffamazione, spionaggio, omicidio. La banca dati sui conflitti minerari in America Latina descrive in dettaglio 198 casi ancora aperti di conflitto nel continente, conflitto che interessa 297 comunità. L’attacco ai movimenti sociali e alle comunità è palese e a volte istituzionale. Nel 2010 l’allora presidente del Perù Alan Garcia definì “nemici dello sviluppo” gli ambientalisti e gli attivisti per i diritti delle popolazioni indigene: secondo il Presidente costoro erano affetti dalla sindrome Nimby. Non cambia molto tra i cosiddetti governi progressisti. Nel 2007 il presidente dell’Ecuador Rafael Correa, dichiarò “E’ finita l’anarchia. Tutti coloro che si oppongono ai progressi del paese sono terroristi. Chi farà manifestazioni con blocchi stradali sarà punito nella misura massima consentita dalla legge. Non sono le comunità che protestano, ma un piccolo gruppo di terroristi. Gli ambientalisti romantici e gli ecologisti infantili sono quelli che vogliono destabilizzare il governo”.
In molti casi, si crea strategicamente un falso dilemma tra l’interesse collettivo e la tutela dei diritti umani e della natura. Recentemente i coordinamenti dei movimenti sociali che in Brasile si oppongono ai grandi progetti minerari sono stati spiati con l’infiltrazione di agenti segreti delle forze pubbliche e private di sicurezza. Dallo spionaggio alla persecuzione fisica e alla violenza il passo è breve. Lo dimostrano alcuni dei peggiori massacri: il Bagua, in Perù nel 2009, con decine di indigeni dispersi e 28 poliziotti uccisi; il ponte ferroviario di Marabà, in Brasile nel 1987, con la morte di diversi minatori; l’Eldorado dos Carajás, in Brasile nel 1996, a opera della polizia militare brasiliana con il sostegno apparente della società Vale SA e la morte di 21 lavoratori rurali del MST.
La violenza contro le donne. Raramente percepita come violenza di genere, l’estrazione mineraria su larga scala ha una dimensione che riguarda intensamente la vita delle donne a causa degli impatti già descritti. La sottrazione della terra è una violenza soprattutto contro le donne, che in molti casi sono responsabili della salute e della sicurezza alimentare della casa.  Spesso hanno inoltre subito l’uccisione o il rapimento dei loro mariti e sono minacciate affinché vendano le loro terre alle compagnie minerarie. Nelle aree minerarie in cui si realizzano grandi progetti si sono intensificate le aggressioni fisiche ed è aumentato lo sfruttamento sessuale. Infine, i grandi progetti tendono (spesso deliberatamente) a smantellare il tessuto sociale delle comunità: si perde un ambiente di sicurezza e protezione, nonché la possibilità di partecipazione. Anche in questo caso, le principali vittime sono donne.

La Resistenza. Il conflitto racchiude anche vitalità, creatività, fermezza e fiducia nella lotta intrapresa e nelle alternative proposte dalle comunità. Diversi i referenti di quella che è una vera e propria forma di resistenza: all’Observatorio de Conflictos Mineros in America Latina (OCMAL), al Movimiento Mesoamericano contra el Modelo extractivo Minero (M4) e al Coordinamento Internazionale delle Vittime della Vale, sì è aggiunta più di recente Justica Nos Trilhos, la rete dei religiosi e dei legali in lotta contro l’estrazione mineraria del continente.

 

“In tutti questi spazi di resistenza – ci dicono Padre Dario Bossi e Danilo Chammas di Justica Nos Trilhos  – la questione non è se siamo a favore o contrari all’industria estrattiva. Il fatto è che in un tempo molto prossimo dovremo saper vivere senza miniere, perché le risorse saranno esaurite. Cosa fare nel frattempo? Aspettare quel giorno per risolvere il problema, o trasformare rapidamente e radicalmente il modello estrattivo del nostro continente?”

 

Tre le principali linee di azione della Rete:

– il rifiuto di un’economia basata sull’estrazione mineraria, attraverso proteste contro nuovi progetti di grandi dimensioni di miniere e infrastrutture collegate; il riconoscimento dell’illegittimità di alcuni progetti, con azioni legali e manifestazioni, e la richiesta di leggi che proibiscano l’attività mineraria, inquinante e incontrollata; campagne internazionali, come “L’acqua vale più dell’oro” che ha ricevuto anche il sostegno di Papa Francesco;

– la garanzia dei diritti individuali e collettivi dove ci sono già impianti consolidati, con appelli alle istituzioni per la mitigazione e la piena riparazione delle violazioni dei diritti umani, il rallentamento dell’espansione degli impianti e la ricerca di altre attività socio-economiche da combinare con l’attività mineraria;

– la promozione di diversi stili di vita e alternative economiche in vista della dismissione delle miniere, con dibattiti e azioni di lungo termine nelle regioni e nei paesi minerari.

 

Fonti e articoli originali:

– Nem tudo que reluz é ouro – Os impactos da mineração sobre os direitos humanos – Por Pe. Dário Bossi e Danilo Chammas (in portoghese, inviato dagli autori)

– Donde hay territorios indígenas hay 7 veces menos deforestación que en las áreas protegidas

http://www.cop20.pe/ck/donde-hay-territorios-indigenas-hay-7-veces-menos-deforestacion-que-en-las-areas-protegidas/

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Expo 2015, considerazioni sul Protocollo Milano, Capitale del Cibo

di Antonio Lupo

Al Convegno CIBO E SOSTENIBILITÀ AMBIENTALE del 6 Novembre 2010 – nel corso della Tavola Rotonda “Milano Sostenibile” Giuseppe Sala, Amministratore Delegato Expo 2015 disse:

“ …. non mi convince l’impostazione iniziale  data ad Expo troppo agreste, troppo verde…. bisogna fare qualcosa  che vada nell’ottica di attirare l’attenzione di 20 milioni di visitatori.

Questo è fondamentale per la  nostra economia,  perché  qualunque Expo che non veicola molta gente è  considerato un insuccesso. ….L’Expo  è fatto di queste regole: Quando parlo con un Paese Partecipante  devo dirgli con chiarezza che spazio gli do e dove, cosa gli chiedo di  fare sulla ristorazione, le regole ingaggio, in sintesi, se immaginiamo che Expo possa essere una cosa  diffusa solo a carattere sociale che porta meno di 20 milioni di persone a Milano è una cosa sbagliata e inopportuna, bisogna coniugare il diavolo con l’acqua santa e attirare 20 milioni di persone.”

Questo è il significato che il massimo responsabile di Expo attribuisce ad  un evento con un logo così importante come: “Nutrire il pianeta, Energia per la vita”?

Molti cittadini, movimenti e organizzazioni si sono impegnati in questi anni su questo tema, con analisi e proposte concrete.

Alcune realtà, come i NO Expo contestano, dall’esterno, e chiedono di annullare l’evento;  altre promuovono iniziative all’interno di Expo, tra le 7000 manifestazioni istituzionalmente previste, per  “controbilanciare il protagonismo eccessivo che avranno le istituzioni e le multinazionali dell’agrobusiness. Queste associazioni hanno elaborato nel 2011 il Manifesto Expo dei Popoli, centrato sulla Sovranità Alimentare, giustizia ambientale e diritti umani.

Altre grandi associazioni ancora, purtroppo hanno sottoscritto  il Protocollo proposto dalla multinazionale Barilla condiviso a Parma da Matteo Renzi il 20 Novembre 2014,  poi ratificato a Milano il 3 Dicembre 2014 come “ Protocollo di Milano per la nutrizione e alimentazione”, protocollo che sarà certamente l’ossatura della neoelaboranda  Carta di Milano, che Renzi lancerà a Milano il 7 Febbraio e per cui sono previsti 40 tavoli di lavoro.

 

In questo mio contributo ho selezionato i  punti a mio parere più significativi del Protocollo ( in corsivo), al fine di dare un giudizio su di esso, ma desidero premettere la mia completa adesione a Via campesina Internazione, un movimento globale di 200 milioni  di contadini, che sostiene la Sovranità Alimentare e l’Agroecologia, il cui motto è “ I piccoli contadini possono alimentare l’umanità e raffreddare il pianeta”.

 

Difatti è  dimostrato da tempo che l’agrobusiness da cibo solo al 30% degli abitanti del pianeta, pur disponendo dell’80 per cento della terra arabile e del 70 per cento di acqua e carburante per l’uso agricolo ed è responsabile, con il suo modello di produzione di cibo, che fa gran uso massiccio di energia, pesticidi e antibiotici, dell’emissione di circa il 50% dei gas serra totali.

 

                                              Il Protocollo Milano

Già nell’introduzione, dopo aver  confermato che “si sta rapidamente erodendo la capacità del pianeta di rigenerare il capitale ambientale”, si dice che “la grande sfida che le società contemporanee si trovano ad affrontare è quella di riconciliare la sostenibilità socioeconomica e ambientale con la crescita socioeconomica e il benessere”.

Come? “ facendo di più con meno, migliorando con minori risorse

Miracolo tecnologico o per dirla con Sala “ coniugare diavolo ed acqua santa”?

Subito si afferma che bisogna “rendere la nostra economia efficiente in termini di energia e di risorse, attraverso le quali affrontare le ineguaglianze sociali

Ritengo che questo sia il fulcro Protocollo, il giudizio che le ineguaglianze sociali attuali sono frutto dell’inefficienza economica e della mancanza di innovazione tecnologica .

Un giudizio falso, che nasconde le responsabilità delle multinazionali, del sequestro operato da queste d’ogni sovranità sui semi e sulla filiera alimentare, delle guerre economiche, sociali e ambientali in atto.

 

Quindi inizia l’analisi della situazione mondiale, denunciando l’esistenza di 3 Paradossi:

1-  SPRECO DI ALIMENTI

2-   AGRICOLTURA SOSTENIBILE

3 – COESISTENZA TRA FAME E OBESITÀ

 

Questa assurda graduatoria, è di certo proposta lucidamente e indica già l’obiettivo principale del Protocollo: polarizzare al massimo l’attenzione sugli sprechi, cioè su quello che le multinazionali dell’agrobusiness e della grande distribuzione non riescono più a vendere, (surplus che viene buttato via), invece di voler ridurre la produzione, renderla sostenibile e distribuire equamente quello che viene attualmente prodotto.

Se non fosse stato questo l’obiettivo, l’ordine avrebbe dovuto essere  quest’altro:

1-AGRICOLTURA SOSTENIBILE

2-COESISTENZA TRA FAME E OBESITÀ

3 e per ultimo SPRECO DI ALIMENTI

 

Analizziamo cosa dice il Protocollo sui 3 Paradossi:

– sul paradosso AGRICOLTURA SOSTENIBILE si dice:

” Nonostante l’enorme diffusione della fame e della malnutrizione, una grande percentuale dei raccolti è utilizzata per la produzione di mangimi e di biocarburanti . Un terzo della produzione agricola globale è impiegato per nutrire il bestiame ”.

Cosa solo in parte vera, ma falsa nella sostanza per come viene posta, perché non si vuol dire che oggi la produzione di cereali è già sufficiente a dar da mangiare a 9 miliardi di  persone  e quindi: distribuirli equamente è la soluzione immediata e principale per gli  805 milioni di ancora affamati e malnutriti, dopo il miserabile fallimento degli Obbiettivi del Millennio.

E continua

La speculazione finanziaria eccessiva e dannosa sulle materie prime aggrava ulteriormente il problema, favorendo la volatilità del mercato e l’aumento dei prezzi alimentari.”

Si accetta quindi che il cibo sia una merce qualsiasi, ( non un diritto) da quotare in borsa, sulla quale si può speculare ma non eccessivamente. Esiste una speculazione non eccessiva e non dannosa ! 

 

-sul problema della Coesistenza tra fame e obesità, si parte dai dati inoppugnabili della realtà “oltre 2,1 miliardi  di persone obese o in sovrappeso, mentre 36 milioni di persone  ogni anno muoiono per denutrizione e carestia, con la morte di 4.000 bambini ogni giorno”.

Però il problema viene liquidato con “ uno squilibrio globale della ricchezza e delle risorse, secondo il quale una parte della popolazione mangia in quantità eccessive mentre un’altra parte stenta a sopravvivere”.

Come se fosse colpa degli obesi che tolgono cibo agli affamati. L’obesità stessa è invece, una piaga della povertà e del cibo spazzatura.

 

-sullo SPRECO DI ALIMENTI ci si limita a dire: “1,3 miliardi di tonnellate di cibo commestibile sono sprecati ogni anno, ovvero un terzo della produzione globale di alimenti e quattro volte la quantità necessaria a nutrire gli 805 milioni di persone denutrite nel mondo.

Non si dice che lo spreco è sovrapproduzione dell’industria agroalimentare, è il risultato di un modello distributivo insostenibile.

 

Questa parte iniziale  del protocollo si conclude “Sono necessari interventi globali e complessi per creare modelli di consumo e produzione sostenibili, capaci di riconciliare il rispetto per il pianeta con il benessere dei suoi abitanti.

I Governi e le Istituzioni hanno una forte responsabilità nel porre rimedio a questi tre paradossi, riconoscendo la semplice verità che la fame degli esseri umani dovrebbe avere la precedenza sulla fame per la crescita sfrenata.

Questi problemi sistemici sono di natura politica e necessitano pertanto di soluzioni politiche. Tutti questi paradossi costituiscono una minaccia al diritto dell’uomo al cibo e provocano seri danni sociali e ambientali

 “si conferma il “diritto al cibo sano, sicuro e sufficiente” come un diritto umano, che implichi  una forte base giuridica e politica attraverso un Quadro sul Diritto al Cibo supportato dall’ONU.”

Parole che fanno a pugni con quanto sostenuto nei principi ispiratori, che diventano perciò  petizioni di principi.

(Tra l’altro da sempre sostenuti dai movimenti della terra e dell’acqua che non hanno voce in Expo e da sempre contrastati da governi e multinazionali).

 

Dopo queste premesse il Protocollo prevede i seguenti  Impegni e Linee guida :

“1. Primo Impegno: Spreco di alimenti

-Le Parti si impegnano a ridurre del 50 per cento entro il 2020 l’attuale spreco di oltre 1,3 milioni di tonnellate di cibo commestibile

 -Le parti devono concordare su una definizione condivisa di perdita e spreco di cibo;

individuare la natura della perdita e dello spreco di cibo è essenziale per sradicare la fame a livello globale; affrontare la questione ad ogni stadio della filiera alimentare, per creare una filiera informata

-Cooperazione tra agricoltori e accordi verticali a lungo termine nella filiera alimentare per una migliore pianificazione della domanda dei consumatori, in termini sia quantitativi che qualitativi;

Valutazione dell’impatto dei sussidi alimentari e agricoli che riducono i prezzi e diminuiscono il valore del cibo percepito dai consumatori, aumentando di conseguenza gli sprechi alimentari ( ma i poveri e i bassi salari non contano?);

-Considerare modelli economici alternativi valutati sulla base del loro impatto sul benessere umano e ambientale, piuttosto che dare priorità alle misure di crescita tradizionali come il PIL

 

  1. Secondo Impegno: Agricoltura sostenibile

Le Parti si impegnano a promuovere forme sostenibili di agricoltura e produzione alimentare. con particolare attenzione alle problematiche ambientali, agricole e socioeconomiche:

Biodiversità e agrobiodiversità:  le Parti valuteranno le diverse proprietà del germoplasma, per impedire la monopolizzazione delle imprese internazionali, la scelta tradizionale e appropriata delle colture….

Gestione delle risorse del territorio, idriche ed energetiche:

Le Parti utilizzeranno la contabilità verde, l’acqua virtuale e altri strumenti di valutazione multicriteriale efficaci per stimare e attribuire un adeguato valore monetario e non monetario ai servizi ecosistemici e all’apporto per il sistema delle materie prime (come l’acqua e l’energia) incorporate nei prodotti alimentari e impiegate nella produzione alimentare.

Mitigazione e adattamento al clima:

 Le Parti implementano pratiche agricole che contribuiscano alla decarbonizzazione come la cattura e il sequestro del carbonio.  

-Sovvenzioni agricole:

 Le Parti si impegnano a riformare le sovvenzioni agricole in modo da considerare non solo la capacità di produzione degli agricoltori, ma anche il grado di sostenibilità dei loro metodi agricoli e dei materiali locali.

I contributi a favore delle produzioni OGM o della conversione del 30 percento del mais USA in etanolo non fanno altro che esacerbare ulteriormente il problema della carenza di cibo.

-Benessere degli animali da allevamento

  Le Parti cercheranno di prendere in considerazione le 5 libertà degli animali da allevamento:          1) Libertà dalla sete, dalla fame, dalla cattiva nutrizione

2) Libertà di avere un ambiente fisico adeguato

3) Libertà dal dolore, dalle ferite, dalle malattie

4) Libertà di manifestare i normali comportamenti della specie a cui si appartiene

5) Libertà dalla paura e dal disagio

-Impatto ambientale:

Le Parti incoraggiano lo sviluppo di indicatori globali per la misurazione della performance economica, ambientale e sociale dei diversi sistemi di allevamento (ad esempio, con o senza pesticidi o fertilizzanti e con o senza rotazione delle colture, metodi di irrigazione) e il loro impatto sugli obiettivi di sostenibilità globale.

Educazione e Promozione di pratiche sostenibili:

Le Parti investono nel capitale umano degli agricoltori come custodi della terra,

 -Le Parti riconsiderano l’utilizzo dei biocarburanti e i loro impieghi industriali come le bioplastiche, limitano al 5 % la proporzione tra raccolti per biocarburanti e raccolti destinati all’alimentazione nei loro obiettivi nazionali per le energie rinnovabili;

-investigano l’opportunità di rilasciare o sospendere le autorizzazioni per la produzione di biocarburanti,

-da rivedere la ripartizione dell’approvvigionamento di cibo per i mangimi, considerando la sicurezza alimentare e l’accesso al cibo come prioritari.

-Considerare metodi più sostenibili per nutrire gli animali come la pastura, il pascolo, l’uso di sottoprodotti agricoli

-Ridurre al minimo l’utilizzo di antibiotici per evitare la resistenza agli antibiotici e/o i rischi per la salute umana.

garantire ai piccoli produttori alimentari, specialmente le donne, l’accesso ai materali adeguati per le piantagioni, all’educazione, agli input, alle conoscenze, alle risorse produttive, ai mercati, alle infrastrutture, alle fonti di guadagno e ai servizi.

-le Parti si impegnano a identificare e registrare la proprietà e l’uso dei terreni.

-Le Parti  lavorano ad un quadro normativo per la speculazione finanziaria sulle materie prime alimentari, ad introdurre dei massimali quanto al numero e alle dimensioni delle offerte che gli speculatori possono emettere, per porre un freno ad una speculazione eccessiva e migliorare la trasparenza, assicurando in tal modo che i contratti future prevedano scambi regolamentati e trasparenti.

Questo comporta la sensibilizzazione delle banche, dei fondi pensione e delle assicurazioni sulla questione, affinché possano gradualmente astenersi dallo speculare sulle materie prime alimentari. Questo tipo di speculazione è una minaccia al diritto dell’uomo al cibo.

 

 

  1. Terzo Impegno: Eradicare la fame e combattere l’obesità

 

-“ Assicurare l’accesso ai piccoli e giovani produttori di cibo. ….

 

-Adoperarsi per rendere l’equità una caratteristica intrinseca allo sviluppo economico; …

-porre un freno all’aumento dell’obesità, garantendo che non vi sia alcun aumento nel sovrappeso infantile e nell’obesità adolescenziale e adulta entro il 2025 …che il numero di bambini in sovrappeso sotto i 5 anni di età non debba aumentare dai 44 milioni stimati nel 2012 a circa 60 milioni come previsto.

-Le Parti si impegnano a porre fine alla fame e alla denutrizione e ai decessi ad essi correlati sulla base dei SDGs, il nuovo paradigma globale dello sviluppo e successore dei MDGs

– Una delle molteplici cause della fame e della denutrizione è la povertà (i bambini più poveri nei paesi più poveri corrono un rischio doppio di diventare denutriti cronici rispetto ai loro coetanei più benestanti), assieme all’instabilità politica, ai conflitti perenni, alla mancanza di infrastrutture e all’impossibilità per molti paesi poveri di trarre correttamente e sufficientemente beneficio dal commercio o dalle risorse naturali

-Relativamente alla denutrizione, le Parti si impegnano a compiere interventi diretti e indiretti, come gli integratori di micronutrienti, bonifica delle acque, politiche di occupazione per rispondere alla carenza di circa 3,5 milioni di operatori sanitari e il consolidamento dell’approvvigionamento degli alimenti di base.

-Le Parti si impegnano a porre un freno all’aumento dell’obesità e del sovrappeso facilitando la ricerca scientifica su questioni relative ai modelli nutrizionali e al loro impatto sulla salute

-Limitare la pubblicità e il marketing verso i bambini per prodotti a base di grassi saturi ad alto valore energetico, acidi grassi trans, zuccheri liberi o cibi ad alto tenore di sale;

 

Le Parti incoraggiano la creazione di iniziative di partenariato pubblico-privato volte a colmare la carenza di conoscenze sulle relazioni tra dieta e salute, con particolare riferimento all’infanzia e all’adolescenza.

 

                                    Alcune brevi valutazioni politiche

Il protocollo di Milano allega una bibliografia imponente e autorevole e  non va certamente demonizzato.

Contiene alcune analisi e proposte certamente innovative e condivisibili, ma l’impianto che ignora la necessità di una riconversione dall’agricoltura industriale a partire dai territori e dall’agricoltura familiare, le priorità che suggerisce, l’omissione di argomenti come l’acqua, il diritto all’acqua e il peso inquinante dell’agricoltura industriale sulla qualità delle acque di falda, la sovranità alimentare, la netta opposizione agli OGM alcune affermazioni inaccettabili e alcuni firmatari assai discutibili come il fondo speculativo sull’acqua ( Water global fund ) mi fanno dire, senza alzare la voce: NO buono.

Ho riferito in precedenza alcune analisi e proposte più che accettabili, ora vorrei analizzare brevemente i motivi, non solo formali, che me lo fanno rifiutare.

Della priorità data agli sprechi  ho già accennato.

Quello che non riesco a digerire è che si possa offrire agli affamati ( che sono per l’80% proprio i contadini poveri, quelli che in India, in Brasile o in Africa, non vogliono essere obbligati a trasferirsi nelle bidonville delle megalopoli,  per fare la manovalanza delle mafie o le donne le prostitute!) come principale soluzione  il doversi nutrire di sprechi e di scarti dell’agrobusiness e della grande distribuzione, attualmente in grande sofferenza per la crisie con i magazzini stracolmi.

Sprechi dati ai poveri, magari pagati dalla comunità e dai Governi.

 

Si parla di  “Assicurare l’accesso ai piccoli e giovani produttori di cibo, di Sicurezza Alimentare”, ma nel Protocollo non c’è la parola SEMI, non si parla del diritto ai Semi, che sono un Bene Comune, si sorvola sugli OGM e sui brevetti dei semi OGM,  si parla di sussidi da regolamentare, ma non si usa la parola dumping, quello praticato sui  piccoli contadini di tutto il mondo, spietato in particolare quello praticato sui contadini africani, che li rovina e butta fuori dal mercato.

Un dumping causato e sostenuto dai sussidi dei Governi Usa e Europei ai propri contadini, in Europa per la maggior parte a quelli dell’Agrobusiness, un dumping che rafforza l’esodo dalle campagne nelle tremende megalopoli di tutto il mondo, ritenuto inarrestabile dall’ONU.

Soprattutto non si parla di Sovranità Alimentare, la bandiera dei piccoli contadini, che anche la Fao riconosce come il pilastro fondamentale della lotta alla fame e alla malnutrizione nel mondo.

Ci si limita alla Sicurezza Alimentare, che, come tutte le sicurezze, suggerisce barriere, recinti, stati di polizia e intelligence, una dimensione che non corrisponde alla natura dell’avventura umana.

Anzi, si suggerisce “ una miglior pianificazione dei consumatori”, concetto ambiguo, poco declinabile anche in termini di domanda e offerta, ma estraneo certamente alla Sovranità alimentare di ogni popolo e alla sua biodiversità, un termine che richiama quella spinta al Cibo Unico, così cara a Macdonald e all’Agrobusiness.

Non viene rifiutata la parola landgrabbing e watergrabbing, cioè l’accaparramento, in qualche modo il furto della terra e dell’acqua, da parte dell’agrobusiness, dalle multinazionali delle dighe e delle trivellazioni, li si legittima, proponendo di regolamentarli .  

In più punti si parla di speculazione eccessiva sulle materie prime alimentari  e sui contratti future,

vere e proprie scommesse sulla fame, quelli che nella crisi del 2008 hanno fatto schizzare in alto il numero degli affamati, di 100 milioni,  in poco tempo.

Si chiede di controllare la speculazione, limitarla, regolamentarla, in tal modo ammettendo l’esistenza di una speculazione buona e moderata.

Si parla genericamente e diffusamente di impatti ambientali, di mitigazione climatica e di  “Agricoltura sostenibile”, ma la proposta più chiara e precisa sembra quella della decarbonizzazione della produzione agricola tramite la cattura e il sequestro del carbonio, insieme alla definizione di un valore monetario e non monetario dell’Acqua bene Comune.

Non si accenna neppure alla schiavitù presente nel mondo agricolo, anche in Italia, Sud e Nord, forza lavoro indispensabile a tutta la grande distribuzione per strozzare i produttori sui prezzi di acquisto delle materie prime ( es. pomodori in Italia).

Ne si parla con chiarezza dell’aumento dell’uso di pesticidi in agricoltura, un incubo per la salute,  i cui residui, proibiti o no dalle legislazioni di ogni stato,  arrivano globalizzati negli alimenti che mangiamo, dopo aver viaggiato da un continente all’altro.

Vi si si accenna solo per dire che bisognerà fare valutazioni sul rapporto tra il loro uso e la produttività.

Anche riguardo alla rotazione delle culture, se ne parla  solo in rapporto alla produttività, non in rapporto al diritto dovere di non massacrare Madre Terra, di lasciarla dormire ogni tanto, di impedire la scomparsa della sua fertilità e della sua capacità di ricevere e trattenere l’acqua piovana.

C’è un solo un accenno sulla tanto declamata obesità, sulla sua epidemia, che oggi colpisce in gran parte i poveri delle megalopoli ( questo sì che è un paradosso!), anch’essi drogati dalla pubblicità dei media sui cibi insalubri e a basso prezzo, per limitare pubblicità e marketing di prodotti ricchi di zuccheri e grassi e senza proprietà nutritive, quelli che negli USA vengono  comunemente chiamati junk food, cioè cibo spazzatura.

Cibo Spazzatura, un termine che in Italia volutamente si preferisce ignorare e che non mi pare di aver trovato nel  Protocollo.

Un po’ generico, ma di buon livello è il Manifesto di EXPO dei Popoli, ma mi sembra giusto sottolineare che ho letto con stupore che alcuni dei promotori di questo manifesto, Slow Food, Legambiente e WWF Italia, sono anche firmatari del Protocollo di Milano.

E fanno parte anche della task force contro gli OGM ( come Coldiretti , anch’essa firmataria del Protocollo assieme alle COOP)

Un altro paradosso, questo sì!

 

Antonio Lupo

21 gennaio 2015

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EXPO: LETTERA APERTA

EXPO: LETTERA APERTA

 Alle Autorità

e p.c. agli esperti invitati all’incontro istituzionale di Milano.

Allo stato attuale la produzione agricola mondiale potrebbe facilmente sfamare 12 miliardi di persone……. si potrebbe quindi affermare che ogni bambino che muore per denutrizione oggi è di fatto ucciso”

Jean Ziegler, già Special Rapporteur delle Nazioni Unite sul diritto al cibo

Signor presidente del Consiglio,

i giornali ci informano che lei sarà a Milano il 7 febbraio per lanciare un Protocollo mondiale sul Cibo, in occasione dell’avvicinarsi di Expo. Ci risulta che la regia di tale protocollo, al quale lei ha già aderito,   sia stato affidato alla Fondazione Barilla Center for Food & Nutrition. Una multinazionale molto ben inserita nei mercati e nella finanza globale, ma che nulla ha da spartire con le politiche di sovranità alimentare essenziali per poter sfamare con cibo sano tutto il pianeta.

EXPO ha siglato una partnership con Nestlè attraverso la sua controllata S.Pellegrino per diffondere 150 milioni di bottiglie di acqua con la sigla EXPO in tutto il mondo. Il Presidente di Nestlé Worldwide già da qualche anno sostiene l’istituzione di una borsa per l’acqua così come avviene per il petrolio. L’acqua, senza la quale non potrebbe esserci vita nel nostro pianeta, dovrebbe quindi essere trasformata in una merce sui mercati internazionali a disposizione solo di chi ha le risorse per acquistarla.

Questi sono solo due esempi di quanto sta avvenendo in preparazione dell’EXPO.

Scriveva Vandana Shiva: “Expo avrà un senso solo se parteciperà chi s’impegna per la democrazia del cibo, per la tutela della biodiversità, per la difesa degli interessi degli agricoltori e delle loro famiglie e di chi il cibo lo mette in tavola. Solo allora Expo avrà un senso che vada oltre a quello di grande vetrina dello spreco o, peggio ancora, occasione per vicende di corruzione e di cementificazione del territorio.”

“Nutrire il Pianeta, Energia per la vita.” recita il logo di Expo. Ma Expo è diventata una delle tante vetrine per nutrire la multinazionali, non certo il pianeta.

Come si può pensare infatti di garantire cibo e acqua a sette miliardi di persone affidandosi  a coloro che del cibo e dell’acqua hanno fatto la ragione del loro profitto senza prestare la minima attenzione ai bisogni primari di milioni di persone ?

Expo si presenta come la passerella delle multinazionali agroalimentari, proprio quelle che detengono il controllo dell’alimentazione di tutto il mondo, che producono quel cibo globalizzato o spazzatura, che determina contemporaneamente un miliardo di affamati e un miliardo di obesi.

Due facce dello stesso problema che abitano questo nostro tempo: la povertà, in aumento non solo nel Sud del mondo ma anche nelle nostre periferie sempre più degradate.

Expo non parla di tutto ciò.

Non parla di diritto all’acqua potabile e di acqua per l’agricoltura familiare.

Non parla di diritto alla terra e all’autodeterminazione a coltivarla.

Non si rivolge e non coinvolge i poveri delle megalopoli di tutto il mondo, non si interroga su cosa mangiano, non parla ai contadini privati della terra e dell’acqua, espulsi dal Land e Water grabbing, dalle grandi dighe, dallo sviluppo dell’industria estrattiva ed energetica, dalla perdita di sovranità sui semi per via degli OGM e costretti quindi a diventare profughi e migranti.

E non cambia certo la situazione qualche invito a singoli personaggi della cultura provenienti da ogni angolo della terra e impegnati nella lotta per la giustizia sociale. Al massimo serve per creare qualche diversivo.

In Expo a fianco della passerella delle multinazionali si dispiega la passerella del cibo di “eccellenza”. Expo parla solo alle fasce di popolazione ricca dell’occidente e questo ne fa oggettivamente la vetrina dell’ingiustizia alimentare del mondo, nella quale la povertà si misurerà nel cibo: in quello spazzatura per le grandi masse e in quello delle eccedenze e degli scarti per i poveri.

In questi mesi, di fronte a tutto quello che è accaduto nella nostra città, dall’illegalità  allo sperpero di ingenti risorse economiche per l’organizzazione di Expo in una città dove la povertà cresce quotidianamente e che avrebbe urgenza di ben altri interventi, noi abbiamo maturato un giudizio negativo su Expo.

Ma come cittadini milanesi non posiamo fuggire la responsabilità di impegnarci affinché l’obiettivo di “Nutrire il pianeta” possa essere meno lontano.

Per questo avanziamo a lei e alle autorità politiche ed amministrative che stanno organizzando Expo alcune precise richieste.

Il Protocollo mondiale sulla nutrizione che lei intende lanciare, pur dicendo anche alcune cose condivisibili, evitando i nodi di fondo, rimane tutto all’interno dei meccanismi iniqui che hanno generato l’attuale situazione . Noi le chiediamo di porre al centro la sovranità alimentare e il diritto alla terra attraverso la limitazione dello strapotere e del controllo delle multinazionali in particolare quelle dei semi. Chiediamo che sia affermata una netta contrarietà agli OGM che sono il paradigma di questa espropriazione della sovranità dei contadini e dei cittadini, il perno di un modello globalizzato di agricoltura e di produzione di cibo che inquina con i diserbanti, consuma energia da petrolio e contribuisce al 50% del riscaldamento climatico.

Le chiediamo che venga affermato il diritto all’acqua potabile per tutti attraverso l’approvazione di un Protocollo Mondiale dell’acqua, con il quale si concretizzi il diritto umano all’acqua e ai servizi igienico sanitari sancito dalla risoluzione dell’ONU del 2011.

Chiediamo che vengano rimessi in discussione gli accordi di Partnership tra Expo e le grandi multinazionali, che, lungi dal rappresentare una soluzione, costituiscono una delle ragioni che impediscono la piena realizzazione del diritto al cibo e all’acqua.

Chiediamo che si decida fin d’ora il destino delle aree di Expo non lasciandole unicamente in mano alla speculazione e agli appetiti della criminalità organizzata e che, su quei terreni, venga indicata una sede per un’istituzione internazionale finalizzata a tutelare l’acqua, potrebbe essere l’Authority mondiale per l’acqua,  e il cibo come beni comuni a disposizione di tutta l’umanità. Una sede dove i movimenti sociali come i Senza Terra, via  Via Campesina, le reti mondiali dell’acqua, le organizzazioni  popolari e i governi locali e nazionali discutano: la politica per la vita.

Una sede nella quale la Food Policy diventi anche Water Policy, dove si discuta la costituzione di una rete di città che assumano una Carta dell’acqua e del Cibo, nella quale si inizi a concretizzare localmente la sovranità alimentare, il diritto all’acqua, la sua natura pubblica, la non chiusura dei rubinetti a chi non è in grado di pagare, la costituzione di un fondo per la cooperazione internazionale verso coloro che non hanno accesso all’acqua potabile nel mondo.

Una sede nella quale alle istituzioni e ai movimenti sociali, venga restituita la sovranità sulle scelte essenziali che riguardano il futuro dell’umanità.

“La Terra ha abbastanza per i bisogni di tutti, ma non per l’avidità di alcune persone” affermava Gandhi. E questa verità oggi è più che mai attuale e ci richiama alla nostra responsabilità, ognuno per il ruolo che svolge.

 

Moni Ovadia, Vittorio Agnoletto, Mario Agostinelli, Piero Basso, Franco Calamida, Massimo Gatti, Antonio Lupo, Emilio Molinari, Silvano Piccardi, Paolo Pinardi, Basilio Rizzo, Erica Rodari, Anita Sonego, Guglielmo Spettante.

 

Milano 21 gennaio 2015.

 

Le adesioni alla lettera aperta, sia individuali che collettive, vanno comunicate ad uno dei seguenti indirizzi mail:

Vittorio Agnoletto vagnoletto@primapersone.org

Franco Calamida f.calamida@alice.it

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Petrolio a gogo’ e lavoro usa e getta

di Mario Agostinelli

C’è una relazione tra un presunto ritorno del petrolio ai fasti economici di inizio ’900 e la riduzione dei lavoratori a pura merce? Credo di sì, almeno nella testa di chiunque trasforma in valore economico ogni relazione e per profitto degrada natura e lavoro. Quanto sia illusoria questa pretesa di ritorno a duecento anni fa’, lo dimostra la “guerra del prezzo del petrolio” che agita i mercati con le sue mille inquietanti contraddizioni.

Come ho già evidenziato nei post più recenti, gli attuali prezzi del petrolio sono imposti dai cartelli e dagli interessi geopolitici del momento, anche se costituiscono una tendenza non sostenibile a lungo termine, con una perdita di orientamento delle politiche energetiche, climatiche, industriali e per l’occupazione a livello mondiale. La volatilità che ne proviene è tale che la presunta vittoria degli Stati Uniti nel campo dei fossili con il ricorso alla produzione shale è stata in poche settimane messa in dubbio dall’azione dei Sauditi, disposti a buttare fino a 25 miliardi di $ l’anno (http://www.eia.gov/forecasts/steo/) pur di tener botta sul mercato con un prezzo artificialmente basso, ancor più spinto di quello delle produzioni da scisto.

Giochiamo su un precipizio di cui non percepiamo la profondità, sprecando risorse finanziarie e naturali, con ferite all’ambiente e un accanimento miope verso il lavoro e la povertà, al punto da tradire ancora una volta gli appuntamenti sul clima e di fare della ripresa una fiammata che non crea occupazione, ma ulteriori disuguaglianze, profitti e speculazione finanziaria.

Se il petrolio rimane a 60 dollari, l’economia della Russia si contrarrà di circa il 4% nel 2015. Ma, nella guerra fredda che si è riaperta, Bloomberg New Energy Finance (http://about.bnef.com/) del 5 Gennaio ammonisce che la crisi del petrolio americano è alle porte. La Continental Resources Inc perde 4,6 miliardi di dollari nel 2015, avendo previsto un prezzo di 80 €. Halliburton Co., il più grande fornitore al mondo di servizi di fracking alle compagnie petrolifere, ha annunciato il licenziamento di 1.000 lavoratori.  Il petrolio di West Texas Intermediate, che aveva raggiunto un picco di107,7 $ nel mese di giugno, è sceso a 52 dollari il 2 gennaio e ben 37 dei 38 giacimenti di scisto americani l’hanno seguito nella caduta. Michael Feroli, capo economista americano presso JPMorgan scrive (http://www.bloomberg.com/news/2015-01-05/oil-below-60-tests-u-s-drive-for-energy-independence.html) che la crisi potrebbe spingere l’intero Texas in una “recessione regionale dolorosa”.

Anche per il carbone si addensano nubi: la Banca Mondiale rifiuta di finanziare nuovi progetti nel settore, mentre i conflitti europei non si limitano al gas: 66 delle 126 miniere di carbone ucraine non sono in attività a causa dei combattimenti a Donetsk e Luhansk (http://www.reuters.com/article/2014/12/12/ukraine-crisis-miners-idUSL6N0S83K120141212).

In questo scenario che non induce all’ottimismo, c’è, al contrario, la conferma di un andamento costantemente positivo del settore delle rinnovabili, cioè della possibilità di ricorrere ad energia pulita per sopravvivere alla caduta del prezzo del petrolio.  Da metà ottobre, mentre il greggio è sceso di quasi 30 dollari al barile, non ci sono stati cambiamenti nelle quotazioni dell’energia da fonti naturali, come misurato dal NEX (New Energy Global Innovation Index). E questo perché godono ormai di fatto di un sostegno politico e sociale generale – anche se contrastato nei media e disdegnato da Governi alla giornata come il nostro – che assicura stabilità oltre la tempesta.

Di fatto, le rinnovabili continuano a dar risultati promettenti nell’eolico offshore, dopo che hanno raggiunto competitività nei due settori principali (vento onshore e PV), con costi molto ridotti e una valutazione dei rischi da parte delle agenzie di credito all’esportazione che risultano inferiori a quelli per le opere di estrazione e trasporto dei fossili. Così, si sono aperti mercati all’estero per le imprese tedesche, danesi, coreane e statunitensi, sostenute dalle azioni dei loro governi, quando il nostro latita in balia di vergognosi stop and go, nocivi per gli utenti, le imprese, l’occupazione, l’ambiente.

Possibile che EXPO 2015 si sia ridotto solo al capitolo alimentazione, cancellando quel binomio energia-vita che era, assieme al cibo, nello slogan di presentazione al mondo della manifestazione? Certamente, in mancanza di una politica energetica nazionale che ci renda presenti con know-how, imprese e lavoro, oltre che sui mercati tradizionali (Europa, Cina e USA), anche su quelli in autentica esplosione, come le Filippine, l’Africa l’India e il Cile!

Eppure, nel 2014 l’energia “pulita” nel mondo è volata ancora in alto, superando le aspettative (v. Ansa del 9 Gen 2015), con una crescita del 16% – pari a 310 miliardi di $ in investimenti – con un balzo record in Cina (+32%) e con crescite assai maggiori rispetto ai settori tradizionali anche in USA (+8%), Giappone (+12%), Canada (+26%), India (+14%), mentre da noi gli investimenti sono calati del 60% rispetto al 2013.
E si capisce, se si riflette sul tipo di sviluppo pensato dal governo attuale: da una parte, aspettative miracolistiche per il calo del prezzo del petrolio, accompagnato dalle prospettiva di trivelle lungo le coste e di costruzione di condotte e rigassificatori per 45 miliardi; dall’altra, flessibilità e licenziabilità per i nuovi assunti e meno diritti e welfare per chi al lavoro c’è già. Se si ritiene che la “rivoluzione” stia nel Job Act e nella “riforma Fornero”, perché scervellarsi a ragionare anche sull’energia che il sole invia quotidianamente sul suolo del bel Paese?

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Chi influenza il prezzo del petrolio?

di Roberto Meregalli

Il petrolio non è una commodity particolare, è la numero uno perché il mondo in cui viviamo è scaturito dal suo sfruttamento; una società ed una economia si sviluppano sopra ad una piattaforma energetica ed il capitalismo moderno poggia sul petrolio.

Uno degli eventi più rilevanti del 2014 è stata la caduta del suo valore avvenuta nel secondo semestre. Più che il termine caduta andrebbe utilizzato quello di “crollo”, poiché dal valore di 116,7 dollari al barile di giugno 2014 si è passati al valore di 58 dollari l’ultimo giorno dell’anno. Nei primi giorni del 2015 la discesa non si è arrestata sfondando la soglia dei 50 dollari.

Perché questo crollo? All’inizio tutti avevano dato la colpa all’Arabia Saudita, responsabile (a fine ottobre), di un abbassamento dei listini di vendita in nordamerica, ma non di quelli asiatici, con lo scopo di colpire i produttori statunitensi, quantomeno questa era la tesi dell’accusa. Perché gli USA? Perché negli ultimi anni negli Stati Uniti si è verificata una vera e propria rivoluzione in campo energetico con un boom nelle tecniche estrattive non convenzionali (alternative al classico giacimento a pozzo) sia per estrarre petrolio che gas (ossia shale gas e shale oil). E’  stato nel corso del 2013 che è apparso evidente un cambiamento strutturale nel mercato petrolifero: a giugno gli Stati Uniti avevano esportato 7,3 milioni di barili al giorno, ben 1,2 milioni in più rispetto allo stesso mese del 2012, un incremento equivalente all’intera offerta di un paese come l’Algeria, superiore a quello di Equador e Qatar. Non si capisce bene per quale motivo, ma gli esperti del settore si attendevano una reazione dell’OPEC che non si è manifestata; Riad alla relativa conferenza di fine novembre, aveva fatto approvare la linea di fermezza: nessun taglio produttivo per sostenere il prezzo del greggio. Nelle settimane successive, altri scrissero che il gioco in realtà era combinato e che il vero obiettivo del ribasso era la Russia di Putin che certamente ha subito e sta subendo un danno economico pesantissimo, come testimonia la caduta del rublo e l’aumento dei tassi di interesse sui titoli di stato.

Ma qual è il vero motivo del crollo? Il prezzo del petrolio è influenzato da molti fattori ma alla base permane l’iterazione fra domanda ed offerta e i dati mettono in chiaro una cosa: l’offerta è cresciuta più della domanda e oltretutto la domanda appare debole per una situazione economica che non da indicazioni di un ritorno a stagioni di crescita come nel passato. Le stime sono negative e nel 2015  gli economisti scommettono solo sulla crescita dell’economia americana, l’Eurozona è ferma, il Giappone pure e la Cina sembra un treno sempre più in fase di decelerazione (queste anche le previsioni del famoso economista Roudini).

Nel 2014 la domanda petrolifera è aumentata di un esiguo 0,7% toccando 91,15 milioni di barili al giorno (fonte OPEC); sempre di un aumento si tratta certo, ma del più basso da cinque anni a questa parte e gli ultimi cinque anni non sono stati di vacche grasse! Per i paesi OCSE la parola da usare è diminuzione perché la domanda è calata dello 0,9%. I prezzi bassi per i prodotti energetici sono un fatto positivo ma non se lo sono per effetto di una crisi economica e questo spiega perché il crollo del petrolio non ha dato entusiasmo alle borse, anzi le ha depresse.

L’offerta è invece aumentata del 2%, un valore maggiore dell’aumento medio degli ultimi cinque anni ed è salito a 93,2 milioni di b/g. Sintetizzando con le parole di Maugeri, grande esperto del settore, “la capacità produttiva mondiale di petrolio è cresciuta troppo, mentre la domanda ha continuato a crescere troppo poco”[i][i].

Chi ha aumentato la produzione? Gli storici paesi OPEC? Per niente, la loro produzione è rimasta ferma. L’83% dell’aumento produttivo globale è da imputare ad un solo paese: gli Stati Uniti d’America. l’OPEC nel 2014 ha difeso la propria quota di mercato. L’Arabia Saudita sta banalmente affidando al libero mercato la fissazione del prezzo, come dire: c’è troppo petrolio? Che scenda il prezzo, così aumenteranno i consumi e ad uscire fuori mercato saranno i produttori più costosi! In perfetta coerenza con le leggi dell’economia di mercato che abbiamo esportato nel mondo.

Gli USA negli ultimi tre anni hanno aumentato la produzione di 3,6 milioni di barili/giorno riducendo drasticamente le importazioni, facendo cioè sparire l’equivalente di 100 superpetroliere al mese.

Chi sta soffrendo? Praticamente tutti i produttori che vedono tagliati i loro ricavi e si ritrovano a vendere sottocosto. Il prezzo del petrolio di un paese non dipende banalmente dal costo di estrazione, per la maggior parte dei “petro-paesi” questa commodity costituisce la fonte primaria di entrate e su tali stime vengono scritti i bilanci statali.

Se parliamo di costi di estrazione, in medio oriente siamo sotto i 40 dollari con pozzi di molto al di sotto di questo valore, altrove i costi aumentano e sotto i 50 dollari per la quasi totalità si tratta di sottocosto o al limite di costo senza margini nel caso dei giacimenti migliori. Fuori costo lo shale americano, per il quale si stimano 65 dollari al barile, e ancor più quello canadese estratto da sabbie bituminose.

Passando ai bilanci statali la musica cambia e nessun paese si salva, neppure il Qatar e l’Arabia Saudita, che si prevede possa accumulare un deficit nel 2015 di 50 miliardi, ma le riserve del paese sono talmente ingenti da poter garantire due/tre anni di inerzia. Riad ha fatto bene i propri calcoli comprendendo di essere il paese in grado di resistere più a lungo al ribasso. I più colpiti sono Iran (guarda caso storico nemico dell’Arabia), Venezuela, Algeria, Nigeria, Equador, Russia ed Iraq.

Chi sta sorridendo? Gli automobilisti, perché risparmiano denaro e quello che sta accadendo equivale ad una grande manovra di stimolo che oltretutto colpisce a tappeto, favorendo anche le classi sociali più basse, quelle che un aumento di stipendio se lo sognano e che sono sempre sfavorite nelle politiche fiscali. Anche in Italia sta accadendo, nonostante sui carburanti sia applicato un carico fiscale enorme che spiega perché un calo della materia prima del 50% non potrà mai tradursi in analogo sconto sul costo finale, poiché la materia prima nel 2013 valeva solo il 32% del prezzo finale del carburante.

Gli economisti valutano un aumento del Pil dello 0,6% per il nostro paese per effetto del calo-petrolio e la bolletta energetica nazionale, già scesa globalmente di 11 miliardi nel 2014[ii][ii], si stima calerà di altri 6/7 miliardi nell’anno corrente.

Tornando a guardare oltreconfine, quasi unanime è la convinzione che siano sempre gli USA a vincere ma non è così scontato poiché se da un lato carburanti a buon mercato (e in America lo sono più che altrove per le basse tassazioni) sono indubbiamente un forte stimolo all’aumento dei consumi interni e alla produzione industriale, d’altro canto è forte l’impatto negativo sulla nuova industria petrolifera e sono alti i rischi finanziari per la grande mole di investimenti nelle imprese dello shale oil che potrebbero andare in bancarotta.

Quanto durerà il calo? Ci sarà poi un rimbalzo o il prezzo si stabilizzerà su un nuovo valore?

A tutti piacerebbe saperlo! Per fermare la caduta occorrerebbe un aumento della domanda superiore all’esiguo valore previsto dall’Agenzia Internazionale (+0,9 milioni di barili al giorno). Oppure un drastico calo di offerta. Entrambe le soluzioni non hanno chance di materializzarsi in tempi rapidi, ma lasciato a se stesso il mercato sta colpendo il petrolio più costoso (e peggiore anche in termini di impatto ambientale) da estrarre. Col perdurare di questi prezzi le estrazioni di shale oil in nordamerica non potranno che diminuire, ma non accadrà a breve per la natura stessa di questo settore.

Quello che appare probabile è che più prosegue la discesa, minore sarà il periodo low-cost perché nel caso di crollo sotto i 40 dollari, i tagli agli investimenti saranno rilevanti ed il ridimensionamento della capacità produttiva più rapido.

Nel frattempo però sarà tempesta con molteplici effetti. Ne risentiranno i negoziati sul clima? Si sa che prezzi bassi per le fonti fossili spingono al consumo e non al risparmio (in Italia i consumi di carburante nel mese di dicembre 2014 sono aumentati del 4,2% rispetto allo stesso mese del 2013). Ci sarà instabilità nei paesi più colpiti dal calo petrolio? Certamente per Russia, Venezuela, Algeria e altri ci sono molti rischi. Effetti sulle rinnovabili? Qui meno di quanto si possa immaginare perché le rinnovabili sono ad uno stadio di sviluppo avanzato, dal 2007 ad oggi l’evoluzione è stata rapida e dopo la stasi del biennio recente si prevede nuovo slancio; inoltre solo il gas interessa la generazione elettrica, settore dove maggiore è la loro penetrazione.

Quale morale?

Nessuno è oggi in grado di influenzare il prezzo del petrolio, né l’Arabia, né gli Stati Uniti poiché l’industria petrolifera a stelle e strisce non è un’industria di stato. Lo sconquasso in atto ci dice che il mondo cambia più rapidamente di quanto gli esperti sappiano immaginare e non è sufficiente studiare il passato per prevedere il futuro. La fame di energia dell’Asia non è infinita e il loro sviluppo non sarà la fotocopia del nostro perché rinnovabili ed efficienza sono ad uno step evolutivo ben diverso rispetto a quelli dei nostri tempi di sviluppo. Petrolio e gas di scisto non hanno inaugurato una nuova stagione dell’abbondanza, hanno solo reso accessibili risorse conosciute grazie al prezzo elevato del greggio e solo a tale prezzo avranno ancora chance. Il legame sempre più stretto fra le economie del mondo fa sì che non esistano più solo effetti positivi per qualcuno e negativi per un altro (eccetto che per quei paesi che nel gioco non sono ancora integrati), nessun paese può considerarsi esente da danni e deve farsi strada la consapevolezza, fra chi governa, che essere sullo stesso pianeta e alimentarsi delle stesse risorse impone una politica globale di collaborazione se si ha come obiettivo la sicurezza, la difesa del clima e una vita decente per tutti. La nuova bonanza dell’oro nero non durerà molto, un anno sì, difficilmente andrà oltre il 2015, il riequilibrio di domanda ed offerta riporteranno i prezzo sui valori corrispondenti ai costi produttivi e guardando oltre l’orizzonte, tali costi non potranno che aumentare per il semplice fatto che serve energia per estrarre petrolio, ne servirà sempre di più, e l’energia costa! La strada più virtuosa che possiamo perseguire è quella di continuare a ridurre la quantità di petrolio che ci serve, per liberarci dai vincoli politici con i paesi produttori, per ridurre l’inquinamento e per proteggere il clima. Come ha ricordato uno studio recente pubblicato sulla rivista Nature[iii][iii]: se vogliamo preservare il clima, e con esso la produzione agricola e quindi la nostra stessa sopravvivenza, dovremo lasciare sotto terra, sotto il ghiaccio e sotto gli oceani una bella fetta di fossili per non rilasciare in atmosfera in pochi anni quello che madre natura ha concentrato nei fossili nel corso dei secoli. E dovremo abbandonare lo sfruttamento dei giacimenti più “sporchi”, come le sabbie bituminose in Canada e il petrolio (e il gas) di scisto.

Se l’occidente vuole difendere la libertà deve riempirla di contenuti e fra questi ci deve essere il rispetto per l’aria, l’acqua e la terra, premessa indispensabile per offrire concretamente una vita dignitosa agli esseri umani; la libertà di distruggere in nome del diritto alla ricchezza, non è libertà ma violenza.

Una versione più dettagliata e corredata di grafici è disponibilie qui 

Roberto Meregalli – www.martinbuber.eu
BCP – Energia Felice

[i][i] Leonardo Maugeri su L’Espresso, 15 novembre 2014.

[ii][ii] Queste stime sono sempre dell’Unione petrolifera.

[iii][iii] “The geographical distribution of fossil fuels unused when limiting global warming to 2 6C”, Christophe McGlade1 & Paul Ekins. University College London (UCL), Institute for Sustainable Resources, Central House, 14 Upper Woburn Place, London WC1H 0NN, UK.

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