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Nessun documento finale è l’esito della revisione del NPT a New York

a cura di Alfonso Navarra

Dal sito ufficiale dell’ONU riportiamo l’esito della nona Conferenza di riesame del NPT (New York, 27 aprile -22 maggio 2015) nel comunicato dell’ufficio stampa istituzionale.

Breve premessa. Il non consenso su un documento finale, sorprendentemente dal punto di vista di chi scrive (ma credo anche da parte di chi ci ha inviato le testimonianze pacifiste dal Palazzo di Vetro), è avvenuto a causa del disaccordo fra i paesi partecipanti sulla creazione di una zona libera dal nucleare in Medio Oriente. La bozza di risoluzione proposta dall’Egitto che prevede la convocazione, da parte del segretario generale delle nazioni Unite Ban ki-moon, di una conferenza per avviare la denuclearizzazione del Medio Oriente entro il primo marzo del 2016, una misura contro cui si oppone Israele, l’unico paese della regione con armi nucleari (e che non ha firmato il trattato di non proliferazione), è stata respinta da Canada, Stati Uniti e Gran Bretagna.

«Il linguaggio relativo alla organizzazione della conferenza è incompatibile con le nostre politiche di lunga data», ha affermato un esponente del governo americano mentre grande disappunto, per la mancata approvazione della risoluzione, è stato espresso da un delegato dell’Iran, a nome del movimento dei paesi non allineati. (Ses/AdnKronos)

Una novità importante emersa nel corso dei lavori è l’ampia adesione ottenuta dall’Impegno Umanitario proposto dall’Austria e sottoscritto da 100 Paesi: la speranza dell’ICAN è che esso sia utilizzato come base per un nuovo processo per lo sviluppo di uno strumento giuridicamente vincolante che vieti le armi nucleari.

Ma un altro percorso con lo stesso obiettivo che potrebbe essere sperimentato in modo parallelo e convergente è quello, su cui insiste Cuba, che parte da una risoluzione ONU, la 6/32 adottata dall’Assemblea generale il 26 settembre 2013: propone l’avvio urgente di negoziati in seno alla Conferenza sul Disarmo per la precoce conclusione di una convenzione globale sulle armi nucleari e decide di convocare entro il 2018 una conferenza internazionale ad alto livello sul disarmo nucleare che esamini i progressi compiuti in questo senso.

La strada della convenzione potrebbe essere facilitata dall’universalizzazione del Trattato per la zona libera dal nucleare dell’America Latina: non è da trascurare la capacità attrattiva per altri Stati di 33 Paesi che sono già d’accordo nel proibire le armi nucleari sul loro territorio ed hanno messo su una organizzazione già funzionante da anni per il rispetto del divieto…

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“Una vita nel pallone”, di Bruno Ravasio

a cura di Piero Lucia

Una bella storia, quella raccontata da Bruno Ravasio, fluida e scorrevole che, fin dalle prime pagine, per l’efficacia e l’essenzialità, riesce a captare l’attenzione del lettore. E che forse coinvolge maggiormente in quanto non si snoda né si consuma dentro il recinto parziale della sua narrazione.

Una vita nel pallone

Non è solo la vicenda, storicamente datata, sportiva ed umana, di molti decenni fa, di Virginio Ubiali, “Gepì”, rievocata da un lembo di terra bergamasca, spicchio di un’Italia semplice, in bianco e nero, che faticosamente inizia a riprendere un cammino e ormai prossima ad epocali cambiamenti. E’ uno sguardo, quello dell’autore, che spazia con agilità – contemporaneamente e in parallelo – su altre dimensioni, su più diversi fronti. Tra fatti e vicende, politiche e sociali di quel tempo, mischiate nella trama con equilibrio e con misura. Una miscela, ben riuscita, che si collega a quanto già vissuto, negli anni appena antecedenti, in una realtà del nostro bel paese sfregiata – come tante – nell’anima e nelle carni, dal trauma lacerante della guerra.

Una ferita profonda, ancora aperta e non cicatrizzata, che è necessario ad ogni costo saturare. Impresa ardua, che avrà bisogno del massimo e appassionato impegno collettivo. Dopo l’agghiacciante fragore delle bombe, s’inizia finalmente a respirare un’aria nuova, di gaia spensieratezza, e come di vivida sorpresa, per la riconquistata libertà. Un clima nuovo, denso di un’energia vitale dirompente, che in varie direzioni si rimette in moto.

Rinascono inedite forme di partecipazione collettiva, e di socialità, iniziano a dileguarsi le angosce e le paure disseminate ovunque nel lungo tempo della dittatura e poi acuite dall’esplosione feroce e  rovinosa della guerra, che col suo enorme carico di morte, di lutti e di rovine, ha sfigurato in lungo e in largo il Bel Paese. C’è una nuova, prorompente gioia di vivere e di agire che, convulsamente, riesplode tra chi è sopravvissuto a quella dura prova! Rimuovere le macerie, materiali e morali. E’ questo l’imperativo! E’ come una frenesia, volta a rimpadronirsi di getto del pezzo di esistenza che si è perso!

Il calcio, in quello specifico contesto, sviluppa una funzione di attrazione e di collante, un ruolo diffusamente coinvolgente capace di realizzare, dentro l’immaginario collettivo, un’originale forma di coesione.  E’ uno degli strumenti, più semplici e immediati, per rimettere insieme una socialità scomposta, per ricomporre identità smarrite, uscendo dalla solitudine e dalla disgregazione, in modo da ridare una nuova vitalità alla Nazione. Una modalità, rapida e sicura, per far riemergere un grumo di speranze da troppo tempo compresse e sullo sfondo tristemente relegate.

E’ questa una possibile visione in filigrana, per ripercorrere la trama e la vicenda umana del protagonista della storia, il suo  integrale confondersi col gioco del pallone, il suo mischiarsi agli amici sui campi di gioco di provincia impolverati.

Ma  la forza del racconto  è anche nel suo essere una storia per così dire “dilatata”, non comprimibile nell’esclusiva e parziale dimensione territoriale di un piccolo, marginale borgo di provincia. Tra i vari temi, che insieme si sfiorano e convivono, a volte quasi sovrapponendosi tra loro, centrale appare quello del lavoro, strumento decisivo di riscatto per superare antiche ingiustizie e incrostazioni di un mondo e di una realtà territoriale al proprio interno ancora troppo diseguale. Sullo sfondo il contesto ambientale, le case popolari, i quartieri operai, le grandi fabbriche, il Cotonificio Legler, in cui col sudore della fronte di migliaia di uomini ci si impegna a costruire un futuro, migliore, diverso e più avanzato, per una comunità che si è rimessa in moto!

Il segno peculiare della ricerca di un possibile riscatto, umano e materiale. Tracce che s’identificano e s’integrano a pieno con l’uomo che gioca col pallone, a cui si affidano speranze inconfessate, aspirazioni di vita ed ansie di riscatto. Nella comunità di Ponte San Pietro non c’è ragazzo che non vorrebbe anche solo in parte identificarsi in lui!

Il testo di Ravasio è in tal senso – e non a caso – denso di  molteplici, successive suggestioni. Un campo di calcio di provincia, uno dei tanti, sterrati e polverosi di un angolo d’Italia degli anni ’50, su cui per ore ciurme di ragazzini scalzi e impolverati rincorrono un pallone. Ponte San Pietro, nella lontana provincia bergamasca, un campo minore della Serie D, nella stessa zona della maggiore squadra locale, l’Atalanta, con le orgogliose casacche nerazzurre. La squadra di Ponte San Pietro non può certo essere eguale alla squadra maggiore di Bergamo e tuttavia nelle sue fila annovera Virginio Ubiali, il “Gepì”, autentico, inarrivabile funambolo.

E’ un numero 10 naturale, capace delle più impensate acrobazie, che intercetta la sfera col sinistro fatato di una calamita, e che disegna molteplici parabole di una bellezza rara. Nelle giornate di particolare ispirazione finanche irride senza ritegno l’avversario. Un giocoliere, che si esibisce con l’abilità degna di un virtuoso acrobata di circo. Ricorda in miniatura uno dei più grandi giocatori di calcio di quei tempi, un altro 10, un argentino vestito di casacca bianconera, che con Maschio e Angelillo comporrà  l’ineguagliabile trio degli “Angeli dalla faccia sporca”.

L’estroso gioiello di Ponte San Pietro era assurto agli onori della cronaca locale piuttosto tardi nel tempo, a 30 anni di età. Proveniva da una famiglia povera e modesta e per vivere era stato costretto a fare l’operaio alla Caproni. La sua vera, inesauribile passione era però quella di tirare calci ad un pallone, nei modi più imprevedibili e impensati, mirando da ogni direzione verso la porta con precisione estrema.

Ponte San Pietro, ed il legame fortissimo col luogo in cui era nato e dove era cresciuto, un rapporto profondo e indissolubile, col tempo rafforzato e mai venuto meno. Aveva bighellonato, da calciatore con scritto nel destino di diventare un gran campione, tra i più diversi luoghi, Novara, Biella, Crema, Lecco. E tuttavia ogni esperienza vissuta da professionista, pur ripagandolo dal punto di vista materiale, finiva per riportarlo al punto di partenza, nel luogo da cui aveva mosso i primi passi.

Una calamità, e forse un’autentica condanna, da cui misteriosamente non riuscirà mai a sottrarsi in alcun modo. Un punto dello spazio, che occupa in ogni poro la tua anima, da cui più ti allontani più ti richiama a sé. Fuori dal suo contesto “ Gepì” finiva puntualmente preda della tristezza e della malinconia! Per questo, alla fine, ritornava sempre al suo paese!

In conclusione, una storia semplice, una storia vera. Ed un insegnamento. La felicità non ha prezzo e non la si può acquistare solo col danaro! E’ più importante l’armonia col proprio io, attraversare il tempo che ci è dato con gli amici cari della gioventù, coi quali continuare a condividere, con naturalezza, le esperienze e le scelte di vita più importanti. E non ha prezzo il vivere  dentro le strade ed i quartieri del tuo piccolo borgo cittadino, dove conosci tutti, in quella dimensione che ti è cara, di cui respiri a pieno l’aria ed il valore col vero significato di ogni cosa. Nell’angolo di mondo, per davvero tuo, che è sempre pronto a raccoglierti di nuovo. E’ questo  ciò che vale, e che ti consente di sentirti ancora vivo e vero! Altro è superfluo, se ne può fare a meno. E’ questo l’ancoraggio di realtà, più intima e più piena, che mai nessuno in alcun modo ti potrà sottrarre! Il lieve sogno, che dentro di te continua ininterrotto a vivere e a pulsare, neanche il più grande mare burrascoso lo può portare via….

Bruno Ravasio, Una vita nel pallone, Lubrina Editore, 2014

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Rinnovabili 2015

a cura di Roberto Meregalli

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L’Italia è uno dei paesi più avanzati in Europa e nel mondo in materia di energie rinnovabili. Ricordiamo che già lo scorso anno abbiamo raggiunto il target previsto dalla Direttiva Europea 2009/28 conosciuta volgarmente con la sigla “20-20-20”, poiché già a fine 2013 la percentuale di energia rinnovabile sul totale dei consumi finali (elettricità, calore, trasporti) era salita al 16,7% (il target italiano al 2020 è del 17%).

Quota dei consumi finali lordi di energia - Fonte GSE
Fonte GSE

Il Bilancio energetico nazionale del 2013 (ultimo disponibile) evidenzia come a livello di fonti primarie, ossia delle fonti di base che servono a produrre tutta l’energia necessaria al paese, quasi il 20% è rinnovabile, mentre nel non lontano 2007 questa quota era sotto l’8%; quindi il balzo è stato notevole.

Bilancio energetico nazionale 2013
Fonte: Ministero dello sviluppo economico

In particolare è molto elevata la penetrazione nel settore elettrico, dove la percentuale nel 2013 era pari al 31,3% rispetto al target previsto per quell’anno, del 21%.

Grafico H
Fonte GSE

E’ ormai un luogo comune la critica sui costi dell’incentivazione alle fonti rinnovabili, soprattutto al fotovoltaico, ma non è così consolidata la consapevolezza di quanto siano riuscite, queste fonti, a rivoluzionare il sistema dell’energia italiano e di quanti benefici diretti e indiretti siano portatrici. Ad esse va unito l’effetto delle misure di efficienza che negli ultimi anni sono state fatte e che hanno contribuito in maniera sostanziale a ridurre i consumi.

Il risultato, nell’elettrico, è la crisi ormai irreversibile della generazione tradizionale termoelettrica, nessuna utility potrà pensare di affrontare il futuro senza radicali cambiamenti. A pronunciare la parola “fine” alle grandi centrali del passato è stato Francesco Starace che sta ripetendo con insistenza che Enel non costruirà più alcun grande impianto: “dobbiamo stare attenti al “gigantismo”, quindi ci impegneremo in tante piccole opere evitando quelle grandi[2]. Al contrario saranno chiuse per sempre 23 centrali a carbone, olio combustibile e gas, per un totale di 13 mila MW di potenza (vedi l’elenco completo nella cartina).

Questo per il nostro paese significa basta grandi centrali a petrolio, carbone o metano, un risultato non di poco conto sul fronte della salute e della tutela dell’ambiente, da non dimenticare in tema di bilanci.

Il rapporto annuale sui comuni rinnovabili, pubblicato nei giorni scorsi da Legambiente, conferma l’immagine di un paese che, pur tra mille contraddizioni, crede sia intelligente ricavare l’energia necessaria al nostro stile di vita, da acqua, sole, vento, geotermia e biomasse. In tutti gli 8.047 comuni italiani (tale il numero dei nel 2015), è installato almeno un impianto solare fotovoltaico e in 6.803 c’è almeno un impianto solare termico. 700 sono invece i comuni dell’eolico, 1160 quelli dove esiste un impianto mini-idroelettrico, 2.451 quelli con una centrale a bioenergie, infine 484 i comuni della geotermia.

La crescita dei comuni rinnovabili
Rapporto “Comuni Rinnovabili 2015” di Legambiente

La crescita della generazione elettrica da FER ha prodotto molteplici ricadute anche sui mercati elettrici, quello più evidente è la diminuzione dei prezzi dell’energia elettrica in Borsa, il cosiddetto effetto peak shaving, cioè dell’abbassamento del prezzo nelle ore di punta (picco) a causa della disponibilità di elettricità fotovoltaica ed eolica (la prima produce al massimo proprio nelle ore di picco). Nel 2014 ciò si è tradotto in un risparmio di 896 milioni di euro, meno rispetto al 2013 perché più bassi i prezzi rispetto a quell’anno (di anno in anno il solare sta abbassando i prezzi e, di conseguenza, i risparmi che riesce a produrre, come mostrato nel grafico che segue).

Meno evidente è la riduzione di fossili che abbiamo bruciato, nel 2014 ben 16,6 miliardi di metri cubi di gas metano in meno rispetto al 2007:

Meno fossili importati significa minor deficit nella bilancia dei pagamenti; nel 2012 per la voce energia, il saldo negativo era di circa 63 miliardi, nel 2014 si è contratto a 43 miliardi (dati Istat), il calo del prezzo del petrolio che ha interessato la seconda parte dell’anno si è tradotto in un risparmio di 5,5 miliardi, ma quasi tre volte tanto è stato il risparmio sulle importazioni di gas.

Risultato finale della prima rivoluzione energetica è che l’Italia è oggi il primo paese al mondo per percentuale di generazione fotovoltaica che copre la domanda elettrica: 7,9% davanti a Grecia (7,6%) e Germania (7%).

Fine della prima rivoluzione

Ma la grande crescita delle rinnovabili è terminata poiché la fine degli incentivi nel fotovoltaico (nel 2013) e il sistema delle aste per le altre fonti ha ostacolato ulteriori sviluppi. In particolare, per il fotovoltaico l’approvazione del cosiddetto spalma-incentivi ha bloccato il settore spingendo le imprese all’estero. Il Rapporto Irex Annual Report 2015 mostra come l’industria italiana delle rinnovabili abbia spostato i suoi investimenti olteconfine con circa 2,5 miliardi di investimenti, in prevalenza nell’eolico, soprattutto nelle Americhe. Gli investimenti fuori dai confini nazionali sono stai nel 2014 l’88% della potenza, ossia l’88% degli impianti costruiti dalle nostre imprese sono ubicati all’estero.

I dati sulle installazioni domestiche negli anni 2013 e 2014 sono a disposizione di tutti, il solare fotovoltaico nel 2013 era calato a 1.700 MW per le code residue del conto energia, per il 2014 non è ancora disponibile un dato definitivo ma si parla di 600 MW.

Per l’eolico il sistema delle aste ha colpito prima, dopo il record del 2012 di 1.239 MW, nel 2013 le installazioni erano crollate a 444 MW e nel 2014 a soli 107 MW.

I risultati delle aste dell’eolico sono stati fallimentari perché le regole hanno permesso la partecipazione a un sacco di società parassite, lasciando fuori le imprese che davvero volevano costruire impianti. Risultato: gran parte dei vincitori non hanno messo in piedi nulla perché per vincere hanno abbassato i prezzo sotto i valori reali, così dei vincitori delle aste del 2012 il 46% dei progetti è rimasto sulla carta, di quelli del 2013 addirittura il 75%. Globalmente solo il 21% degli impianti è stato realmente messo in piedi, 461 MW su più di 2.200 MW previsti (vedi tabella seguente).

A conferma della fine della “prima rivoluzione” è utile guardare i dati relativi all’elettricità prodotta nei primi quattro mesi del 2015; a domanda stabilizzata rispetto al 2014, la generazione rinnovabile è in calo perché ormai le variazioni dipendono dal meteo e il fotovoltaico non è ancora così diffuso da poter compensare la riduzione dell’idroelettrico quando al nord le precipitazioni calano come è accaduto in questo 2015.

Le fonti rinnovabili nel periodo gennaio-aprile 2015 (che includono anche circa 5,7 TWh da biomasse registrate nel termoelettrico) hanno contribuito per il 40,3% alla produzione elettrica nazionale e per il 34,5% alla domanda elettrica. Nello stesso periodo del 2014 queste due percentuali erano più elevate: rispettivamente del 43,7% e del 37,2%. Nel mese di aprile il consumo di gas nel termoelettrico è tornato a salire del 4,7% (dato GME).

Quale futuro quindi per le FER? Quali indicazioni provengono dal governo? Giovedì 7 maggio, rispondendo al question time in Senato, la ministra dello Sviluppo Economico Federica Guidi ha promesso entro la fine del mese di maggio un decreto di incentivazione alle rinnovabili non fotovoltaiche, specificando che non sarà definito alcun budget aggiuntivo, che durerà due anni e che come metodo di assegnazione si useranno ancora aste e registri.

Il tetto di spesa rimarrà fermo a 5,8 miliardi, quindi sarebbero a disposizione degli operatori i circa 100 milioni attualmente liberi sul contatore del Gse (che monitorizza il tetto raggiunto e segna 5,7 miliardi) e le risorse che potrebbero in futuro liberarsi per la fine di alcuni incentivi (i certificati verdi) sia per le revoche degli incentivi assegnati mediante aste e registri a impianti che non sono stati costruiti.

Secondo alcuni analisti (eLeMeNS) potrebbero essere a disposizione circa 250 milioni di euro più altri 150 milioni per l’anno 2016, che insieme potrebbero sostenere lo sviluppo di circa 1.500 MW di nuovi impianti rinnovabili. Ma sono solo ipotesi e molte sono le incognite (si pensi agli ex-zuccherifici convertiti a biomassa, che possono accedere direttamente agli incentivi senza preventive procedure e che potrebbero erodere pesantemente la cifra ipotizzata).

Per il fotovoltaico nulla, anzi per questa risorsa le modifiche normative che l’Autorità sta studiando per riformare la suddivisione degli oneri di rete sulle bollette potrebbe costituire un nuovo ostacolo. L’idea è quella di applicarle in toto anche agli autoconsumi (il che danneggerebbe i SEU che oggi sono la via di sopravvivenza del FV in Italia) perché, per usare le parole della Guidi “ragionando al limite, se tutti i consumatori autoproducessero l’energia di cui hanno bisogno … tutti sarebbero esenti e nessuno pagherebbe”. Vero ma nessuna politica si può basare su ragionamenti “al limite”, della serie “se tutti fossero onesti” o “se tutti avessero un lavoro”. Banalmente non esiste una strategia per la generazione distribuita per far sì che tutti autoproducano, perché non c’è alcuna convinzione alle spalle.

Ma l’evoluzione tecnologica farà quello che lo politica non farà, nel mondo la progressione è impressionante, l’annuncio di Tesla sulle batterie (con costi annunciati dimezzati rispetto ai concorrenti) ha dato una ulteriore spinta che le utility stesse stanno cavalcando (Enel ha annunciato il 12 maggio un accordo per realizzare un sistema di accumulo Tesla da 1,5 MW di potenza e 3 MWh di capacità di stoccaggio). La transizione verso un nuovo sistema energetico è in corso e non si fermerà.

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Guerra in Siria e cambiamenti climatici

a cura di Mario Agostinelli

Le tendenze di aumento delle temperature e di diminuzione delle precipitazioni nella mezzaluna fertile, cioè quella parte del pianeta dove gli esseri umani hanno iniziato a praticare l’agricoltura e la pastorizia, 12 mila anni fa, legate al riscaldamento globale, hanno reso molto più probabile il verificarsi di siccità disastrose, come quella del 2007-2010; questa ha causato una migrazione di massa di contadini verso le città siriane, fattore che ha contribuito alla rivolta contro il regime di Bashar al-Assad, in seguito degenerata in una guerra civile.

La siccità ha avuto un effetto catastrofico verso un settore, quello agricolo, già messo in crisi da politiche insostenibili di sussidi e di irrigazione tramite pompaggi di acque di falda, che hanno causato il loro progressivo impoverimento.

La scarsità delle acque di falda ha reso l’agricoltura siriana più dipendente dalle piogge annuali e quindi più vulnerabile alla siccità; e così la siccità iniziata nel 2006/2007 ha portato al collasso la produzione di grano siriana, ha fatto aumentare i prezzi dei generi alimentari e del foraggio per il bestiame, con conseguente impoverimento di agricoltori e pastori.

Si è quindi registrata una migrazione di massa (1,5 milioni di person verso le città, che ha generato tensioni sociali aggiuntive a quelle già presenti a causa dei circa 1.2-1,5 milioni (!) di profughi della guerra in Iraq presenti in Siria. Nel 2010 gli sfollati interni sommati ai profughi iracheni raggiungevano il 20% della popolazione urbana siriana. Una cifra spaventosa, se si pensa alle tensioni che si verificano in Italia, in cui la quantità di profughi annui in rapporto alla popolazione (nel 2014: 170.000/40.000000= 0.4%) è circa 50 volte inferiore.

Questa grande siccità è legata al riscaldamento globale causato dalle attività umane. Lo dimostrano la tendenza alla diminuzione delle precipitazioni, con ripercussioni sulla ricarica delle falde, la tendenza di aumento delle temperature, in particolare negli 20 anni, con gli anni successivi al 1994 sempre superiori alla media delle temperature del XX secolo, la tendenza all’aumento dell’aridità dei terreni. Si è poi osservata una progressiva intensificazione di una condizione anticiclonica tra la Turchia ed il Mar Nero orientale, portatrice di correnti nordorientali più secche nell’area della mezzaluna fertile

La rivolta popolare e la conseguente guerra hanno avuto certamente anche altre cause sociopolitiche, principalmente l’incapacità del regime siriano di fornire risposte alla crisi e le grandi masse di rifugiati della guerra in Iraq.

Ma queste persistenti e profonde siccità dovute alle emissioni di CO2 potrebbero diventare ricorrenti in un mondo più caldo. E non soltanto in Siria.

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