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14 ottobre a Milano: “Amazzonia depredata. Cause, responsabilità, prospettive”

Milano, 14 ottobre 2019, ore 18.00 – 20.00

Camera del lavoro, Corso di Porta Vittoria 43

Lunedì 14 ottobre, presso la Camera del Lavoro di Milano, una delegazione di leader indigeni dell’Amazzonia brasiliana – in Italia per partecipare al Sinodo panamazzonico convocato da Papa Francesco in Vaticano – incontrerà i cittadini milanesi per testimoniare della devastazione ambientale in corso nelle regione amazzonica, del progressivo impoverimento del bioma e del genocidio dei popoli originari.

È essenziale costruire una mobilitazione plurale a difesa della Casa Comune, di cui l’Amazzonia rappresenta il cuore e il simbolo. Occorre chiedere politiche nazionali e comunitarie che fermino la deforestazione e la distruzione estrattivista, tutelino la biodiversità e riconoscano il ruolo delle comunità indigene, della loro cultura e della loro spiritualità.

All’incontro parteciperanno Jeremias Dos Santos, del Popolo Mura; Ernestina Afonso De Souza, del Popolo Macuxi; Aloir Pacini, missionario del CIMI.

Coordinerà i lavori Andrea Di Stefano, di Valori.it

Interverranno Roberta Turi (segretaria generale della Fiom di Milano), José Luiz del Roio (Comitato internazionale Lula Livre), Daniela Padoan (Associazione Laudato Si’), Maurizio Fraboni (Acopiama Manaus – a tutela del Guaranà nativo), Antonio Pacor (Collettivo FocusPuller).

L’evento è organizzato da: Camera del Lavoro Milano, da FIOM CGIL Milano, Collettivo Focus Puller, Associazione Laudato Si’, CIMI – Consiglio Missionario Indigenista Brasile, Acopiama.

Con la collaborazione di Greenpeace Italia e Fridays For Future Milano.

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Greta e Alexandra. Clima e ecosocialismo

In queste giornate di forte emozione e coinvolgimento creati dall’entrata in campo di un nuovo movimento schiettamente giovanile che si organizza su un terreno colpevolmente ignorato dai governanti delle generazioni passate, lascio alla testimonianza diretta degli eventi che si manifestano nelle assemblee e nelle piazze di tutto il Pianeta il compito di trasmettere il loro potentissimo messaggio di fondo. Qui invece vorrei riflettere sulle prospettive del conflitto politico-sociale innescato da due giovani donne nel mondo, che attirano grandi critiche e grandi consensi. Greta Thunberg e Alexandria Ocasio-Cortez non hanno molto in comune, se non una straordinaria abilità nel comunicare e il merito di aver posto il tema del cambiamento climatico e di che cosa fare per combatterlo al centro di una discussione planetaria.

La ragazza svedese svolge un ruolo da mobilitatrice e comunicatrice ed è al centro della straordinaria crescita di una nuova sensibilità mondiale rispetto alla maggiore emergenza del secolo. Quando ha scosso i leader mondiali per il loro “tradimento” dei giovani durante il vertice delle Nazioni Unite (“Se i leader mondiali decidessero di fallire, la mia generazione non li perdonerà mai”) ha aperto un cuneo nella dialettica tra la società e i governanti che si può rimarginare solo convergendo sugli obbiettivi radicali della generazione degli studenti. E questo non solo al tavolo delle istituzioni internazionali, ma, di rimando, nel pieno delle rivendicazioni e delle lotte che si invereranno Stato per Stato, Regione per Regione, Città per Città. Le assemblee di studenti, donne e – mi auguro presto – lavoratrici e lavoratori sono state messe in comunicazione da questa esile ragazza con i Parlamenti, i consigli regionali, i consigli comunali. Un fatto straordinario che inaugura una sfida democratica estesa in una fase storica di pesante regressione autoritaria e escludente.

La Ocasio-Cortez, invece, si è mossa direttamente sul terreno della rappresentanza istituzionale ed ha avanzato proposte di legge ambiziose al Congresso degli Stati Uniti, inserite in un piano da mille miliardi di dollari. Perfino la sinistra democratica Usa è turbata per la determinazione con cui nel testo molto ben articolato si prende di petto il futuro, anziché limitarsi a contrastare gli eccessi di Trump e contare sugli inevitabili autogol dell’ex tycoon. La posta sul clima è talmente incombente e foriera di popolarità nelle fasce più povere o esposte, che non c’è dubbio che i Democratici alla fine adotteranno già nella prossima campagna elettorale contro la Trumpnomic e pur con qualche esitazione, data la loro radicalità, le linee guida che Alexandra affina ad ogni tornata di incontri pubblici. La svolta della Ocasio ha un sapore squisitamente eco-socialista, con una originalità, se posso dire, “bergogliana”, riassunta nel legame tra giustizia climatica e giustizia sociale (per approfondimenti, si veda il sito https://www.laudatosi-alleanza-clima-terra-giustizia-sociale.it/).

Lo stimolo potentissimo che la proposta della Ocasio impone alla politica, all’economia e alla cultura americana, avrà, come l’azione di Greta, forti ripercussioni a livello mondiale, ma su un piano complementare.

Se non esiste una soluzione “di mercato” ai disastri ambientali è altrettanto vero che il permanere di alti livelli di disoccupazione o sotto-occupazione ha contribuito ad accentuare la polarizzazione dei redditi e delle ricchezze. La rimodulazione dei sistemi fiscali diventa indispensabile, così come uno spostamento relativo del prelievo sui redditi da lavoro verso quelli da capitale, da imposte indirette a imposte dirette, da un sistema maggiormente regressivo ad uno relativamente progressivo a cui si aggiunga l’imposta sulla ricchezza patrimoniale o finanziaria. Il Green New Deal porta la sfida nel punto più alto del sistema liberista e indica l’emergere di una prospettiva politica eco-socialista da giocarsi in sintonia con il movimento di Fridayforfuture e consolidare in una svolta politico-istituzionale. Mentre uno degli aspetti più sottovalutati in Europa e in Italia riguarda la ripresa della pianificazione e il ricorso ad adeguate strutture, quali agenzie pubbliche e imprese partecipate dallo Stato, nelle proposte della Cortez questi nodi sono ampiamente trattati.

In buona sostanza, Greta e Alexandra amplificano e rendono più concreta la desiderabilità di una prospettiva di cambiamento strutturale e di riconversione che tocca non solo l’economia, ma l’intero tessuto sociale e che l’accelerazione brusca del cambiamento climatico delinea e richiede con sempre maggior urgenza.

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Cambiamenti climatici, le banche tifano per i combustibili fossili. Ma la natura non può più aspettare

Mario Agostinelli – il Fatto Quotidiano

In queste giornate di forti emozioni e coinvolgimento, creati dall’entrata in campo di un nuovo movimento schiettamente giovanile che si organizza su un terreno colpevolmente ignorato dai governanti delle generazioni passate, lascio alla testimonianza diretta degli eventi che si manifestano nelle assemblee e nelle piazze di tutto il pianeta il compito di trasmettere il loro potentissimo messaggio di fondo. Qui invece vorrei riflettere su un aspetto poco trattato quando si parla dell’emergenza climatica e si afferma – giustamente – che non esiste una soluzione “di mercato” ai disastri ambientali. Vorrei, cioè trattare il ruolo che il capitale finanziario e le banche hanno nel dare continuità al sistema dei fossili, ostacolando la decarbonizzazione che deve avvenire in orizzonti temporali vicinissimi.

Bill Mckibben, un ambientalista statunitense attivo anche come scrittore e giornalista, definito nel 2010 dal Boston Globe come “probabilmente l’ambientalista più influente della nazione”, ha lavorato sul cambiamento climatico per 30 anni e dice di aver imparato a liberare la sua angoscia e a tenerla sotto controllo. Ma, negli ultimi mesi, ammette che la sua angoscia vera riguarda i suoi figli. Lo scorso autunno gli scienziati climatici di tutto il mondo hanno affermato che, se vogliamo raggiungere gli obiettivi fissati nell’accordo sul clima di Parigi del 2015, abbiamo a disposizione un numero di anni che non vanno al di là delle dita delle mie mani.

Nel mondo di Trump, Putin, Bolsonaro e delle compagnie di combustibili fossili che li sostengono, sembra impossibile modificare il quadro che si prospetta. Invece non è nemmeno tecnologicamente impossibile: nell’ultimo decennio è stato abbassato il prezzo dell’energia solare ed eolica rispettivamente del 90 e 70 per cento. Ma non basta, se oltre alla tecnologia non muta la direzione dell’economia capitalista e se non entra in campo, assieme ai movimenti planetari degli studenti e delle donne, il movimento delle lavoratrici e dei lavoratori che sentano la riconversione ecologica come il principale obiettivo contrattuale.

C’è un ruolo delle banche e della finanza, che di frequente viene occultato e che ritarda le misure urgenti per combattere il cambiamento climatico in corso. Chi concentra la maggior parte del denaro e della ricchezza creata a spese del lavoro e della natura, ha un potere che potrebbe essere esercitato in pochi mesi se cessasse di finanziare i fossili. Mckibben suggerisce che la chiave per interrompere il flusso di carbonio nell’atmosfera sia quella di interrompere il flusso di denaro verso carbone, petrolio e gas.

L’industria ha nelle sue riserve cinque volte più carbonio di quanto il consenso scientifico pensi che possiamo tranquillamente bruciare. Un’istituzione religiosa dopo l’altra si è spogliata di petrolio e gas e Papa Francesco ha convocato i dirigenti del settore energetico in Vaticano per dire loro che devono lasciare il carbone sottoterra.

Ma il sistema bancario si è unito alle industrie del fossile per impedirne l’uscita di scena. Nei tre anni trascorsi dalla fine dei colloqui sul clima di Parigi, la banca Chase ha investito 196 miliardi di dollari in finanziamenti per l’industria dei combustibili fossili, molti dei quali per finanziare nuove iniziative estreme: trivellazioni in acque ultra-profonde, estrazione di petrolio artico, trivellazioni nell’Adriatico. Nei fatti Jamie Dimon, il Ceo di JPMorgan Chase, è un barone del petrolio, carbone e gas quasi senza pari. Lo stesso vale per le attività di gestione patrimoniale e assicurativa: senza di esse le società di combustibili fossili rimarrebbero quasi letteralmente a corto di gas.

Nei tre anni successivi alla firma dell’accordo sul clima di Parigi, i prestiti delle banche all’industria sono aumentati ogni anno e gran parte del denaro va verso le forme più estreme di sviluppo energetico. Tutti sanno che prima o poi l’era dei combustibili fossili finirà, e se una banca gigantesca come Chase – o altre analoghe – si ritirasse, invierebbe un segnale inconfondibile di un’imminente “bolla del carbonio”, con danni gravi per i vettori ferroviari, i proprietari di porti e le imprese appaltatrici di carbone o dipendenti dal gas. Un danno che tuttavia impallidirebbe a fronte del tipo di previsioni su quel che resterebbe del pianeta se l’industria dei combustibili fossili continuasse sul suo percorso attuale per un altro decennio.

Quando si riflette sulla dimensione di questi problemi, appare in tutta la sua povertà di strategia la dimensione della politica energetica nazionale, che garantisce la costruzione di gasdotti come il Tap o la riconversione delle centrali a carbone in impianti a gas fossile come previsto per Civitavecchia, con la prospettiva di un ritorno degli investimenti a 25 anni, quando le tariffe pagate dai cittadini in bolletta continueranno magari a essere incassate, mentre la natura non avrà più risorse sufficienti a rigenerarsi.

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Germania: 200 milioni di compresse di iodio, solo aspirine per impensabili sciagure nucleari?

Mario Agostinelli – il Fatto Quotidiano

Due settimane fa ilfattoquotidiano.it dava una notizia sorprendente, almeno a prima vista: un maxi ordine da 190 milioni di compresse di iodio anti-radiazioni era stato inoltrato a un produttore austriaco dall’Ufficio federale tedesco per la protezione dalle radiazioni. E’ noto come lo iodio “buono” agisca saturando la tiroide e impedendo che si accumuli nella ghiandola quello radioattivo, in grado di provocare tumori. Notizia ghiotta, ma a prima vista stravagante.

Dopo un G7 che finalmente si è accorto che l’Amazzonia brucia, che in Iran è meglio trattare che bombardare, che la guerra dei dazi rende tutti perdenti, come mai torna in vita la paura del nucleare? Dopo gli abbracci, tra una prova missilistica e l’altra, tra Trump e Kim Jong-un e dopo la clamorosa uscita di scena, almeno negli Usa e in Europa, dei reattori nucleari come prospettiva energetica risolutiva.

In effetti, il cambio di cultura imposto dalla minaccia della catastrofe climatica impone non solo il controllo delle emissioni climalteranti, ma anche il pieno controllo sociale delle tecnologie per prendersi cura della Terra e l’incompatibilità tra radiazioni e salute dell’intera biosfera si è rivelata insormontabile. Così, il nucleare civile è ormai residuale negli Stati Uniti dove fornisce un contributo alla produzione di elettricità del 20% proveniente da 99 reattori nucleari attivi con un’età media di circa 37 anni, mentre in tutta l’Ue si prevedono dismissioni e abbandoni, con i due grandi reattori di Areva ancora di là da venire.

Da dove viene allora l’imprevisto ordine tedesco di immunizzazione radioattiva della popolazione, quando la guerra nucleare passa per un esercizio maniacale di Trump e sono solo 451 i siti nucleari civili attivi nel mondo contro 63mila impianti tradizionali, che invece attirano le maggiori preoccupazioni per le emissioni di CO2? Bastano quattro considerazioni, purtroppo trascurate dai media, per giustificare l’allarme.
1. Il progetto di documento, chiamato Nuclear Posture Review, che espone la strategia nucleare degli Stati Uniti di recente elaborazione, consente l’uso di armi nucleari per rispondere a una vasta gamma di attacchi devastanti, ma non nucleari, alle infrastrutture americane, inclusi gli attacchi informatici. Il nuovo documento è il primo a espandersi oltre lo scambio di attacchi atomici, per includere i tentativi di distruggere infrastrutture di vasta portata, come la rete elettrica o le comunicazioni di un paese, in quanto sarebbero più vulnerabili alle armi informatiche. La nuova strategia sotto Trump sarebbe la risposta pronta non solo ai progressi nucleari della Corea del Nord e dell’Iran, ma anche a quelli di hackering informatici da parte di Russia e Cina. Se il cyber può causare un malfunzionamento fisico delle principali infrastrutture con conseguenti morti, il Pentagono ha ora trovato il modo di “stabilire una dinamica dissuasiva” ricorrendo all’impiego della bomba nucleare. Anche a tal fine si è stabilito il prezzo per un rifacimento trentennale dell’arsenale nucleare Usa (comprese le B61 di Aviano e Ghedi!) in oltre 1,2 trilioni di dollari.

2. L’incidente nucleare dell’8 agosto, in una città della Russia sub-artica nella provincia di Archangelsk in Siberia (vedi Yurii Colombo su il manifesto, 14 agosto 2019), totalmente oscurato dall’entourage di Putin anche dopo che si è registrato un livello di radioattività 16 volte maggiore rispetto ai valori normali, si suppone dovuto a un’esplosione durante i test su un reattore con una fonte di energia a radioisotopi montato su un razzo da crociera. Programmi di ricerca simili sono stati condotti negli Stati Uniti. I dubbi sull’esplosione dell’8 agosto non sono legati tanto al tasso di radioattività ma al tipo di radiazioni emesse, su cui “si sa davvero poco”.

3. La maledizione di Fukushima: “Il governo giapponese inganna l’Onu, violati i diritti umani di lavoratori e bambini”. Così riferisce l’Ansa dell’8 marzo riferendo l’accusa di Greenpeace, che, a otto anni dal disastro dell’11 marzo 2011, pubblica un rapporto che certifica che i livelli di radiazione nella zona di esclusione e delle aree di evacuazione intorno alla centrale sono da cinque a oltre cento volte più alti del limite massimo e che in oltre un quarto dell’area la dose annuale di radiazioni a cui sarebbero esposti i bambini potrebbe essere 10-20 volte superiore al massimo raccomandato. A distanza di otto anni dall’incidente non si vede nessuna prospettiva di soluzione. La rimozione del combustibile presente nelle piscine dei reattori danneggiati (per un totale di 1.393 elementi) è stata completata solo per l’unità 4, mentre per l’unità 3 dovrebbe iniziare entro quest’anno e solo nel 2023 per le unità 1 e 2. Un immane disastro nello spazio e nel tempo.

4. Infine c’è da prendere in considerazione il rilancio senza clamori della tecnologia nucleare, previsto da uno dei siti web più influenti sul piano delle politiche industriali. Il website “dell’innovazione e dell’industria manifatturiera Usa” con sede nel Michigan riporta che in Cina sono partiti due reattori “sicuri” che eliminano la necessità di sistemi di raffreddamento esterni, cosa che è fallita a Fukushima. “Questa tecnologia sarà sul mercato mondiale entro i prossimi cinque anni”, ha detto Zhang Zuoyi, il direttore dell’Institute of Nuclear and New Energy Technology di Pechino. “Stiamo sviluppando questi reattori per conquistare il mondo”. Intanto la Nasa sta collaudando il progetto Kilopower, un reattore nucleare compatto con il potenziale per alimentare le missioni sulla Luna, su Marte e persino nei più profondi tratti dello spazio.

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Clima: mettere gli indigenti alla canna del gas

Mario Agostinelli – il Fatto Quotidiano

In un articolo del The Guardian del 26 luglio compare una notizia che dà conto di come l’emissione di climalteranti da fossili possa venire spacciata – se non come un’attrattiva – almeno per un ripiego conveniente per la quota di popolazione più indigente e, di sovente, meno informata sul pericolo del cambiamento climatico. La vicenda è così rappresentativa di una manipolazione dell’opinione pubblica e dell’irriducibilità del negazionismo climatico da essere riferita in dettaglio.

Con una indiscutibile efferatezza la SoCalGas, la più grande utility americana per il gas (fornisce gas naturale a quasi 22 milioni di consumatori nella sola California), nota per essere il più fiero nemico del ricorso all’elettricità fornita dalle fonti rinnovabili, sta cercando di contrastare gli sforzi per limitare l’uso del gas naturale in California. Per farlo è arrivata al punto di costituire e finanziare un gruppo di consumatori che, beneficiando del titolo e dei vantaggi delle società “no profit”, nel loro statuto si sono dati l’obiettivo di spingere verso “soluzioni energetiche equilibrate”, consistenti nella diffusione di gas fossile in sostituzione di altri fossili maggiormente climalteranti.

E’ noto come nello stato della California il ruolo delle amministrazioni locali abbia favorito la diffusione delle rinnovabili, ormai largamente convenienti anche in bolletta, e abbia reso efficiente la rete elettrica in competizione con le reti di distribuzione di petrolio e gas. L’opinione pubblica manifesta ampio consenso alla politica energetica meno “trumpiana” di tutti gli States, ma la reazione delle maggiori corporation energetiche, legate al vecchio carro, non si sono fatte attendere. In particolare, la SoCalGas ha puntato sulle classi sociali più indigenti e meno acculturate e, in un’inedita attività di lobbying a sostegno della diffusione del gas naturale, ha finanziato, con l’aiuto di una società di esperti di pubbliche relazioni, il lancio di un “gruppo di consumatori senza scopo di lucro”, rivolto specificatamente agli insediamenti di immigrati meno facoltosi.

Il compito del gruppo consiste nel propagandare, con l’assistenza di consulenti, l’uso del gas naturale mixato a gas di origine biologica. Quali siano le quote del mix propagandato non è dato sapere ed è anzi considerato un’esca fasulla. L’importante è tener viva la rete di distribuzione attraverso le condotte di proprietà e non far subentrare al suo posto quella elettrica, conveniente sia per prezzo che per gli effetti sul clima.

SoCalGas e C4Bes non negano l’esistenza della crisi climatica. Promuovono l’uso di gas “pulito” e “rinnovabile” sotto forma di metano catturato da caseifici, dagli impianti di trattamento delle acque reflue e dalle discariche e affermano che l’uso di biogas al posto del gas fossile ridurrebbe le emissioni e si dimostrerebbe più economico della piena elettrificazione. Ma il parere degli esperti del ministero per l’Energia a San Francisco afferma che “non si può decarbonizzare la conduttura semplicemente sostituendo il gas naturale fossile con gas rinnovabile” – come informa Michael Boccadoro, direttore dell’associazione per la sostenibilità delle aziende agricole della California “perché il potenziale di biogas da latte sarebbe troppo costoso per essere utilizzato in abitazioni o aziende e, alla fine, dentro i tubi continuerebbe a scorrere in prevalenza gas fossile”.

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