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EDUCAZIONE: UN IMPORTANTE STRUMENTO PER COMBATTERE IL CAMBIAMENTO CLIMATICO

a cura di Mario Agostinelli

In questi giorni pesanti mi sono messo a tradurre e ricomporre un documento che trovo preziosissimo perché proviene dal sindacato internazionale, come una voce nel deserto che nessuna organizzazione nazionale del lavoro ha ripreso. Se ne avrete la voglia, potrete valutare come la sequenza illustri bene l’evoluzione storica malefica delle varie COP sul clima e muova una critica netta ai governi e al sistema del negazionismo climatico.

Credo che le indicazioni e le riflessioni che hanno l’autorevolezza di un documento prodotto dall’IE-EI* possano servire molto al nostro lavoro sia tra gli studenti sia nei confronti degli insegnanti e della formazione dei “disseminatori di didattica” quali ci siamo definiti. C’è qui una messe di informazioni sull’attività internazionale degli organismi UNESCO, ONU, UE, cui tutti potremmo accedere e sulla traccia di relazioni sociali che possono costruirsi a partire dal mondo del lavoro, del sindacato degli insegnanti, della ricerca, dell’Università fino alle scuole popolari: tutti, a quel che so, spaventati dalle arroganze spudorate della Lagarde, ma totalmente ignari di una presa di posizione così autorevole assunta per nome di milioni di lavoratrici e lavoratori.

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Education International è una Federazione dell’Unione Globale che rappresenta organizzazioni di insegnanti e altri dipendenti dell’istruzione. È la più grande e rappresentativa organizzazione settoriale mondiale dei sindacati con oltre 32 milioni di membri sindacali in 391 organizzazioni in 179 paesi e territori. Education International collabora con altre Federazioni sindacali globali e altre organizzazioni amichevoli per promuovere e raggiungere la solidarietà.


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Colori e calore del pianeta che brucia

Mario Agostinelli, Il manifesto-Extraterrestre, Novembre 2019

“Senza gas-serra il nostro pianeta sarebbe una palla di ghiaccio congelata, mentre con un aumento incontrollato di gas-serra la Terra sarebbe invivibile”. Un’asserzione inconfutabile, ma non risolutiva del conflitto anche culturale con cui si affronta l’emergenza climatica. Per tacciare il negazionismo più ostinato occorre un livello di convincimento tale da connettere un generico allarme per il futuro con la attendibilità delle previsioni del mondo scientifico. Si potrebbero, cioè, collegare le nostre percezioni quotidiane, inviate dai sensi alla mente e fissate nella memoria, con un’informazione accessibile anche a non specialisti e che faccia opera di mediazione con l’astrazione e l’incorporeità dei modelli con cui la scienza interpreta con successo la natura? Da qualche parte si dovrà pure tenere in conto che essi prevedono comportamenti del mondo microscopico in netto contrasto con la realtà così come ci appare. Se le due culture – scienza ed umanesimo – si divaricano sempre più sarà difficile recuperare un metodo interdisciplinare, più che mai indispensabile per affrontare le sfide delle nuove generazioni. Trovare il giusto equilibrio tra l’interesse filosofico, sociologico, letterario, artistico per l’essere umano e la descrizione scientifica della biosfera è probabilmente il compito educativo più pressante nel tempo che viene a mancare. Nel caso dell’emergenza climatica, ritengo che quell’equilibrio si possa trovare nella messa in cortocircuito dei lenti neuroni del cervello umano con la velocissima luce del Sole e la pigra materia irradiata sul Pianeta. Partirò pertanto da fenomeni che sono da sempre alla portata dell’osservazione e del sentire comune, come la colorazione del cielo e il contenuto di calore dell’atmosfera e della superficie terrestre. Per quanto possibile, cercherò poi di risalire dai dati di esperienza e memoria di ogni vivente ad un numero piccolo di eventi elementari, che combinandosi in modi diversi nell’ecosfera e, in particolare, nella sottile pellicola di gas, rendono unica e abitabile la Terra.

Basta uno sguardo al cielo per trovare in esso un’enorme varietà di cose, compresi perfino umori e sentimenti. Se andassimo un po’ oltre la curiosità suscitata dal mutare delle colorazioni in atmosfera – o, ancora, oltre lo stupore provocato dal buio trapunto di stelle o, infine, oltre la sorpresa di veder trasformarsi la pioggia in neve ad inizio inverno, saremmo anche in grado di ricondurre l’osservazione del colore e del calore a leggi che – dall’infinitamente piccolo all’infinitamente grande –presiedono al brusco cambiamento climatico in corso. Partiamo dai colori del cielo. La nostra vista è in grado di percepire un campo di colore che va dal viola al rosso e, per di più, di rilevare sia l’assenza di colore (il nero) che la fusione di tutti i colori dell’arcobaleno (il bianco). Quando i raggi del Sole irradiano la materia possono perdere alcuni dei sette colori trasportati e la luce che sortirà ai nostri occhi sarà privata dei corrispettivi componenti.

Andando oltre lo sguardo, tentiamo una descrizione a livello microscopico dei fenomeni di dispersione e assorbimento della radiazione elettromagnetica dello spettro solare, che si può suddividere in “pacchetti” di energia con lunghezze d’onda che stanno nel visibile, ma con una “testa” nell’ultravioletto e una “coda” nell’infrarosso. Quando la radiazione incontra la materia, scambia con essa quanti di energia (fotoni) di una lunghezza d’onda particolare, caratteristica del meccanismo con cui le differenti molecole irradiate vengono eccitate. Sono proprio molecole di gas eccitate che in atmosfera sottraggono allo spettro solare specifiche lunghezze d’onda che provocano il mutamento della colorazione percepita dai nostri occhi. Quando i raggi solari raggiungono l’atmosfera negli strati più alti, le piccole particelle di azoto e ossigeno, assorbono energia dalla regione “forte” dell’ultravioletto, fino, in qualche caso, a scindersi negli atomi costitutivi. Successivamente, lo spettro solare si “disarticola”, scendendo verso terra. La luce rossa tende a “scavalcare” le particelle di sopra senza “vederle” e, quindi, prosegue la sua propagazione lungo la retta dei raggi solari. Invece, la luce blu continua a interagire con le piccole molecole, da cui viene riflessa in tutte le direzioni e sotto tutti gli angoli, assai più di qualsiasi altra componente di colore. I nostri occhi che guardano in tutte le direzioni del cielo, vedono il blu arrivare da tutte le regioni della volta celeste, mentre le altre componenti (verde, giallo, arancione e rosso) “calano” senza deviare dalla linea retta del Sole. L’astro ci apparirà splendente di un oro accecante, mentre il resto del cielo rivelerà il suo colore azzurro cupo in un giorno sereno. L’atmosfera negli strati inferiori potrebbe contenere una elevata densità di grandi molecole come pulviscolo, inquinanti o umidità e frapporre ulteriori ostacoli alla radiazione. Nel caso, ad esempio, di nuvole o nebbia o di particelle di foschia (piccole gocce d’acqua) o di smog, è la luce bianca rimasta ad essere dispersa in tutte le direzioni: il cielo, che resta blu più in alto, assume al di sotto un aspetto lattiginoso. All’alba e al tramonto, invece, il sole colora l’aria di giallo-rosso e, all’orizzonte, diventa una palla rossa. I suoi raggi stanno infatti arrivando alla superficie della Terra dopo aver attraversato la bassa atmosfera, che oltre a contenere molto vapor acqueo e pulviscolo, ha uno spessore ben maggiore dell’atmosfera attraversata dai raggi a mezzogiorno. Incontrando un maggior numero di centri diffusori, anche la componente gialla si sparge, con il risultato che a noi che guardiamo giunge solo il rosso residuo. Sapere cosa avviene nell’ambito microscopico non distrugge il mistero, perché la scoperta è tanto stupefacente quanto possa rendere l’immaginazione di un letterato.

Per arrivare all’effetto serra basta compiere un passo in più. La radiazione solare regola, giorno dopo giorno, anche la temperatura dell’intero Pianeta. Questa volta dobbiamo servirci, oltre che della vista, anche dei sensi che avvertono il calore. Dal complesso atterrare dei raggi solari sul Pianeta, dal loro ripartire e dalla loro interazione con la materia interposta, viene regolato il sistema climatico terrestre, della cui temperatura beneficia la riproduzione del vivente. Con una analogia che padroneggiamo, ci siamo trasferiti dal campo visibile all’infrarosso. In buona sostanza, quando Il Sole manda energia sulla Terra, le molecole più grandi e complesse che compongono l’atmosfera – vapore acqueo, anidride carbonica e metano – assorbono in bande ristrette fotoni infrarossi, che le fanno vibrare o ruotare attorno ai legami che uniscono gli atomi, senza però spezzarle. Qualche tempo dopo, le molecole “eccitate” si “rilassano” trasferendo l’energia extra ad altre molecole e aggiungendo velocità al movimento di quest’ultime. Poiché la temperatura di un gas è una misura della velocità delle sue molecole, il movimento più veloce risultante dopo gli assorbimenti dei fotoni IR aumenta la temperatura dei gas in atmosfera. Senza la contabilizzazione dell’equilibrio dovuto al “rimbalzo” per la presenza di gas che chiamiamo climalteranti, registreremmo una temperatura media di -15°C. Si tratta di un equilibrio naturale che ha reso possibile la vita e la sua riproduzione entro una finestra energetica molto stretta, corrispondente a variazioni di temperatura di pochi gradi. Anche in questo caso abbiamo una corrispondenza col “sentire” del vivente: bastano infatti due gradi di differenza nella temperatura corporea per sentirci bene o ammalati. Ma guai ad ammalarsi senza guarigione!

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APPELLO: Iniziativa di legge popolare su emergenza climatica

La più grande minaccia di questo secolo” – il cambiamento climatico, la transizione all’instabilità climatica – si sta delineando con eventi sempre più drammatici: a luglio scorso il National Snow and Ice Data Center (NSIDC) degli Usa ha rilevato un picco terribile e inatteso nella curva che documenta l’andamento della fusione dei ghiacci artici in Groenlandia.

Abbiamo denunciato da gran tempo le conseguenze del cambiamento climatico che si abbatte su uomini e cose con l’intensità degli eventi meteorologici estremi, mentre si estendono le aree desertiche, cresce la siccità, si addensa negli ultimi vent’anni il numero dei massimi di temperatura media della terra. La calotta artica si è spaccata nel 2006 aprendo la caccia senza regole al suo sottosuolo, nel 2017 si è staccato dall’Antartide un “iceberg” più grande della Liguria.

Ci siamo battuti documentando e denunciando la più generale crisi ambientale: la devastazione di uno sviluppo fondato sulla spoliazione e il saccheggio delle risorse naturali, come conseguenza del modo capitalistico di produrre e consumare. Esemplare, il nuovo odioso colonialismo del landgrabbing, che attraverso i meccanismi della mera acquisizione di mercato priva intere popolazioni dei loro diritti, delle loro terre e delle loro acque senza dar loro nemmeno la possibilità di essere ascoltati o addirittura attraverso vere e proprie deportazioni. In America Latina, Asia e Africa sempre più grandi foreste, terre comunitarie, bacini fluviali e interi ecosistemi vengono spogliati e le comunità sfollate. Il rogo della foresta amazzonica è l’ultimo drammatico esempio, ammantato di un sovranismo in realtà prono agli interessi delle grandi compagnie agrario-alimentari. La diversità biologica viene costantemente ridotta, la grande barriera corallina australiana è a rischio nei suoi 3000 km. Il respiro degli oceani è soffocato dalla plastica.

Abbiamo proposto in tutti questi anni la battaglia a favore dell’ambiente, contro il global warming e per una generale riconversione ecologica dell’economia e della società, come impegno culturale, sociale e morale. La “Laudato si’” di Papa Bergoglio ha messo in risalto gli aspetti umani e spirituali di questa nuova visione.

I governi di tutto il mondo, colpevolmente lenti nell’applicare il Protocollo di Kyoto (2005), oggi in ritardo nell’attuare gli impegni dell’Accordo di Parigi ratificati nel 2016 da 180 Paesi, devono accelerare la loro azione per fare più efficacemente fronte al cambiamento climatico e mantenere l’obiettivo di contenere l’aumento della temperatura media globale entro 1,5 °C.

A pagare lo sconquasso del clima sono soprattutto le popolazioni più povere e vulnerabili, colpite dalle migrazioni interne o dalla fuga disperata dalle loro terre, da fame, sete e malattie endemiche, marginalizzate nei loro territori, spesso nel nome stesso dello sviluppo e dell’innovazione. I rischi dovuti ai disastri ambientali accrescono tensioni e conflitti e nel 2017 hanno causato, da soli, l’esodo di 60 milioni di rifugiati ambientali, ma saranno quattro volte tanti nel giro di soli vent’anni.

Non si tratta solo dell’accoglienza e della sicurezza. Occorre “costruire ponti”, capaci di ridurre la distanza tra chi ha troppo e chi non ha abbastanza, tra l’opulenza e la povertà, come indicato dagli obiettivi globali dell’Agenda 2030 proposta dalle Nazioni Unite.

Occorre modificare i nostri stili di vita, le nostre culture e il nostro modo di pensare se vogliamo dare futuro al futuro. Trasformare i rifiuti in nuovi prodotti com’è tecnologicamente possibile, fare di più con meno, organizzare la società della sufficienza affinché ogni risorsa sia utilizzata senza sprechi e nel modo più appropriato fino all’autogestione. E, da subito, “decarbonizzare” l’economia sostituendo i combustibili fossili con le fonti rinnovabili.

Oggi finalmente una voce si leva autorevole per imprimere un’accelerazione agli impegni dei Governi, almeno qui in Europa. La neo-presidente della Commissione UE, Ursula von der Leyen, ha proposto al Parlamento europeo a Strasburgo l’obiettivo di riduzione del 50-55% di CO2, il gas serra dominante, entro il 2030 facendo così schizzare a quel livello il target che la UE aveva in precedenza fissato al 32%. E, conseguentemente, di mantenere “un ruolo di guida della UE nei negoziati internazionali per far crescere il livello di ambizione delle altre principali economie entro il 2021”. Come si è verificato lungo tutto il percorso che ha portato all’Accordo di Parigi.

Il Governo italiano, continuando a perseguire un atteggiamento vergognosamente caudatario; infatti, essendo già da tempo in corso il dibattito in sede Ue per portare la riduzione al 40%, ha proposto nel Piano Nazionale Integrato Energia e Clima (PNIEC) un obiettivo di solo il 33%. Il PNIEC è stato sottoposto, a decorrere dal 3 agosto scorso, alle osservazioni di tutti i cittadini tramite la Valutazione Ambientale Strategica (VAS).

Noi, le associazioni, i comitati e i gruppi che rappresentiamo, faremo senz’altro pervenire le nostre osservazioni entro i 60 giorni previsti dalla procedura di VAS. Riteniamo, però, che debba attuarsi in tutto il Paese la più ampia mobilitazione possibile perché il Piano assuma l’obiettivo indicato dalla von der Leyen. Al di sotto, saremmo come i Paesi di Visegrad nei confronti dell’immigrazione, non a caso le maggiori resistenze alla “decarbonizzazione” provengono da alcuni di loro in nome del miope privilegio degli “interessi nazionali”. E, soprattutto, non saremmo all’altezza della tremenda sfida e delle responsabilità che il cambiamento climatico impone a tutti.

Per favorire questa mobilitazione, per dargli il carattere capillare di confronto con cittadini, organi territoriali elettivi, istituzioni e enti pubblici, luoghi di lavoro e di socializzazione, organi di informazione, proponiamo una legge d’iniziativa popolare che assuma l’obiettivo del 50% per l’Italia e indichi la carbon tax come mezzo principale per coprire la spesa pubblica finalizzata a quell’obiettivo.

La raccolta di firme per la presentazione della legge può costituire un momento d’informazione e, allo stesso tempo, sollecitare un protagonismo consapevole ed esteso di tutti quale la drammaticità dei tempi richiede.

 

Massimo Scalia CIRPSDaniela Padoan Pres. Forum LAUDATO SI’Mario Agostinelli Pres. ENERGIA FELICE – Vanessa Pallucchi Vice Pres. LEGAMBIENTE – Pippo Onufrio Dir. Gen. GREENPEACE ITALIA – Enrico Vicenti Segretario CNI-Unesco Ermete Realacci Pres. SYMBOLARoberta Cafarotti Dir. Scient. EARTH DAY ITALY – Mariagrazia Midulla Resp. Clima & Energia WWFEnzo Naso Dir. CIRPS – Virginio Colmegna Forum LAUDATO SI’ – Marialuisa Saviano Pres. IASS – Aurelio Angelini Pres.CNESA2030-UnescoGianni Silvestrini Dir. Scient. KYOTO CLUB – Mario Salomone Segr. Gen. WEEC NETWORKSimona Sambati CASA DELLA CARITÀSergio Ferraris Dir. “QUALE ENERGIA” – Vittorio Bardi Pres. SÌ ALLE RINNOVABILI, NO AL NUCLEAREPaola Bolaffio Dir. “GIORNALISTI NELL’ERBA” – Guido Viale FORUM “LAUDATO SI” – Gianni Mattioli CIRPS Pasquale StiglianiSCANZIAMO LE SCORIE”, ScanzanoSerenella Iovino University of North Carolina Marco Fratoddi Dir. “SAPERE AMBIENTE” – Stefania Divertito, Giornalista – Oreste Magni ECOISTITUTO-VALLE DEL TICINO – Michela Mayer Dirett. IASS – Enzo Reda MOV. ECOLOGISTA CALABRIA – Monica D’Ambrosio GiornalistaPaolo Bartolomei Commiss. Scient. DECOMMISSIONING – Anna Re Univ. IULM, Milano – Ilaria Romano Giornalista – Gianluca Senatore Univ. LA SAPIENZA-Roma – Gian Piero Godio PRO NATURA, Vercelli – Linda Maggiori Blogger – Filippo Delogu Segr. CNESA2030-Unesco – Giuditta Iantaffi Coord. Docenti “GIORN. NELL’ERBA”Salvatore Alfano MOV. ECOLOGISTA LAZIO Silvia Zamboni Giornalista

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Una mobilitazione della società e del mondo del lavoro per la decarbonizzazione

Bill Mckibben, un ambientalista statunitense attivo anche come scrittore e giornalista, definito nel 2010 dal Boston Globe come “probabilmente l’ambientalista più influente della nazione”, ha lavorato sul cambiamento climatico per trent’anni e dice di aver imparato a liberare la sua angoscia e a tenerla sotto controllo. Ma, negli ultimi mesi, ammette che la sua angoscia vera riguarda i suoi figli. Questa primavera è stato registrato per la concentrazione di l’anidride carbonica nell’atmosfera il livello record di 415 parti per milione, superiore a quanto non sia mai stato in molti milioni di anni. L’estate è iniziata con il mese più caldo mai registrato, quindi Luglio è diventato il mese più caldo dell’era moderna. Il Regno Unito, la Francia e la Germania, hanno tutti raggiunto nuove alte temperature e il calore si è spostato verso nord, fino a quando la maggior parte della Groenlandia si è sciolta e immensi incendi siberiani hanno inviato grandi nuvole di carbonio verso il cielo. All’inizio di settembre, l’uragano Dorian si è fermato sopra le Bahamas, dove ha scatenato quello che un meteorologo ha definito “il più lungo assedio di tempo violento e distruttivo mai osservato” sul nostro pianeta. Gli avvertimenti scientifici di tre decenni fa sono i più micidiali avvisi di calore del presente e, per il futuro, ci impongono scadenze rigide. Lo scorso autunno, gli scienziati climatici di tutto il mondo hanno affermato che, se vogliamo raggiungere gli obiettivi fissati nell’accordo sul clima di Parigi del 2015,

Nel mondo di Trump e Putin e Bolsonaro e delle compagnie di combustibili fossili che li sostengono, sembra impossibile modificare il quadro che si prospetta. Invece non è nemmeno tecnologicamente impossibile: nell’ultimo decennio è stato abbassato il prezzo dell’energia solare ed eolica rispettivamente del novanta e settanta per cento. Ma non basta, se oltre alla tecnologia non muta la direzione dell’economia capitalista e se non entra in campo, assieme ai movimenti planetari degli studenti e delle donne il movimento delle lavoratrici e dei lavoratori. ****

In effetti la vera buona notizia è che, quando la crisi diventa più evidente, molte più persone si uniscono alla lotta. Nell’anno in cui gli scienziati hanno lanciato il loro allarme di è potuto riscontrare la proposta del Nuovo Green new Deal della Ocasio Cortez, gli exploit di Extinction Rebellion e la diffusione globale degli scioperi degli studenti avviata dall’adolescente svedese Greta Thunberg. E – grande novità per il nostro Paese – Il segretario Generale della CGIL Maurizio Landini afferma da Lilli Gruber e nellaassemblea programmatica riservata ai delegati dei luoghi di lavoro che il problema principale per il suo sindacato è contrastare il brusco cambiamento climatico a partire dai luoghi di lavoro. Sembra che ci siano finalmente che nasca una massa critica per sostenere un conflitto ed un risultato utile.

La domanda tuttavia è pressante: quali sono le forze su cui contare per il cambiamento nel tempo necessario?

Alcuni di noi hanno iniziato a cambiare la propria vita, impegnandosi a volare di meno e a mangiare più in basso nella catena alimentare. Ma, qualunque siano le nostre intenzioni, ognuno di noi è attualmente costretto a bruciare una discreta quantità di combustibile fossile: se non c’è un treno che porta a destinazione, non puoi prenderlo. Altri – in realtà, spesso le stesse persone – stanno lavorando per eleggere candidati “più ecologici” che attuino pressioni per approvare programmi politici e avviare procedimenti giudiziari contro le grandi opere inutili.

Ma queste azioni potrebbero non ripagare abbastanza velocemente. Il cambiamento climatico è un test a tempo, uno dei primi che la nostra civiltà ha affrontato, e secondo i rapporti scientifici la finestra in cui inserire il cambiamento si restringe al passare dei mesi, non degli anni. Al contrario, il cambiamento culturale – ciò che mangiamo, il modo in cui viviamo – spesso avviene per generazioni e il cambiamento politico che comporta un lento compromesso sembra ostacolato dai negazionisti e da chi dirige la paura verso obiettivi escludenti e la sfiducia nella democrazia.

Forse va ammesso, assunto e scommesso sul fatto che i leader politici non sono gli unici attori del pianeta e che nella società attuale, con la vittoria incontrastata del liberismo, anche e soprattutto chi concentra la maggior parte del denaro e della ricchezza depredata a spese del lavoro e della natura, ha un potere che potrebbe essere esercitato in pochi mesi o addirittura ore. Mckibben suggerisce che la chiave per interrompere il flusso di carbonio nell’atmosfera sia quella di interrompere il flusso di denaro verso carbone, petrolio e gas. Bisogna da subito avviare la decarbonizzazione dell’economia e della società e interrompere il sostegno finanziario che spesso attori non consapevoli riservano al vecchio modello energetico ancora determinante.

Shell ha definito il disinvestimento un “effetto negativo materiale” sulle sue prestazioni. La campagna di disinvestimento ha reso pubblica la notizia più eclatante dell’era del riscaldamento globale: che l’industria ha nelle sue riserve cinque volte più carbonio di quanto il consenso scientifico pensi che possiamo tranquillamente bruciare. Un’istituzione religiosa dopo l’altra si è spogliata di petrolio e gas e Papa Francesco ha convocato i dirigenti del settore energetico in Vaticano per dire loro che devono lasciare il carbone sottoterra.

Il sistema bancario si è unita alle industrie del fossile per impedirne l’uscita di scena Nei tre anni trascorsi dalla fine dei colloqui sul clima di Parigi, la banca Chase ha investito 196 miliardi di dollari in finanziamenti per l’industria dei combustibili fossili, molti dei quali per finanziare nuove iniziative estreme: trivellazioni in acque ultra-profonde, estrazione di petrolio artico, trivellazioni nell’Adriatico. Nei fatti, Jamie Dimon, il C.E.O. di JPMorgan Chase, è un barone del petrolio, carbone e gas quasi senza pari.

Lo stesso vale per le attività di gestione patrimoniale e assicurativa: senza di esse le società di combustibili fossili rimarrebbero quasi letteralmente a corto di gas. Ma il capitalismo non è noto per arrendersi alle fonti di entrate e non si preoccupa dello scioglimento della calotta artica.

Quando si riflette sulla dimensione di questi problemi, appare in tutta la sua povertà la dimensione della politica, che garantisce la costruzione di gasdotti come il TAP o la riconversione della centrali a carbone in impianti a gas fossile con la prospettiva di ritorno degli investimenti a 25 anni, che solo la politica e le tariffe in bolletta dei cittadini ignari e non la società o il mondo del lavoro o le prospettive del welfare possono garantire.

A questo proposito vorrei qui mettere in rilievo una riflessione ed una proposta sul sistema energetico e i cambiamenti climatici lanciata da una aggregazione di personalità del mondo scientifico, culturale, associativo. In essa (v. https://zeroemission.eu/riduzione-dei-gas-serra-al-2030-lappello-di-massimo-scalia/ ) si afferma che “La più grande minaccia di questo secolo” – il cambiamento climatico, la transizione all’instabilità climatica – si sta delineando con eventi sempre più drammatici e che le conseguenze del cambiamento climatico che si abbatte su uomini e cose con l’intensità degli eventi meteorologici estremi, documenta una più generale crisi ambientale: la devastazione di uno sviluppo fondato sulla spoliazione e il saccheggio delle risorse naturali, come conseguenza del modo capitalistico di produrre e consumare. Esemplare, al riguardo, il nuovo odioso colonialismo del landgrabbing, che attraverso i meccanismi della mera acquisizione di mercato priva intere popolazioni dei loro diritti, delle loro terre e delle loro acque senza dar loro nemmeno la possibilità di essere ascoltati o addirittura attraverso vere e proprie deportazioni. In America Latina, Asia e Africa sempre più grandi foreste, terre comunitarie, bacini fluviali e interi ecosistemi vengono spogliati e le comunità sfollate. La diversità biologica viene costantemente ridotta, la grande barriera corallina australiana è a rischio nei suoi 3000 km. Il respiro degli oceani è soffocato dalla plastica.

Si ripropone la battaglia a favore dell’ambiente, contro il global warming e per una generale riconversione ecologica dell’economia e della società, come impegno culturale, sociale e morale. Si ricorda che la “Laudato si’” di Papa Bergoglio ha messo in risalto gli aspetti umani e spirituali di questa nuova visione.

Purtroppo però, i governi di tutto il mondo, colpevolmente lenti nell’applicare il Protocollo di Kyoto (2005) e oggi in ritardo nell’attuare gli impegni dell’Accordo di Parigi ratificati nel 2016 da 180 Paesi, non accelerano la loro azione per fare più efficacemente fronte al cambiamento climatico e mantenere l’obiettivo di contenere l’aumento della temperatura media globale entro 1,5 °C. A pagare lo sconquasso del clima sono soprattutto le popolazioni più povere e vulnerabili, colpite dalle migrazioni interne o dalla fuga disperata dalle loro terre, da fame, sete e malattie endemiche, marginalizzate nei loro territori, spesso nel nome stesso dello sviluppo e dell’innovazione. I rischi dovuti ai disastri ambientali accrescono tensioni e conflitti e nel 2017 hanno causato, da soli, l’esodo di 60 milioni di rifugiati ambientali, ma saranno quattro volte tanti nel giro di soli vent’anni. Non si tratta solo dell’accoglienza e della sicurezza. Occorre “costruire ponti”, capaci di ridurre la distanza tra chi ha troppo e chi non ha abbastanza, tra l’opulenza e la povertà, come indicato dagli obiettivi globali dell’Agenda 2030 proposta dalle Nazioni Unite. Occorre quindi modificare gli stili di vita, le culture e il modo di pensare se si vuole dare futuro al futuro. Trasformare i rifiuti in nuovi prodotti com’è tecnologicamente possibile, fare di più con meno, organizzare la società della sufficienza affinché ogni risorsa sia utilizzata senza sprechi e nel modo più appropriato fino all’autogestione. E, da subito, “decarbonizzare” l’economia sostituendo i combustibili fossili con le fonti rinnovabili.

Anche la voce della neo-presidente della Commissione UE, Ursula von der Leyen, si è levata per proporre al Parlamento europeo a Strasburgo l’obiettivo di riduzione del 50-55% di CO2, il gas serra dominante, entro il 2030, facendo così schizzare a quel livello il target che la UE aveva in precedenza fissato al 32%. E, conseguentemente, di mantenere “un ruolo di guida della UE nei negoziati internazionali per far crescere il livello di ambizione delle altre principali economie entro il 2021”.

Il Governo italiano, continuando a perseguire un atteggiamento vergognosamente caudatario, ha proposto nel Piano Nazionale Integrato Energia e Clima (PNIEC) un obiettivo di solo il 33%.

La novità offerta dallo straordinario protagonismo degli studenti di Fridayforfuture nell’ultima settimana di Settembre ed un primo coinvolgimento dei lavoratori e del loro sindacato, confermato dalle iniziative della CGIL e da una riflessione intensa e foriera di riflessioni nel suo gruppo dirigente, fa presumere che possa attuarsi in tutto il Paese la più ampia mobilitazione possibile

Il Governo non può sentirsi rappresentato sul tema del clima, come nei confronti dell’immigrazione, dall’involuzione a destra dei i Paesi di Visegrad in nome di un miope privilegio degli “interessi nazionali”, che non si pone all’altezza della tremenda sfida e delle responsabilità che il cambiamento climatico impone a tutti.

Per favorire questa mobilitazione, per dargli il carattere capillare di confronto con cittadini, organi territoriali elettivi, istituzioni e enti pubblici, luoghi di lavoro e di socializzazione, organi di informazione, occorre pensare anche allo strumento di una legge d’iniziativa popolare che assuma l’obiettivo del 50% per l’Italia e indichi la carbon tax come mezzo principale per coprire la spesa pubblica finalizzata a quell’obiettivo. L’adesione del sindacato unitario a questa impresa è senz’altro determinante.

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Il denaro è l’ossigeno per il fuoco del riscaldamento globale

In queste giornate di forte emozione e coinvolgimento create dall’entrata in campo di un nuovo movimento schiettamente giovanile che si organizza su un terreno colpevolmente ignorato dai governanti delle generazioni passate, lascio alla testimonianza diretta degli eventi che si manifestano nelle assemblee e nelle piazze di tutto il Pianeta il compito di trasmettere il loro potentissimo messaggio di fondo. Qui invece vorrei riflettere su un aspetto poco trattato quando si parla dell’emergenza climatica e si afferma – giustamente – che non esiste una soluzione «di mercato» ai disastri ambientali. Vorrei, cioè trattare il ruolo che il capitale finanziario e le banche hanno nel dare continuità al sistema dei fossili, ostacolando la decarbonizzazione che deve avvenire in orizzonti temporali vicinissimi.

Bill Mckibben, un ambientalista statunitense attivo anche come scrittore e giornalista, definito nel 2010 dal Boston Globe come “probabilmente l’ambientalista più influente della nazione”, ha lavorato sul cambiamento climatico per trent’anni e dice di aver imparato a liberare la sua angoscia e a tenerla sotto controllo. Ma, negli ultimi mesi, ammette che la sua angoscia vera riguarda i suoi figli. Lo scorso autunno gli scienziati climatici di tutto il mondo hanno affermato che, se vogliamo raggiungere gli obiettivi fissati nell’accordo sul clima di Parigi del 2015, abbiamo a disposizione un numero di anni che non vanno al di là delle dita delle mie mani.

Nel mondo di Trump e Putin e Bolsonaro e delle compagnie di combustibili fossili che li sostengono, sembra impossibile modificare il quadro che si prospetta. Invece non è nemmeno tecnologicamente impossibile: nell’ultimo decennio è stato abbassato il prezzo dell’energia solare ed eolica rispettivamente del novanta e settanta per cento. Ma non basta, se oltre alla tecnologia non muta la direzione dell’economia capitalista e se non entra in campo, assieme ai movimenti planetari degli studenti e delle donne il movimento delle lavoratrici e dei lavoratori che sentano la riconversione ecologica come il principale obbiettivo contrattuale.

C’è un ruolo delle banche e della finanza, che di frequente viene occultato e che ritarda le misure urgenti per combattere il cambiamento climatico in corso. Chi concentra la maggior parte del denaro e della ricchezza creata a spese del lavoro e della natura, ha un potere che potrebbe essere esercitato in pochi mesi se cessasse di finanziare i fossili.

Mckibben suggerisce che la chiave per interrompere il flusso di carbonio nell’atmosfera sia quella di interrompere il flusso di denaro verso carbone, petrolio e gas.

L’industria ha nelle sue riserve cinque volte più carbonio di quanto il consenso scientifico pensi che possiamo tranquillamente bruciare. Un’istituzione religiosa dopo l’altra si è spogliata di petrolio e gas e Papa Francesco ha convocato i dirigenti del settore energetico in Vaticano per dire loro che devono lasciare il carbone sottoterra.

Ma il sistema bancario si è unito alle industrie del fossile per impedirne l’uscita di scena. Nei tre anni trascorsi dalla fine dei colloqui sul clima di Parigi, la banca Chase ha investito 196 miliardi di dollari in finanziamenti per l’industria dei combustibili fossili, molti dei quali per finanziare nuove iniziative estreme: trivellazioni in acque ultra-profonde, estrazione di petrolio artico, trivellazioni nell’Adriatico ( v. https://www.newyorker.com/news/daily-comment/money-is-the-oxygen-on-which-the-fire-of-global-warming-burns 4/14 ). Nei fatti, Jamie Dimon, il C.E.O. di JPMorgan Chase, è un barone del petrolio, carbone e gas quasi senza pari. Lo stesso vale per le attività di gestione patrimoniale e assicurativa: senza di esse le società di combustibili fossili rimarrebbero quasi letteralmente a corto di gas.

Nei tre anni successivi alla firma dell’accordo sul clima di Parigi i prestiti delle banche all’industria sono aumentati ogni anno e gran parte del denaro va verso le forme più estreme di sviluppo energetico. Tutti sanno che prima o poi l’era dei combustibili fossili finirà e se una banca gigantesca come Chase o altre analoghe si ritirasse, invierebbe un segnale inconfondibile di un imminente “bolla del carbonio” con danni gravi per i vettori ferroviari, i proprietari di porti e le imprese appaltatrici di carbone o dipendenti dal gas”. Un danno che tuttavia impallidirebbe a fronte del tipo di previsioni su quel che resterebbe del Pianeta se l’industria dei combustibili fossili continuasse sul suo percorso attuale per un altro decennio.

Quando si riflette sulla dimensione di questi problemi, appare in tutta la sua povertà di strategia la dimensione della politica energetica nazionale, che garantisce la costruzione di gasdotti come il TAP o la riconversione delle centrali a carbone in impianti a gas fossile come previsto per Civitavecchia, con la prospettiva di un ritorno degli investimenti a 25 anni, quando le tariffe pagate dai cittadini in bolletta continueranno magari ad essere incassate, mentre la natura non avrà più risorse sufficienti a rigenerarsi.

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