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La rivoluzione Enel

Enel chiude 23 centrali e le riconsegna al territorio: una occasione straordinaria per il paese di recuperare aree progettandone nuovi usi.

a cura di Roberto Meregalli

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Con l’avvento di Francesco Starace alla guida di Enel (maggio 2014), la politica dell’ex monopolista elettrico ha subito una decida sterzata. Il nuovo amministratore delegato, in una audizione al Senato nell’ottobre dello stesso anno, spiegò che in uno scenario così rivoluzionato, come quello della generazione elettrica, Enel doveva chiudere senza esitazioni ben 25 mila MW di centrali termoelettriche, divenute ormai una zavorra difficile da sostenere.

Eccesso di offerta di elettricità, calo dei consumi, aumento della generazione rinnovabile sono l’origine di questa colossale iniziativa di chiusura di centrali che hanno fatto la storia del nostro Paese.

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Il secolo dei rifugiati ambientali? – Convegno a Milano

Il secolo dei rifugiati ambientali?
Analisi, proposte, politiche

Milano, 24 settembre 2016

Il 24 settembre si terrà a Milano, nella Sala delle conferenze di Palazzo Reale, un convegno internazionale organizzato e promosso da Barbara Spinelli e dal gruppo GUE/NGL del Parlamento europeo, che si propone di riflettere su una figura generalmente trascurata sul piano giuridico: quella del rifugiato per motivi ambientali.

Secondo le stime dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) e dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM), entro il 2050 i profughi ambientali saranno tra 200 e 250 milioni, con una media di 6 milioni di persone costrette ogni anno a lasciare la propria abitazione e spesso il proprio Paese. Lo straordinario aumento di sfollati interni e di profughi è in gran parte dovuto a conflitti scatenati da politiche diffuse e sistematiche di appropriazione di risorse. Dal dopoguerra a oggi, ben 111 conflitti nel mondo avrebbero tra le proprie radici cause ambientali: 79 sono tuttora in corso e, tra questi, 19 sono considerati di massima intensità.

Nonostante le misure fin qui prese per contenere i cambiamenti climatici e l’aggressione alle risorse naturali, l’espulsione dal proprio habitat di ampie quote della popolazione mondiale a causa del deterioramento ambientale è considerata inevitabile dalla maggior parte della comunità scientifica, in assenza di provvedimenti più radicali di quelli presenti. Eppure il fenomeno resta di fatto invisibile alle legislazioni e alla politica. Nemmeno la Convenzione di Ginevra e il Protocollo aggiuntivo del 1967 riconoscono lo status giuridico di chi fugge da catastrofi ambientali, specie se originate da azioni e interventi umani sulla natura.

Sono rifugiati ambientali quelli che scappano da conflitti per l’accaparramento delle risorse idriche o energetiche, come lo sono coloro che fuggono dalla desertificazione e dal collasso delle economie di sussistenza in seguito a crisi dell’ecosistema, dovute a cause naturali o attività umane: land grabbing, water grabbing, processi di “villaggizzazione” forzata (che negli anni Ottanta causarono la morte di un milione di persone per carestia, in Etiopia), inquinamento ambientale, smaltimento intensivo di rifiuti tossici o radioattivi, scorie radioattive risultanti da bombardamenti.

Questi flussi si aggiungono a quelli causati da guerre e persecuzioni politiche, religiose o etniche, e talvolta vi si sovrappongono in modo inestricabile. É pretestuoso e miope considerare popolazioni in fuga da condizioni invivibili alla stregua di migranti economici, tuttavia è esattamente ciò che fa la Commissione europea con il cosiddetto “approccio hotspot”, che istituisce due categorie di migranti: i profughi di guerra, ai quali viene riconosciuto il diritto di chiedere protezione internazionale, e i migranti economici, da rimpatriare – con ciò violando il diritto d’asilo.

Obiettivi del convegno:

  • Analizzare il concetto di rifugiato ambientale e le sue implicazioni giuridiche.
  • Dare un quadro della situazione ambientale nei Paesi dai quali provengono i profughi.
  • Denunciare le politiche di accaparramento di suolo e di risorse attuate da aziende occidentali e multinazionali in accordo con i governi locali.
  • Individuare strumenti di monitoraggio dell’uso dei fondi europei o nazionali per la cooperazione e lo sviluppo destinati a regimi che non rispettano i diritti umani.
  • Mostrare che la separazione tra profughi di guerra e migranti economici applicata nel cosiddetto “approccio hotspot” rischia di essere è lesiva dell’impianto stesso del diritto d’asilo e che l’attuale politica europea dei rimpatri va rigettata nella sua forma attuale.
  • Promuovere un’azione a livello parlamentare europeo per l’introduzione legislativa della figura del rifugiato (interno ed esterno) costretto alla fuga da una massiccia perdita di habitat.
  • Mostrare che è conveniente, oltre che rispettoso del diritto internazionale, sviluppare al massimo, e modificare, le politiche europee di accoglienza e integrazione di profughi e migranti.

Il convegno ha il patrocinio e la partecipazione di:
Università degli studi di Milano, Centro Europeo di eccellenza Jean Monnet, Associazione Costituzione Beni Comuni, Associazione Diritti e frontiere, Associazione Laudato Si’, Gruppo consiliare Milano in Comune, Comune di Milano.

Tra i relatori spiccano figure di rilievo scientifico come Roger Zetter e François Gemenne, l’ex ministro del Mali Aminata Traoré, il responsabile Unhcr per l’Europa meridionale Stéphane Jaquemet, le eurodeputate Ana Gomes, Marie-Christine Vergiat, Elly Schlein.

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Cittadinanza ed Empowerment: Un Manifesto per una Costituente Egualitaria

a cura di Stefano Bonaga*

1 – Nel discorso pubblico prevalente la politica viene identificata con la grammatica della sua rappresentazione mediatica, ridotta cioè all’immagine mobile del gradimento degli spettatori verso la performance degli attori politici. Un sistema sempre più chiuso della selezione dei candidati ne completa il quadro, aggiungendo un fattore ulteriore di degrado in ordine alle aspettative suscitate. Il disincanto tuttavia connesso a tale rappresentazione è ad intermittenza accompagnato da un singolare ottimismo della speranza. Intendiamo smascherare come tale rappresentazione fenomenologica occulti una disfunzione profonda del sistema politico e non una transitoria inadeguatezza soggettiva dei suoi governanti.

2- Al declino della forma rappresentativa classica, dove la delega politica prometteva una qualche corrispondenza di idee e interessi fra eletti ed elettori, è seguita una trasformazione della visione di libertà politica dei cittadini: da potenza di agire effettuale e produttiva a rituale assenso via elezioni, e consenso via sondaggi. Le procedure democratiche, invece che sostanza della democrazia per mezzo del suffragio, sono sempre più un rituale svuotato di affluenza ed efficacia. Si tratta di un oblìo delle promesse dell’Articolo 3 della Costituzione, dove l’uguaglianza politica è intesa come capacità dei cittadini di formarsi ed esprimersi a partire da ciò che sono ma senza che la loro diversità sia ragione di ineguaglianza di potere.

3- La diseguaglianza di potere ed influenza sul processo di decisione è la registrazione politica della crescita di disegueglianze economiche e sociali che rendono molti cittadini depauperati delle condizoni, anche minime, per formare quelle capacità che consentono loro di aspirare al riconoscimento della dignità della propria vita; di essere responsabili e attivi nella ricerca della felicità; di essere cittadini coscienti del proprio potere come persone singole e associate. Invece di una promessa che la società ha fatto a se stessa nel momento della sua costituzione democratica, l’eguaglianza di considerazione legale e morale è diventata per troppi un fine quasi inaccessibile.

4- Le prestazioni di cittadinanza che hanno storicamente segnato il passaggio dal ruolo di suddito a quello di cittadino, a partire dal principio No taxation without representation si trovano oggi ad essere ridotte a due: al dovere fiscale e all’esercizio del diritto di suffragio. Esse, quandanche implementate, risultano, all’interno della democrazia di una società complessa, assolutamente insufficienti a far fronte alle aspettative che generano, siano esse soddisfacimento di bisogni, di diritti, di desideri, di domande culturali. La sproporzione fra tali prestazioni minime di cittadinanza e le relative massime pretese nei confronti del governo emerge come uno dei sintomi funzionali della crisi sistemica di una democrazia che si identifica ormai soltanto con la delega elettorale. Cittadini che sono solo elettori percepiscono, prevedibilmente, la tassazione come servitù piuttosto che come dovere di contribuire alla vita della collettività esercitato da cittadini liberi. No taxationanche a prezzo della rappresentanza.

5- Il sistema della delega in quanto tale configura il rapporto fra governanti e governati conforme al paradigma espresso dalla domanda rivolta dai primi ai secondi: “di che cosa avete bisogno cittadini?”, a cui segue l’impegno programmatico dei primi a far fronte alle richieste. Tale impegno risulta agli occhi di tutti costantemente inevaso. Solo in certi casi ciò dipende dai limiti dei delegati poichè in generale la delusione è imputabile ai limiti stessi della rappresentanza. Si rende dunque necessario un passo ulteriore nella direzione di un’assunzione di maggiore responsabilità politica dei governati che, rispondendo alla domanda: “Che cosa posso fare?”, cooperino ad una costituzione positiva della potenza di agire di una società.

6- Il passaggio storico in Europa da una società stratificata – in cui gli interessi interni agli strati o ceti o classi erano tendenzialmente omogenei – ad una società complessa e funzionalmente differenziata – in cui coesistono e si mobilitano all’interno di ciascuna fascia istanze e opportunità diversificate in ordine a svariati contesti (salario, abitazione, trasporti, sanità, informazione, cultura, tempo libero ecc.)- impone un aumento enorme di capacità selettiva che il solo sistema della rappresentanza politica non è in grado di offrire. Solo un cospicuo incremento di tale capacità selettiva può affrontare il compito di ridurre e quindi governare questa enorme complessità. E’ da questa considerazione che si ricava l’importanza sostanziale e decisiva delle associazioni e dei partiti, quali corpi intermedi ed espressioni della necessità della cittadinanza attiva.

7- La teoria sociologica dei sistemi aperti illustra con chiarezza questa esigenza: per ridurre la complessità dell’ambiente sociale, cioè la sovrabbondanza delle sue istanze e alternative rispetto all’azione attualizzante, occorre complessificare il sistema della politica, ovvero aumentare la sua capacità di selezione intelligente offrendo un più ampio ventaglio di opzioni e possibilità rispetto al sistema chiuso della rappresentanza, che ne scarta un numero insopportabile. Un sistema aperto deve poter contare pertanto su un’articolazione di voci, interessi e iniziative dei cittadini che da una parte raccolgano, segnalino e trasmettano alle instituzioni e agli organi di decisione le informazioni e dall’altra occupino spazi di autorganizzazione. Il pluralismo associativo è quindi sia un segno di libertà che una condizione di necessità funzionale. A tale proposito, offrono interessanti esperienze in prospettiva le analisi e le pratiche sui temi dei beni comuni, le quali potrebbero permettere di affiancare le forme delegate, dirette e partecipate della democrazia con forme innovative di democrazia cooperativa, sul terreno intermedio fra pubblico e privato, in un arricchimento e qualificazione degli strumenti della libertà politica.

8- Questo urgente salto di qualità democratica va intrapreso anche sul fronte di una profonda riflessione e ri-formulazione del ruolo e della forma di quegli specifici corpi intermedi a vocazione universalistica che sono i partiti politici. Lo stato attuale dei partiti nel nostro paese li vede ridotti a macchine di selezione della classe dirigente, dominati dagli esperti del marketing dell’immagine e sempre più rinunciatari rispetto alla decisiva funzione di negoziazione degli interessi delle comunità locali e nazionali. In questo senso, ad essi non si richiede ingenuamente una cessione di potere, ma piuttosto la mutazione della propria forma: da comando e pretesa di delega in bianco a coordinamento, valorizzazione, promozione della potenza sociale espressa da competenze, progetti, iniziative, esperienze autonome, ecc. Per negoziazione noi intendiamo il compito di dare ragioni agli interessi, ovvero la capacità di renderli legittimi e dunque componibili con gli interessi altrui mediante una loro diretta assunzione di responsabilità. In caso di conflitto esso deve durare il tempo della sua componibilità: a questo del resto serve la regola di maggioranza, che esclude a priori il consensualismo mentre presume dissenso e conflitto, ma anche contrattazione e mediazione sempre aperta.

9- Il tema che qui è posto in ordine all’incipit di una Costituente Egualitaria si propone semplicemente come uno stimolo al dibattito e alle pratiche della moltitudine di soggetti che, a vario titolo, in diverse forme e in diversi luoghi, già hanno manifestato e manifestano insofferenza critica nei confronti di una convivenza sociale regolata da una democrazia sempre più affannata da spinte oligarchiche e sempre meno capace di reagire all’ineguaglianza crescente e alla sottrazione di sovranità ai propri cittadini. Dunque, politique d’abord!!!

*Stefano Bonaga, nato  a Bologna nel 1944, è titolare della cattedra di antropologia filosofica dell’Università di Bologna, ha ideato insieme a Maurizio Matteuzzi della rete civica Iperbole per il Comune di Bologna in cui è stato Assessore nella giunta Vitali. Tra i suoi ultimi libri: I dieci comandamenti del vivere civile, Alberti 2011.  Nadia Urbinati, nata a Rimini nel 1955, è titolare della cattedra di scienze politiche alla Columbia University di New York e tra i suoi ultimi libri: Democrazia rappresentativa. Sovranità e controllo dei poteri, Donzelli, 2010; Liberi e uguali. Contro l’ideologia individualista, Laterza, 2011. Il disegno in alto è di una scuola di Conegliano (Treviso) per un progetto di cittadinanza attiva.

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Dichiarazione di Via Campesina Internazionale al Forum Sociale Mondiale

Montreal, Quebec, 14 Agosto 2016

” Non solo crediamo che un altro mondo è necessario, i membri di Via Campesina stanno già costruendo un mondo migliore.”
Carlos Marentes, co-coordinatore della Regione Nord America di LVC

Dichiarazione di Via Campesina Internazionale al Forum Sociale Mondiale

Noi, i rappresentanti delle organizzazioni membre di Via Campesina dalla Regione America del Nord (Unione Paysanne dal Quebec, Unione Nazionale Agricoltori, Canada, National Family Farm Coalition, Coalizione rurale e del Progetto lavoratori agricoli di confine , Stati Uniti), insieme ai membri di LVC dell’Europa , Palestina e Brasile abbiamo partecipato al Forum sociale mondiale di Montreal, Quebec dal 09-14 Agosto 2016.

Siamo stati gentilmente ospitati dall’Unione Paysanne e abbiamo ribadito il nostro sostegno alla loro lotta per porre fine al controllo del consorzio monopolistico del settore agricolo in Quebec, aggiungendo la nostra voce allo slogan che “Non vi è alcuna sovranità alimentare senza sovranità contadina”.

Nella nostra conferenza stampa del 11 agosto Maxime Laplante ha dichiarato: “La situazione in Quebec è estremamente particolare, c’è in Quebec una sola organizzazione che ha il diritto di rappresentare i contadini qui, per negoziare con il governo o per intervenire nella gestione di piani di marketing , marketing, ecc. Questa organizzazione è l’Unione dei produttori Agricoles (UPA).

E’ l’unica organizzazione con il diritto legale di rappresentare i contadini “.

La coordinatrice di Via Campesina Nord America e vice-presidente della National Family Farm Coalition Dena Hoff ha dichiarato: ” L’intera La Via Campesina regionale appoggia l’Unione Paysanne nelle sue richieste per essere riconosciuta dal governo del Quebec come la voce dei contadini in lotta per la sovranità alimentare. ”

La delegazione LVC ha partecipato con entusiasmo alla marcia di apertura, a molti laboratori, panel e assemblee sui temi della sovranità alimentare, il diritto al cibo, sulle società post-estrattive, su agro-ecologia e riforma agraria popolare, e il futuro del FSM, tra i molti argomenti, insieme con gli alleati come ETC Group, Grain, Climate Space, the Indigenous Environmental Network (IEN), Global Justice Now, USC Canada, SUCO, Why Hunger, Grassroots Global Justice Alliance, Global Forest Coalition, Focus on the Global South, Development and Peace, Inter-Pares, Vigilance OGM Québec e altri.

Come ha dichiarato Dena Hoff: “La lotta per la sovranità alimentare sarà vinta con un milione di sforzi dal basso”.

In un momento di crisi sempre più profonda in tutto il mondo, compreso le enormi sofferenze dei migranti in fuga da guerre, l’aumento della povertà e della fame, gli eventi meteorologici estremi, gli accaparramenti di terra e di risorse condotti dalle aziende, l’espansione e il consolidamento di grandi aziende agricole e le monocolture per i mangimi e piantagioni di carburante in tutto il pianeta, noi dichiariamo il nostro fermo impegno come LVC alla lotta “vita o morte” per la sovranità alimentare, per la riforma agraria dei popoli, per le sementi e sovranità della biodiversità, la democratizzazione del sistema alimentare e la forte difesa dei diritti umani.

Mettiamo in discussione l’uso del concetto di “agro-ecologia” e parole d’ordine sul clima che siano al di fuori del contesto della sovranità alimentare e utilizzate come mezzo di giustificare un ampliamento del “green washing” o per la raccolta di fondi delle ONG.

Insistiamo sul fatto che agro-ecologia significa una convalida dell’agricoltura su scala piccola e media , la ricerca e l’innovazione guidato dai contadini, e significa l’integrazione delle pratiche tradizionali, e e il controllo contadino e delle comunità rurale sui nostri semi.

La sovranità alimentare è il diritto degli agricoltori e di chi mangia a controllare la propria produzione alimentare, la trasformazione e distribuzione di alimenti culturalmente appropriati ed ad equo compenso e la dignità per i fornitori di cibo. Noi affermiamo che l’agricoltura su piccola scala, la pesca, la pastorizia, la caccia e la raccolta sono essenziali nella lotta per portare sollievo ai cambiamenti climatici e continuare ad alimentare l’umanità.

Cerchiamo l’accesso alla terra per tutti, soprattutto per i giovani che vogliono alimentare le loro comunità. Vogliamo porre fine alla invasione delle sementi OGM nei nostri territori e chiediamo il diritto degli agricoltori di continuare a produrre, salvare e condividere le proprie sementi. Noi diciamo “No” all’agricoltura aziendale e “sì” al popolo della terra e al modo contadino.

LVC ha criticato anche pubblicamente il governo canadese dato che molti leader di importanti movimenti sociali non sono stati in grado di partecipare al FSM poichè molte centinaia di visti sono stati negati, compresi i visti di due dei dirigenti contadini nella nostra delegazione.

Abbiamo anche colto l’occasione fornita dalla WSF 2016 di esprimere la nostra solidarietà con tutti i movimenti attualmente in lotta contro la violenza, l’espropriazione, l’esclusione e gli attacchi contro i diritti democratici delle persone.

Abbiamo espresso specialmente la nostra solidarietà con la lotta del popolo palestinese contro l’oppressione e lo sfruttamento per mano del colonialismo dei coloni sionisti, la lotta delle nostre compagne e compagni del Movimento dei Senza Terra del Brasile contro il recente colpo di stato, la lotta coraggiosa First Nations contro le minacce per l’integrità della loro terra causata dallo sfruttamento tar-di sabbia??, gli oleodotti e altre azioni distruttive da parte del capitale, e la lotta contro la crescente violenza contro le persone di colore e quindi sosteniamo pienamente il Black Lives Matter Movement .

¡Globalizzare la lotta, globalizzare la SPERANZA!

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Ripartire dagli individui – dal Forum Sociale Mondiale (3)

dal blog di Mario Agostinelli

logo-il fatto quotidiano 2015Saprà il Forum Sociale Mondiale 2016 di Montreal dimostrare la attualità del Fsm? Se lo chiedeva Ronald Cameron il 17 giugno 2016 di fronte al primo World Social Forum (FSM in italiano) che si svolgeva nel nord del Mondo. A conclusione di una iniziativa certamente in discontinuità con quelle precedenti, che ho avuto l’occasione di frequentare tutte, avanzo qui alcune considerazioni.

 

1. Non credo che l’unico aspetto su cui valutare le differenze rispetto al percorso dei Fsm avviati 15 anni prima a Porto Alegre dipenda dalla latitudine e dalla discriminante dovuta al minore potere politico-economico e sociale detenuto dai paesi dell’emisfero Sud. E’ vero che i partecipanti erano in gran parte locali e che questa volta si è entrati nella “tana del lupo”, a fianco delle sedi delle più potenti multinazionali, dentro le aule delle Università che ospitano e spesso organizzano altrettanti “think tank” del potere globale, in una cultura in cui la tradizione cristiana non ha tratti provinciali o scaramantici, ma ecumenici e a radicamento sociale (ascoltatissimi i seminari sull’Enciclica Laudato Sì e quelli organizzati contro le multinazionali dalla rete mondiale dei comboniani di Zanotelli, oltre a quelli dei giovani scout). Ma è pur vero che la crisi ha confuso anche i sacerdoti del liberismo che si riuniscono a Davos, al punto che l’interpretazione del mondo e del futuro con cui misurarci non ha più ricette di riferimento.

A Montreal le proposte avanzate sono state tutte estremamente concrete, smorzando quel dato di utopia caratteristico delle riunioni passate: in Italia non se ne è fatto cenno continuando a dar d’intendere che l’unica questione riguardante il futuro sia ossessivamente quella della permanenza del governo. Ho potuto ascoltare il premio Nobel Stiglitz sostenere che il referendum istituzionale in Italia, con la limitazione ai poteri del Parlamento, sia un errore di prospettiva e un abbaglio su quali siano oggi le priorità.

2. Il principio su cui si è sempre fondato il Fsm è quello di uno spazio aperto. L’obiettivo condiviso è quello di creare il più ampio fronte possibile al fine di offrire un’alternativa alla globalizzazione neoliberista, attraverso la creazione di nuovi rapporti di solidarietà all’interno e tra i movimenti sociali, su basi indipendenti dai partiti politici. Con Porto Alegre, l’esperienza del PT brasiliano era diventata l’esempio di un approccio dal basso verso l’alto (bottom-up), come espressione politica dei movimenti, ma da questo anno è in atto una profonda crisi di questo partito e la perdita di riferimento esemplare per l’autonomia di una battaglia nel contempo radicale e di massa. Si è così rafforzata, anche di fatto, una opposizione di principio tra spazio politico e movimento, tendente a far diventare il Forum la massima espressione mondiale della società civile, anche se ancora incapace di conquistare uno spazio deliberativo.

3. Se tutto è in ridiscussione nell’organizzazione politica e sociale della partecipazione democratica, il Fsm non poteva esserne esente. Così, il Fsm a Montreal ha limitato il ruolo che le organizzazioni sociali hanno tenuto in passato nello svolgimento dell’evento. Questa volta per la collettività, la legittimità del Forum si è basata sul raggruppamento nel coinvolgimento degli individui e dei movimenti presenti, senza distinzioni di status, fino a mettere in discussione l’abolizione del Consiglio Internazionale, considerata fin qui l’autorità suprema, con una condizione privilegiata.

Considero questa tendenza a “spruzzare” gli attori del Fsm a Montreal in sintonia con quanto si verifica nelle società capitaliste, il cui livello di organizzazione di individui è sempre più alto. Mi sembra tuttavia un salto eccessivo rispetto alle pratiche che considerano l’organizzazione e i soggetti sociali un aspetto primario della politica. Ma, al di là di ogni giudizio, questa mi è sembrata la linea di tendenza, di cui tenere conto: come stabilire una unità politica più attiva, senza forzare organizzazioni e movimenti con modalità di delega.
4. A riprova di questi assunti, non si sono visti a Montreal né politici (tranne – non a caso – Bernie Sanders) né partiti-movimento come Podemos o Syriza o il M5S. Il declino dell’economia suggerisce anche una ricostruzione di una alternativa che non passi necessariamente dagli appuntamenti internazionali e dalle alleanze o scontri con i singoli governi. Paradossalmente, questo approccio mira a provocare una rinascita basata su nuove dinamiche globali incentrate sulla mobilitazione sociale. Certamente non si vuole abbandonare l’enorme patrimonio di quindici anni dei Forum, purché venga aggiornato alle esigenze e pratiche della nuova situazione politica, cominciando magari subito dalla rotazione delle cariche nel Consiglio Internazionale. Nel dibattito finale è apparsa la proposta di creare un procedimento parallelo, una sorta di tribunale dello stato della democrazia in diverse parti del pianeta.

Penso comunque che il Fsm abbia un futuro: diventare la spina dorsale di movimenti e reti che, a loro volta, mobilitano gli individui. La centralità delle organizzazioni mi è sembrata uscire appannata e andrebbe rivalutata con la dovuta attenzione. Promuovere movimenti concertati e il loro piano d’azione risulta la grande sfida di questo primo Forum nel Nord, nell’attuale contesto politico e storico. La fase di preparazione del prossimo appuntamento risulterà quindi perfino più importante dello svolgimento dello stesso per poter dar ragione del nuovo slogan coniato in Canada: Un altro mondo è necessario, insieme è possibile.

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