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Clima: fuori Trump è meglio

dal blog di Mario Agostinelli

logo-il fatto quotidiano 2015Sdrammatizziamo una delle operazioni più grette in animo a Trump: il ritiro dall’accordo sul clima di Parigi, con il conseguente abbandono del summit da parte del suo ministro, incaricato di presenziare al G7 Ambiente di Bologna. Giustamente, la posizione sul clima del presidente americano crea scandalo, ma le reazioni non si stanno facendo attendere. Si stanno creando legami finanziari e industriali tra potenze che hanno un sostegno reale da parte dei popoli e dei movimenti e che, contestando il ritiro della firma Usa a Parigi, ritengono ormai chiusa la parabola del sistema energetico già oggi in profonda crisi e trasformazione. Perfino nella fida Inghilterra conservatrice, si è costituita Conversation Uk, che riceve finanziamenti da fondazioni e imprese innovative, nonché l’adesione di sessantacinque membri dell’università. Secondo questo trust, la saggezza convenzionale per cui gli Stati Uniti dovrebbero rimanere nell’ambito dell’accordo di Parigi è un abbaglio. Un ritiro Usa sarebbe il miglior risultato per l’azione sul clima internazionale e si dovrebbero accettare realisticamente le conseguenze dell’isolamento a cui vanno incontro come un danno politico per loro assai più rilevante che per i Paesi che mantengono fede agli impegni.

Gli stessi aiutanti del presidente Usa sono divisi sulla questione. Il capo strategico Steve Bannon incita la fazione negazionista spingendo per un’uscita. Il Segretario di Stato e l’ex direttore esecutivo di Exxon Mobil, Rex Tillerson, sostengono invece che gli Stati Uniti dovrebbero mantenere una “sedia al tavolo”. È nel potere del presidente ritirarsi dall’accordo di Parigi e forse anche dalla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Unfcc), che ha guidato la diplomazia globale del clima per oltre 25 anni. Effettivamente, un ritiro statunitense minimizzerebbe i rischi e massimizzerebbe le opportunità per la comunità climatica. In poche parole: l’amministrazione Usa e Trump possono fare più danni all’interno dell’accordo che al di fuori di esso.

Ci sono quattro rischi legati alla partecipazione statunitense all’accordo di Parigi:

  1. gli Stati Uniti mancheranno il loro obiettivo di emissioni;
  2. mineranno gli aiuti finanziari ai Paesi poveri;
  3. provocheranno un effetto “domino” tra altre nazioni;
  4. ostacoleranno i negoziati delle Nazioni Unite.

I primi due rischi non sono conseguenza del ritiro in sé: l’accordo di Parigi non richiede che gli Stati Uniti soddisfino il loro attuale impegno per la riduzione delle emissioni, né per offrire ulteriori finanziamenti climatici ai paesi in via di sviluppo. L’accordo è procedurale, piuttosto che vincolante; richiede un nuovo e più forte impegno per il clima ogni cinque anni, ma non è obbligatorio centrare questi obiettivi.

Gli Stati Uniti guidati dall’attuale governo mancheranno probabilmente il loro obiettivo climatico indipendentemente dal ritiro della firma. Avrebbero bisogno anche di più del piano di energia pulita varato da Obama per ridurre le emissioni del 26-28% rispetto ai livelli del 2005 entro il 2025. Le emissioni statunitensi con il “fossilofilo” Trump sono destinate ad aumentare fino al 2025, piuttosto che diminuire. Lo stesso vale per i finanziamenti internazionali in materia di clima, che saranno tagliati nel piano di bilancio America First. Già avrebbero dovuto fornire 3 miliardi di dollari ma hanno finora stornato solo 1 miliardo. Il rimanente non verrà mai.

Il terzo rischio è l’effetto domino: le azioni statunitensi dentro l’accordo potrebbero ispirare altri governi a ritardare l’azione per il clima. In altre parole, rinunciare ai propri obiettivi o ritirarsi. Ma ci sono poche prove che suggeriscono che l’abbandono statunitense indurrà altre nazioni a seguirne l’esempio. Il parallelo storico più vicino è il Protocollo di Kyoto, che gli Stati Uniti hanno firmato ma non hanno mai ratificato. Quando il presidente George W. Bush annunciò che gli Stati Uniti non avrebbero ratificato il trattato, gli altri Paesi si sono riuniti a sostegno del protocollo e hanno spinto gli accordi di Marrakech nel 2001 per rafforzare le norme di Kyoto. Quello che più probabilmente provoca un effetto domino è il comportamento “domestico” degli Stati Uniti, piuttosto che qualsiasi possibile ritiro dall’accordo di Parigi.

Il rischio peggiore è che gli Stati Uniti agiscano come freno nei colloqui internazionali sul clima proprio mantenendo la loro adesione. Se gli Stati Uniti restano nell’accordo, conserveranno una funzione di veto nei negoziati o potrebbero sovraccaricare i negoziati chiedendo modifiche alle verifiche previste nel 2018, come ha già suggerito il segretario dell’energia Rick Perry. In questa luce, dare all’ex capo di Exxon Mobil una “sedia al tavolo” è un’idea mefitica.

Un ritiro statunitense, d’altra parte, potrebbe creare nuove opportunità, come la rinnovata leadership europea e cinese. Sulla scia delle elezioni statunitensi del 2016, l’ex candidato presidenziale francese Nicholas Sarkozy ha sollevato l’idea di applicare un’imposta sul carbonio del 1-3% sulle importazioni statunitensi. La Cina, l’Unione europea e l’India – che sono i più grandi emittenti di co2, insieme agli Stati Uniti, hanno annunciato che resteranno impegnati nell’accordo di Parigi in caso di uscita americana. Anche Gentiloni ha timidamente confermato. Ciò suggerisce che il consenso internazionale sulla lotta contro il cambiamento climatico attraverso l’accordo rimarrà intatto.

In questa fase, non è chiaro quale strategia seguirà l’amministrazione di Trump per uscire dall’accordo di Parigi. Tuttavia, riteniamo che sia improbabile che una rinegoziazione dell’accordo in linea con le intenzioni della Casa Bianca possa avere successo. In realtà, il ritiro ha già avuto un responso insieme critico e sprezzante: Macron ha corretto lo slogan Make greater America in Make greater our planet, segno di un diffuso sentire che giunge dai popoli in disaccordo con la vacuità degli obbiettivi sovranisti.

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Il presidente Macron e il gatto di Schrödinger

a cura di Mario Agostinelli

E poi dicono che la politica non si aggiorna! In effetti, dopo il disastroso G7 di Taormina in cui il ciuffo di Trump svolazzava sopra musi lunghi e sfiancati o dopo la pubblicazioni delle sue foto accanto a Bergoglio che gli aveva regalato la Laudato Sì mentre lui pensava a quanti miliardi di armi stava vendendo all’Arabia Saudita, viene da dire che il copione si ripete e che questa generazione di capi di stato – eccezioni a parte – non ha una visione adeguata ad un futuro drammatico che si sta palesando.

Eppure, se riguardate i servizi dalla Sicilia, c’è un uomo nuovo, celebratissimo da tutti i media, sempre sorridente e con lo sguardo rivolto in alto: Macron detto anche “né carne né pesce”. Ma poiché “né carne né pesce è roba vecchia, da mercato popolare, il neopresidente francese sta cercando di evocare addirittura le immagini della quantistica più sofisticata, quella con cui Schroedinger confutava le teorie di Heisenberg (se volete, per saperne di più con un taglio originale vedete “Il mondo al tempo dei quanti” che ho scritto con Debora Rizzuto per le edizioni Mimesis)

Già nella campagna per le elezioni presidenziali, la televisione francese è stata un’esplosione di dichiarazioni contraddittorie da parte dei politici che, nell’arco di due settimane, hanno cambiato idea tutte le volte che si cambiavano i calzini.

Emmanuel Macron, ad esempio, prima dichiarava: “Io sono un socialista”, e poi – in occasione della sua visita come ministro dell’economia da Philippe de Villiers un ‘nobile’ sovranista, di estrema destra e fondamentalista cristiano impenitente, assicura un equilibrio incredibile “io non sono un socialista”.

Quando il ‘socialista non socialista’, spinto dalla sua ambizione – dicono alcuni o da parte di alcuni uomini d’affari – dicono altri, ha deciso di lasciare il governo di Hollande e annunciato la sua candidatura all’Eliseo, la sua prima mossa è stata quella di creare un movimento con le sue stesse parole, “sarà né di destra né di sinistra”. Ma qui non siamo ancora a Schroedinger che descrive la realtà non con due negazioni, ma come complementare, con due opposti che coesistono.

Poco dopo infatti le cose sono state chiarite, quando Macron ha detto che il suo governo avrebbe al suo interno “e destra e sinistra”. Di qui il gatto di Schrödinger, uno dei pilastri della meccanica quantistica.

La meccanica quantistica è così complessa che Richard Feynman, uno dei suoi personaggi più famosi, diceva. “Se si crede di capire la meccanica quantistica significa che non si è capito niente.” La cosa divertente è che il comportamento dell’infinitamente piccolo attraverso la meccanica quantistica, sfida la comprensione. Contrariamente a quanto accade nel mondo che ci è familiare, una particella microscopica non si comporta come un pallone da calcio, che, come sappiamo ha massa, velocità, potenza e posizione in un dato istante. Un elettrone, per esempio, può avere due velocità contemporaneamente, o essere in due posti diversi contemporaneamente, e anche più di due.

Per facilitare la comprensione, Erwin Schrödinger immaginava una curiosa esperienza il cui laboratorio è l’immaginazione: racchiudere un gatto in una scatola sigillata. La scatola contiene un dispositivo che uccide il gatto appena rileva la disintegrazione di un corpo radioattivo che è un evento totalmente casuale. Dall’esterno è impossibile sapere cosa succede all’interno della scatola. Il gatto può essere vivo o morto, almeno per l’esperienza di conoscenza dall’esterno. Il gatto ha “n” % di probabilità di essere morto, e “m” % di probabilità di essere vivo. O, che è la stessa cosa, il gatto è vivo e morto allo stesso tempo. E ‘ciò che è noto come indeterminazione quantistica.

Per essere “e destra e sinistra”, Emmanuel Macron è come il gatto di Schrödinger. Nel piano della meccanica quantistica, un simile candidato possiede il dono dell’ubiquità. Hanno ragione, e allo stesso tempo si trovano in una posizione equidistante dalla sinistra e dalla destra, che è la definizione politica del centro.

Max Planck, Niels Bohr Einstein ed Erwin Schrödinger si rivoltano nella tomba, ignari delle implicazioni didattiche enormi e del potenziale esplicativo nascosto nella politica che dà mostra di sé agli inutili G7.

Chi ha fretta di aderire al macronismo, sappia di avere in simpatia Deng Xiaoping, precursore geniale della politica quantistica. Deng è stato il fondatore di “socialismo di mercato”, detta anche “socialismo con caratteristiche cinesi”, che non è altro che il capitalismo puro, ma scritto con ideogrammi, la scrittura del Medio Impero.

Il 12 ottobre 2015, cercando di dimostrare che nelle politiche di sviluppo economico non c’è differenza tra destra e sinistra, Macron ha citato Mao Zedong: “Non importa se il gatto è bianco o nero, ciò che conta è che acchiappi i topi “. Il che dimostra che la sua cultura politica è “cat pital”: dato che chi ha usato quelle stesse parole era Deng Xiaoping nel 1962, guadagnandosi qualche anno in ombra prima di arrivare al potere nel 1978.

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L’inutile SEN

a cura di Roberto Meregalli

Il 10 maggio in audizione alla Camera, il ministro Calenda, insieme al collega Galletti, ha presentato la nuova strategia energetica nazionale (SEN). Quarantasette slide per elencare obiettivi in materia di sicurezza, decarbonizzazione ed efficienza per l’anno 2025.

Competitività, ambiente e sicurezza sono i tre pilastri della nuova SEN, esattamente gli stessi di quella 2013 (ma nel 2013 ce n’era un quarto: favorire la crescita economica attraverso lo sviluppo del settore energetico). Competitività significa prezzi dell’energia in linea con quelli dei “concorrenti” europei, ambiente allineamento con i target europei, sicurezza significa diversificazione dei fornitori di gas perché più sono e meno siamo dipendenti da uno di essi.

La prima sensazione vedendo questa presentazione è quella di trovarsi di fronte ad un documento che recepisce i cambiamenti in atto nel settore energetico unitamente agli obiettivi europei in tema di ambiente e nulla più. Il che francamente risulta molto deludente e riconferma i dubbi di coloro che si chiedono quale utilità pratica abbia questa nuova SEN. La precedente non ne ha avuta alcuna e chi ha memoria ricorda che anche i vecchi PEN (piani energetici nazionali) non ebbero mai un ruolo efficace, anche perché lo Stato aveva potere solo su Eni ed Enel, oggi ne ha ancora meno e dalla partecipazione a queste due imprese chiede solo i massimo ritorno economico possibile.

Ma torniamo a quanto presentato da Calenda; sul fronte dell’efficienza si sottolinea come le misure relative al settore residenziale siano troppo costose, parliamo delle detrazioni fiscali, per cui se ne prevede una revisione che probabilmente mirerà a concentrare le risorse verso interventi strutturali sugli edifici, di positivo però l’annuncio di un fondo di garanzia per eco-presiti prendendo come modello quanto realizzato in altri paesi europei.

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Quale strategia energetica nazionale

a cura di Roberto Meregalli

Il governo è al lavoro sulla nuova strategia energetica nazionale (SEN); il ministro Calenda ha spiegato nell’audizione parlamentare di inizio marzo che la “vecchia” SEN va aggiornata “a seguito delle profonde trasformazioni economiche ed in particolare del mercato energetico occorse negli ultimi quattro anni”.

Secondo Calenda la SEN 2017 sarà uno strumento per tre obiettivi:

  • Individuare le principali scelte strategiche in campo energetico, in connessione anche ai nuovi obiettivi europei del Clean Energy Package e traguardando obiettivi di sicurezza e economicità.
  • Definire le priorità di azione ed indirizzare le scelte di allocazione delle risorse nazionali.
  • Gestire il ruolo chiave del settore energetico come abilitatore della crescita sostenibile del Paese.

La prima bozza era stata annunciata per il G7 sull’energia, svoltosi il 9 e 10 aprile a Roma, ma così non è stato, si attende quindi il 27 aprile quando in audizione parlamentare il governo dovrebbe presentare le prime slides, cui dovrebbe seguire una consultazione pubblica. Parallelamente però il governo sembra intenzionato a varare un decreto legge in cui rendere operative alcune indicazioni, in particolare in tema di sconti agli energivori, le industrie che consumano più energia.

Un primo e non secondario problema è infatti capire come rendere significativa questa nuova strategia, visto il fallimento della precedente. Va ricordato che la “vecchia” nacque per giustificare il ritorno al nucleare e fu l’allora ministro Scajola a inserirla in un decreto legge (il 112/2008). Ma l’incidente di Fukushima e il referendum fecero saltare tutto e la legge 133 che aveva recepito il decreto venne “smontata” con l’abrogazione dell’articolo 7 e dell’art. 5 comma 8, cosicché la SEN si trovò orfana di qualsiasi riferimento legislativo e relegata ad “atto di indirizzo”. Atto di indirizzo a cui non è seguita alcuna pianificazione; come qualcuno ha argutamente detto: “alle slides non è seguito nulla”.

La SEN 2013

Comunque sia andata a finire, la SEN 2013 aveva come primo pilastro la competitività, come secondo l’ambiente, come terzo la sicurezza e come conseguenza dei tre sarebbe dovuta derivare crescita economica.

A ben guardare dal 2013 ad oggi nessuno dei tre obiettivi ha fatto passi avanti perché anche se oggi si continua a ripetere che il nostro Paese ha già raggiunto gli obiettivi europei stabiliti per il 2020 (il famoso pacchetto 20-20-20), si tratta di un risultato pregresso, negli ultimi tre anni di passi avanti ne sono stati fatti pochi, anzi nel settore elettrico siamo in ritirata. Basti confrontare la quota di elettricità generata dalle rinnovabili nei primi due mesi di quest’anno con i tre anni precedenti, dal 32,9% siamo scesi al 27,4%:

La vecchia SEN del resto metteva molta più enfasi sul progetto di fare l’Italia un hub del gas che sullo sviluppo delle rinnovabili che era sempre citato solo unitamente al termine “sostenibile” inteso in senso economico.

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Riflessioni spazio-tempo per l’energia

da Qualenergia Aprile 2017

Occorre utilizzare un nuovo approccio scientfico per traghettare l’umanità verso la sostenibilità

Velocità massima della luce, tempi relativi, materia granulare, energie discrete, in uenza dell’osservatore sulla realtà : concetti quotidianamente presenti nelle tecnologie di cui ci serviamo, a partire dai pannelli solari sopra i nostri tetti. Nozioni che operano nelle transazioni nanziarie ad alta frequenza cui si a dano le imprese che ci allacciano al gas e all’elettricità e che stanno alla base delle telecomunicazioni, dei Gps sui nostri cruscotti e delle App dei nostri smartphone.

Concetti benfissati, anche se forse più indirettamente rintracciabili, nella moderna organizzazione del lavoro, della produzione e del consumo che quotidianamente osserviamo in la al lettore di cassa laser del supermercato. Immagini della realtà e ettiva con cui conviviamo e di cui siamo fatti, che non fanno tuttavia parte della nostra “cassetta degli attrezzi” per protenderci verso il futuro, per capire un mondo sempre meno prevedibile: magari per attrezzarci meglio alla transizione energetica in corso.

Intanto, una politica miope che si ritira da responsabilità globali ci sta abituando a vivere solo in un eterno presente che è quello che ci illustra come se abitassimo ancora nell’era newtoniana delle risorse illimitate e della trasformazione industriale di natura in merce. Ma no a quando? Il testo “Il mondo al tempo dei quanti” di Mario Agostinelli e Debora Rizzuto (ed. Mimesis, Milano, gennaio 2017) offre un audace e innovativo punto di vista su molti aspetti che riguardano la vita degli uomini e delle donne, il loro organizzarsi in società, la struttura iniqua delle relazioni economiche e la crisi di democrazia che caratterizza il nostro tempo. Diversi sono i destinatari cui suggerire una ri essione sul testo qui proposto.

La tesi fondamentale del libro, che individua nella rivoluzione scienti ca del XX secolo il punto di svolta per l’interpretazione della realtà intera da cui siamo circondati – “dall’in nitamente piccolo all’in nitamente esteso” – non si limita alla materialità del mondo fisico, come potrebbe far intravedere la permanente separazione
delle culture umanistica e scientifica. Com’era avvenuto con il compimento del “momento newtoniano”, nei suoi risvolti istituzionali (l’indebolimento dell’assolutismo), produttivi (la nascita dell’industria), antropologici (la natura diventa quantitativamente e illimitatamente trasformabile in merce e ricchezza), il “momento relativistico-quantistico”, che stiamo percorrendo pur rimanendone concettualmente lontani, andrebbe portato all’attenzione di chiunque abbia il compito di orientare la società in questi tempi di sconvolgimenti tanto repentini da lasciarci privi di chiavi di lettura e, pertanto, senza visioni di lungo periodo.

Il ricorso all’impiego delle più recenti intuizioni e scoperte scienti che è il compito che si danno gli autori usando metafore di forte suggestione per la trasposizione al mondo sensibile, pur mantenendo la sostanza scientfica dell’approccio che ha sconvolto fisica, chimica, biologia e neuroscienze a partire da Plank, Einstein e Bohr. Questa fase storica è segnata da cambio di dimensioni, inomogeneità, discontinuità, incertezza e probabilità al posto del determinismo e della causalità.

L’Universo è un mondo curioso ma non lo riteniamo reale, perché continuiamo a vivere nel “momento newtoniano”, come se Feynman e Heisenberg fossero esistiti solo per chi progetta smartphone, Internet, Gps e laser e non per chi ne fa uso quotidiano.

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