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2 agosto: Overshoot Day 2017

Nel 2017, il “Giorno del Sovrasfruttamento della Terra” cade il 2 agosto, mai così in anticipo da quando nei primi anni del 1970 abbiamo cominciato a sovrasfruttare le risorse.
Per innescare il cambiamento, il Global Footprint Network propone soluzioni per riportare la data verso la fine dell’anno (#movethedate) fornendo metodi di misura, impegni concreti e un nuovo calcolatore dell’Impronta Ecologica

Secondo il Global Footprint Network, l’organizzazione di ricerca internazionale che ha dato avvio al metodo di misura dell’Impronta Ecologica (in inglese Ecological Foorprint) per il calcolo del consumo di risorse, il 2 agosto di quest’anno è il giorno in cui l’umanità avrà usato l’intero budget annuale di risorse naturali. Il 60% di questo budget è rappresentato dalla richiesta di natura per l’assorbimento delle emissioni di anidride carbonica.

Il Giorno del Sovrasfruttamento delle risorse della Terra (in inglese Earth Overshoot Day) rappresenta la data in cui la richiesta di risorse naturali dell’umanità supera la quantità di risorse che la Terra è in grado di generare nello stesso anno. La data dell’Earth Overshoot Day è caduta sempre prima nel calendario: dalla fine di settembre del 1997 al 2 agosto di quest’anno, mai così presto da quando il mondo è andato per la prima volta in sovrasfruttamento nei primi anni ’70. In altre parole, l’umanità sta usando la natura ad un ritmo 1,7 volte superiore rispetto alla capacità di rigenerazione degli ecosistemi. È come se ci servissero 1,7 pianeti Terra per soddisfare il nostro fabbisogno attuale di risorse naturali.
I costi di questo crescente sbilanciamento ecologico stanno diventando sempre più evidenti nel mondo e li vediamo sotto forma di deforestazione, siccità, scarsità di acqua dolce, erosione del suolo, perdita di biodiversità e accumulo di anidride carbonica nell’atmosfera.

#movethedate: sposta la data verso la sostenibilità
Possiamo però invertire questa tendenza. Se posticipassimo l’Overshoot Day di 4,5 giorni ogni anno, potremmo ritornare ad utilizzare le risorse di un solo pianeta entro il 2050.
“Il nostro pianeta è finito, ma le possibilità umane non lo sono. Vivere all’interno delle capacità di un solo pianeta è tecnologicamente possibile, finanziariamente vantaggioso ed è la nostra unica possibilità per un futuro prospero”, ha dichiarato Mathis Wackernagel, CEO del Global Footprint Network e co-creatore dell’Impronta Ecologica. “In definitiva, posticipare nel calendario la data del Giorno del Sovrasfruttamento della Terra è quello che davvero conta”.

Per dare rilevanza al Giorno di Sovrasfruttamento di quest’anno, il Global Footprint Network mette in evidenza alcune possibili azioni da mettere in pratica sin da oggi e stima il loro impatto sulla data del Giorno del Sovrasfruttamento della Terra nei prossimi anni. Ad esempio, la riduzione degli sprechi alimentari del 50% in tutto il mondo potrebbe posticipare tale data di 11 giorni; invece, ridurre del 50% la componente dell’Impronta Ecologica globale dovuta all’assorbimento di anidride carbonica, sposterebbe la data dell’Overshoot Day verso la fine dell’anno di 89 giorni.

Azioni individuali
Per supportare questa trasformazione, il Global Footprint Network, insieme a quasi 30 partner in tutto il mondo, sta incoraggiando le singole persone a contribuire al progetto #movethedate proponendo semplici azioni concrete. Questo processo prevede una maggiore conoscenza dei fattori chiave in grado di influire sulla sostenibilità e la sperimentazione di nuovi stili di vita per abbassare la propria Impronta Ecologica. Il Global Footprint Network propone queste sfide sia su un piano educativo che giocoso, in modo che i partecipanti possano imparare divertendosi, partecipando ad esempio ad un concorso fotografico.

Quest’anno, all’avvicinarsi del Giorno del Sovrasfruttamento della Terra, il Global Footprint Network lancerà anche un nuovo strumento di calcolo dell’Impronta Ecologica, l’Ecological Footprint calculator, per permettere ad ogni singolo utente di calcolare il proprio Giorno del Sovrasfruttamento personale. Ad oggi, l’attuale calcolatore (www.footprintcalculator.org) viene utilizzato da più di 2 milioni di persone all’anno.

Una trasformazione sistemica
Un cambiamento sistemico è fondamentale per posticipare la data del Giorno del Sovrasfruttamento. Per questo il Global Footprint Network, che all’inizio di quest’anno ha lanciato la sua piattaforma dati aperta a tutti, contribuisce a diffondere nel mondo le soluzioni identificate da due organizzazioni: Project Drawdown e McKinsey & Company. Sulla base del lavoro di queste due organizzazioni, il team di ricerca del Global Footprint Network ha calcolato di quanti giorni verrebbe posticipato il Giorno del Sovrasfruttamento della Terra se tali soluzioni venissero implementate.

“La sola componente di anidride carbonica dell’impronta è più che raddoppiata dagli inizi degli anni ’70 e rimane la componente che cresce più rapidamente, contribuendo così al divario tra l’Impronta Ecologica e la biocapacità del pianeta”, ha dichiarato Wackernagel. “Per raggiungere gli obiettivi dell’Accordo di Parigi sul clima, l’umanità dovrebbe uscire dall’economia dei combustibili fossili prima del 2050, contribuendo già di gran lunga a risolvere il problema dell’umanità relativo al sovrasfruttamento delle risorse”.

Segnali incoraggianti
Gli ultimi dati del Global Footprint Network offrono segnali incoraggianti: stiamo iniziando a muoverci nella giusta direzione. Ad esempio, tra il 2005 e il 2013 (l’ultimo anno per cui esistono dati affidabili) l’Impronta Ecologica pro capite negli USA è scesa quasi del 20% rispetto al suo picco. Questo significativo cambiamento, che include il risollevamento post-recessione, è associato principalmente alla diminuzione delle emissioni di anidride carbonica. Nello stesso periodo, il PIL pro capite USA è cresciuto del 20%. Questi risultati fanno quindi degli Stati Uniti un significativo caso di disaccoppiamento tra la crescita economica e il consumo di risorse naturali, che seguono infatti andamenti opposti.

Nonostante l’inversione di rotta del governo nazionale degli Stati Uniti sulla protezione del clima, molte città, singoli Stati e grandi imprese americane stanno raddoppiando i loro impegni. Inoltre, la Cina, il paese con la più grande Impronta Ecologica totale, nel suo ultimo piano quinquennale si è fortemente impegnata a costruire una Cultura Ecologica, con molte iniziative per superare al più presto il suo picco di emissioni di anidride carbonica. Scozia, Costa Rica e Nicaragua sono altri esempi di paesi che stanno rapidamente decarbonizzando il loro sistema energetico.

Risorse aggiuntive
Maggiori informazioni sul Giorno del Sovrasfruttamento della Terra: www.overshootday.org
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Osservazioni sulla SEN

dei Comitati scientifici di “Sì alle rinnovabili, No al Nucleare”, “Movimento Ecologista”, “Energia Felice” e Centro Interuniversitario di Ricerca Per lo Sviluppo sostenibile (CIRPS).
Coordinatore: Massimo Scalia

Premessa

Le seguenti osservazioni sono state stilate nella convinzione che il significato più profondo dell’“Accordo di Parigi” sia quello di avere segnato l’inizio della fine dell’era dei combustibili fossili. E’ di conforto che una convinzione così netta sia sostanzialmente condivisa con significativi attori di questa vicenda, quali Kumi Naidoo, direttore esecutivo di Greenpeace International, e Nicholas Stern, consigliere economico del governo inglese per i cambiamenti climatici e lo Sviluppo. Questa consapevolezza non è un tratto caratteristico della SEN, ma si può sperare che se il Presidente Macron si impegna in un sostanziale dimezzamento del parco di centrali nucleari francesi, a lungo elemento della “grandeur”, il Governo italiano possa muoversi con maggior coraggio nell’indicare e programmare la transizione energetica: dal vecchio modello di fonti energetiche fortemente accentrate e basate sui combustibili fossili a quel modello di fonti rinnovabili e diffuse sul territorio, più direttamente accessibili ai cittadini, già configurato dall’ormai imminente realizzazione dei tre 20% e sempre più affermato dai nuovi obiettivi che l’Unione Europea intende darsi entro il 2030.

  1. Gestione della SEN

Il riferimento di base della strategia energetica italiana non può essere altro che l’ “Accordo di Parigi”, come è stato più volte ribadito anche dal Presidente del Consiglio in importanti incontri internazionali di Capi di Stato e di Governo in contrapposizione alle ipotesi di ritiro avanzate dal Presidente degli Stati Uniti. E’ opportuno ricordare anche i devastanti effetti sul terreno economico a livello mondiale che conseguirebbero dal lasciar andare le cose come vanno (Business As Usual), e le drammatiche implicazioni sociali e sulla vita quotidiana, illustrati dal famoso rapporto Stern1.

Pertanto l’impegno sulla SEN appare e deve essere un impegno di tutto il Governo, che peraltro è interessato in quasi tutti i suoi componenti dalle politiche necessariamente “trasversali” per la formulazione della SEN, e non dei soli Ministri dello Sviluppo Economico e dell’Ambiente.

Appare quindi necessario il conferimento alla Presidenza del Consiglio, a un eventuale apposito organismo di altissimo profilo da essa individuato, di tutta la materia SEN e del coordinamento tra i vari ministeri interessati a partire dai documenti proposti dai due sopra citati Ministeri.

  1. Efficienza energetica e occupazione

E’ l’aspetto fondamentale che richiede un’impegnativa e puntuale azione di Governo, ai diversi livelli, per la difficoltà, la capillarità e il livello tecnologico richiesto alle azioni di realizzazione. Qui di seguito l’ “efficienza energetica” intende includere anche quella popolarmente, e impropriamente, detta “di 2° Principio”, cioè la misura della qualità dell’energia erogata rispetto alla qualità dell’energia richiesta. E’ noto come gli usi “impropri” d’energia, famosa la “strage termodinamica”, possono configurare un aggravio di decine di Mtep nel bilancio nazionale che si spingono ad alcune migliaia di Mtep su scala mondo.

Già nello statement che le Accademie delle Scienze dei Paesi del G8, più quelle di Cina, India, Brasile e Sud Africa, rivolgevano direttamente al G8 di S.Pietroburgo (2006) venivano sottolineati, oltre agli aspetti globali della sostenibilità energetica, sia il ruolo guida dell’accrescere l’efficienza negli impieghi di energia che l’ampiezza degli investimenti pubblici necessari: “Providing for global energy sustainability and security will require many vigorous actions at national levels, and considerable international cooperation. These actions and cooperative steps will need to be based on wide-spread public support, especially in exploring avenues for increased efficiency of energy use.” 2.

Vale la pena ricordare che fu proprio a questo statement, e a quello del precedente anno rivolto al G8 di Gleneagles e che richiedeva a tutte le nazioni una “prompt action3, che rispondeva pochi mesi dopo, nel marzo 2007, il Consiglio d’Europa con il lancio dei tre 20% al 2020, cui si pervenne tramite l’alta mediazione esercitata da Angela Merkel nei confronti dei recalcitranti Paesi dell’Est europeo da poco entrati nella UE (tacciamo, per amor di patria, dell’atteggiamento del Governo italiano di allora).

Lo studio degli Economisti dell’Energia nel progetto europeo SAVE (dicembre 2004), quello dell’ENEA (febbraio 2009) oggetto anche di una proposta d’intesa col Regno Unito, e quello di Confindustria del settembre 2010 concordano nel fornire cifre che quantificano l’importanza del risparmio energetico al di là dei limiti di una politica meramente energetica. Ci riferiamo proprio all’ultimo studio: “Piano di efficienza energetica 2010 – 2020”, e perché nel corso del 2011 divenne “avviso comune” di Confindustria, CGIL, CISL e UIL e perché le prime quantificazioni che forniva mostravano con particolare evidenza l’importanza dei risultati che era possibile conseguire: a fronte d’un investimento pubblico di 16,7 miliardi di euro sull’arco di dieci anni si sarebbero prodotte nello stesso tempo un milione e seicentomila unità lavorative annue – 407 mila nei settori dell’edilizia – oltre al conseguimento dei tre 20% della UE, segnatamente oltre 51 Mtep di riduzione dei consumi energetici al 2020 con una riduzione di 207,6 Mton di CO2.

L’ impatto socio-economico del Piano veniva valutato pari a quello di circa 130 miliardi di euro di investimenti; il costo evitato per la sola riduzione della CO2 avrebbe dato un risparmio economico di 5,2 miliardi di euro. Il Piano non venne però presentato al Governo Letta, durante gli incontri con le parti sociali proprio quando si trattava di passare alla fase dello sviluppo dopo quella dei “sacrifici”.

Anche in assenza di adeguati investimenti pubblici e di una politica mirata del Governo nel 2016 il totale degli investimenti in efficienza energetica realizzati in Italia è stato pari a circa 6,1 miliardi di euro e il mercato sta mostrando segnali positivi con una crescita costante degli investimenti negli ultimi 5 anni. L’Italia sembra finalmente pronta a compiere quel cambio di passo decisivo per far assumere al comparto dell’efficienza energetica un ruolo centrale nello sviluppo strategico del settore energetico e occupazionale del Paese.

Questa del binomio “efficienza energetica/occupazione” deve essere l’indicazione prioritaria della SEN, in termini di impiego di risorse, supporti amministrativi, aspetti tecnico-scientifici e quadro legislativo.

Sul piano tecnico-scientifico spetta al Governo realizzare le appropriate forme di coinvolgimento delle competenze presenti nelle Università, negli Enti e negli Istituti di ricerca italiani.

Restano aperti i problemi connessi al reale stato finanziario delle moltissime ESCO certificate e di quanta parte del mercato esse effettivamente intercettino; ai modelli di business che le utility stanno realizzando nell’ambito dell’efficienza energetica. Più in generale, quanto sia diffusa la “cultura” dell’efficienza energetica sia nel sistema industriale che nella PA del Paese; quanto, ad esempio, sia diffuso nell’edilizia il modello “Nearly Zero Energy Buildings” (NZEB).

Per avere una rappresentazione dello stato dell’arte su questi problemi il Governo potrebbe stipulare un accordo con le parti sociali (Sindacati e Confindustria nelle loro articolazioni categoriali, Associazioni ambientalistiche nazionali) per la realizzazione entro tempi certi (12 mesi) di un’indagine capillare, alla portata della diffusione territoriale dei soggetti coinvolti, utile di per se stessa anche ad accrescere informazione e consapevolezza dei cittadini sull’importanza e le possibilità connesse all’efficientamento energetico.

Al contempo il Governo dovrebbe pubblicizzare i risultati, vagliati dagli Enti certificatori, dei Titoli di Efficienza Energetica (TEE) sul piano economico, sociale e ambientale al fine della programmazione SEN. Queste due leve, l’indagine capillare e un documento programmatico sui TEE, sembrano un aspetto necessario, propedeutico alla realizzazione della SEN.

Il coinvolgimento di tutto il mondo del lavoro, alla stregua di quanto adombrato e purtroppo non realizzato dal “Piano d’efficienza energetica 2010 – 2020”, è la carta fondamentale per il successo di una strategia di accrescimento dell’efficienza energetica e di incremento dell’occupazione.

  1. STRATEGIE “LOW CARBON”

3.1 Le indicazioni dell’Agenzia Europea dell’Ambiente (EEA) sugli investimenti

“I Paesi europei devono accelerare rapidamente gli sforzi e definire i loro bisogni di investimento e i piani per adattarsi ai loro obiettivi nel passaggio verso un’economia low carbon sostenibile e resiliente al clima», recita il briefing  “Financing Europe’s low carbon, climate resilient future” pubblicato di recente dall’ EEA, che sottolinea anche: “La necessità di una chiara informazione sulle esigenze e le priorità degli investimenti per attirare finanziamenti privati”.

L’EEA sollecita un sostanziale ri-orientamento dei flussi finanziari verso investimenti più sostenibili come condizione per una transizione verso un futuro low carbon, e, nello studio “Assessing the state-of-play of climate finance tracking in Europe” pubblicato il 6 luglio scorso 4, rileva che solo pochi paesi europei  – Belgio, Estonia, Francia, Germania  e Repubblica ceca – hanno trasformato gli obiettivi climatici e energetici in concreti impegni d’investimento e “sembrano aver un approccio nazionale o una strategia in atto per tenere traccia delle spese relative alla mitigazione e all’adattamento climatico”.

Lo studio riporta: “Una mancanza di preparazione e informazione a livello nazionale per quanto riguarda i bisogni totali di investimento stimati, nonché i loro volumi di spesa pianificati e attuali per scopi climatici e energetici. Di conseguenza, le stime dell’Unione europea relative ai fabbisogni totali di investimento finanziario per il clima non sono abbinati a valutazioni complementari nazionali”. E nel briefing l’EEA chiede di “sviluppare piani nazionali per aumentare i capitali per poter rispettare i loro obiettivi relativi al clima e all’energia, per rafforzare la fiducia degli investitori, aumentare l’attrattività degli investimenti e migliorare la certezza politica”.

L’Unione europea ha stimato la necessità di investimenti in circa altri 177 miliardi di euro all’anno dal 2021-2030, e l’EEA sottolinea: “Per colmare questo divario saranno necessari finanziamenti sostanziali:  un raddoppio degli attuali investimenti nell’energia rinnovabile e nell’efficienza energetica. Questo richiederà la mobilitazione di fondi pubblici e privati …”.

La SEN sopperisca ai rilievi dello studio EEA seguendone le indicazioni e le richieste per quanto riguarda le stime di investimento e i “volumi di spesa pianificati e attuali per scopi climatici e energetici”; prevedendo pertanto per il 2021 – 2030 il raddoppio degli attuali investimenti.

3.2 Alt ai finanziamenti dei combustibili fossili e abbandono del carbone entro il 2020

Secondo i dati diffusi dal rapportoTalk is Cheap: How G20 Governments are Financing Climate Disaster5, presentato il 5 luglio scorso da Oil Change International, Friends of the Earth US, Sierra Club e Wwf European Policy Office e al quale ha collaborato anche Legambiente per la parte italiana: “Nonostante gli Accordi sul clima di Parigi e gli impegni presi per contrastare i cambiamenti climatici, i Paesi del G20 continuano ad incentivare l’uso dei combustibili fossili fornendo quasi quattro volte più fondi pubblici a questo settore che alle energie rinnovabili”. “Tra il 2013 e il 2015 i finanziamenti pubblici che gli Stati del G20 hanno destinato alle fonti fossili si attestano a 122,9 miliardi di dollari l’anno”.

Per quel che riguarda l’Italia: “In tre anni (2013-2015) la Penisola attraverso SACE e CDP ha destinato con 21 progetti ben 2,1 miliardi di dollari medi annui ai combustibili fossili contro i 123 milioni di dollari l’anno destinati alle energie pulite”, piazzandosi all’ottavo posto nella classifica per finanziamenti pubblici a sostengo dei combustibili fossili e risultando così tra i paesi peggiori, insieme alla Germania, per la mancata corrispondenza tra lotta ai cambiamenti climatici e finanziamenti pubblici. “In particolare l’Italia, sebbene nell’ambito della sua presidenza del G7 abbia promosso un’agenda per allineare la finanza bancaria multilaterale di sviluppo con gli obiettivi degli accordi di Parigi, ha dimostrato fino adesso scelte e fatti ben diversi”.

Inoltre, sul piano globale: “Recenti analisi mostrano come anche soltanto continuando ad utilizzare le attuali risorse di petrolio e gas, negli impianti già in esercizio, e considerando l’estrazione del carbone completamente esaurita, il Pianeta si riscalderà ben oltre gli 1,5° C consigliati. Le potenziali emissioni di CO2 provenienti da tutti i combustibili fossili negli impianti e nelle miniere già operanti al mondo ci porterebbero infatti ben oltre i 2° C”.

Il perdurare dell’Italia in investimenti pubblici a favore dei combustibili fossili è incompatibile con il rilevante impegno economico segnalato dall’EEA per il periodo 2021 – 2030, stimabile in più di 2 miliardi di dollari all’anno (pari all’esborso annuale nel triennio 2013 – 2015 per i combustibili fossili, vedi sopra).

In questo quadro, anche la scelta del gas da fonti fossili non può essere vista come una scelta strategica sulla quale investire grandi risorse, come invece ipotizza l’attuale SEN. L’idea della vecchia SEN, di una “Italia come hub del gas”, sembra invece ricomparire sotto le vesti di un “Piano Gas” con grandi investimenti in infrastrutture che ingesserebbero le scelte per il futuro, e con meccanismi ipotizzati a favore degli imprenditori ma a carico delle bollette dei cittadini.

Pertanto la SEN deve porre un termine certo, il 2020, agli investimenti pubblici, diretti o indiretti, sui combustibili fossili che sono inoltre in totale contrasto, per i motivi appena riportati, con l’attuazione dell’ “Accordo di Parigi” e gli impegni presi.

La SEN prevede l’abbandono del carbone entro il 2030. Alla relativa marginalità di questa fonte fossile nel sistema energetico nazionale corrisponde invece un rilevante impatto sanitario e una significativa “mortalità aggiuntiva”. Ciò pone in primo piano la tutela della salute che la Costituzione vuole assicurata per tutti i cittadini, indipendentemente dal loro luogo di residenza; una tutela che viene meno, ad esempio, nel raggio di massima ricaduta degli inquinanti emessi da una centrale termoelettrica a carbone ma anche in ampie zone del Paese, soprattutto nell’area padana, per l’estensione della diffusione degli inquinanti caratteristica dell’elevata altezza dei camini. Come è stato evidenziato da vari studi internazionali, sia i danni sanitari che la mortalità aggiuntiva comportano anche un costo economico, che relativamente a quest’ultima, può essere stimato sulla scorta del rapporto EEA 2011: “Revealing the costs of air pollution from industrial facilities in Europe” (EEA Technical Report, n.15/2011).

Rispetto della salute, costituzionalmente tutelata, contro le “morti aggiuntive”, sgravio da indebiti costi economici e sociali e coerenza con gli impegni derivanti dall’ “Accordo di Parigi” richiedono un abbandono il più possibile immediato del carbone, che, anche tenendo conto dell’inerzia tipica di ogni componente massiva di un sistema energetico, può essere anticipato nella SEN al 2020.

3.3 Ciclo di vita e obsolescenza programmata

E’ in discussione al parlamento europeo la relazione sulla durata dei prodotti, “Sortir de la société du déchet permanent tout en créant de nombreux emplois en Europe6, che chiede misure concrete per affrontare lo spreco di denaro, energia e risorse dovuto alla deperibilità e obsolescenza dei prodotti immessi sul mercato e che i prodotti siano più resistenti, anche grazie a degli standard prefissati in collaborazione con le organizzazioni europee di normalizzazione. Infatti, secondo uno studio del Servizio di ricerca del Parlamento europeo uno smartphone ha una vita di due anni, i piccoli elettrodomestici, i giocattoli e i vestiti hanno vita altrettanto breve e i computer portatili, le biciclette e gli indumenti sportivi vengono solitamente sostituiti in capo a quattro anni; mentre un sondaggio dell’ Eurobarometro rivela che il 77% dei consumatori preferirebbe poter riparare un oggetto rotto, invece di doverlo sostituire.

L’europarlamento vuole affrontare anche un aspetto più insidioso: “l’obsolescenza programmata”, “cioè la costruzione ad hoc dei difetti in un dispositivo in modo che questo si rompa entro un certo periodo di tempo”. Poiché il ricorso a un tale sistema può essere difficile da dimostrare, i deputati europei hanno chiesto alla Commissione di istituire un sistema indipendente per monitorare eventuali illeciti. Inoltre, in sintonia con l’orientamento della stragrande maggioranza dei cittadini europei, più del 90% secondo Eurobarometro, che ritengono che i prodotti debbano essere chiaramente contrassegnati per indicare la loro longevità, il Parlamento europeo propone l’introduzione di un sistema di etichettatura che soddisfi tale richiesta.

E’ importante questa ripresa d’interesse europeo per iniziative che si inseriscono nel modello di Economia circolare, guardando alla prima fase del ciclo di vita dei prodotti, cinque anni dopo la pubblicazione da parte della Commissione del “Manifesto for a Resource Efficient Europe8, nel quale si segnalava la necessità (“.. no choice but..8) di una transizione all’Economia circolare illustrandone le potenzialità non solo in termini di nuova occupazione e di competitività ma anche come opportunità per l’innovazione, gli investimenti e nuovi modelli di lavoro.

Fino ad oggi però l’attenzione di Bruxelles era rimasta polarizzata sulla gestione dei rifiuti, la seconda parte del ciclo di vita dei materiali, e non sulla prima parte, cioè la progettazione ecologica dei prodotti, come queste attività del Parlamento europeo richiamano.

Promuovere la produzione di beni progettati per essere durevoli, sostenibili e riciclabili comporta una riduzione rilevante dei rifiuti attraverso la maggior durata dei beni, la loro riparazione, il riciclo; e, in generale, anche una vita più lunga degli impianti di trattamento; il tutto risulta poi in una riduzione complessiva dei consumi energetici. Pur rappresentando una sfida per i produttori può avvantaggiare le piccole e medie imprese e le aziende che, non potendo competere sul prezzo, possono farlo sulla qualità.

La SEN deve inserire nella programmazione al 2030 indicazioni efficaci per la realizzazione di un’economia circolare e, al di là dei vantaggi economici e sociali previsti dal “Manifesto” della Commissione, stimare le ricadute in termini di riduzione dei consumi energetici con la loro temporizzazione.

3.4 L’auto elettrica

Da circa un quarto di secolo numerosi studi e documenti internazionali e della stessa Commissione UE propongono modelli di forte riduzione del traffico veicolare, soprattutto urbano, e le vie per conseguire simili obiettivi. Per l’Italia è stata ripetutamente segnalata come patologica la differenza tra traffico merci su gomma e su rotaia a favore della prima – costantemente ignorata da Governi che hanno concesso a più riprese nel tempo significativi finanziamenti pubblici senza mai ottenere la richiesta razionalizzazione del settore su gomma – ed è stato additato l’uso delle due grandi “autostrade”, il Mar Tirreno e il Mar Adriatico,come un forte supporto a basso costo e ad alta capacità per il traffico delle merci non deperibili. Queste e molte altre indicazioni, quante piste ciclabili!, hanno costellato convegni e sessioni di Bilancio del Parlamento italiano, ma attesa l’esiguità degli effetti lasciamo ad altri di maggior buona volontà il riproporle.

Dissentiamo invece dalla previsione della SEN relativamente al decennio 2021 -2030 che vede una penetrazione minimale delle rinnovabili nel settore trasporti, sostanzialmente consegnata ai biocombustibili. A parte ogni considerazione di carattere ambientale sull’utilizzo nei trasporti del metano e dei biocombustibili – il primo non rappresenta certamente una risposta valida alla riduzione dei gas serra – la sottolineatura sul ruolo del biometano, ottenuto “dalle bucce di mela” secondo la pubblicità dell’ENI, sembra, più che un attenta riflessione sul mercato, le sue potenzialità e i suoi sviluppi, un omaggio alla “nostra” potente multinazionale, perenne redattrice, insieme all’ENEL, dei fallimentari Piani Energetici Nazionali (PEN) del secolo scorso.

Il mercato infatti ci dice ben altro, e cioè del formidabile sviluppo che avrà l’auto elettrica proprio sull’arco di tempo della SEN. Numeri e previsioni son facilmente attingibili dai numerosi studi comparsi anche in tempi recenti e vorremo fosse molto chiaro che pensiamo, per fortuna non solo noi, a un auto elettrica pienamente inserita nel ciclo delle fonti rinnovabili. Quel che sembra grave nella visione della SEN è l’attardarsi su soluzioni vecchie, obsolete – tutti ricordano l’esperienza del Brasile con percentuali sempre più elevate nella benzina di alcoli derivati dalle colture ad hoc – invece che puntare su un futuro che è già cominciato.

E, a proposito di mercato, ci sembra illuminante ricordare che Elon Musk, il cofondatore di Paypal e attuale contractor con SpaceX – di cui è leader e Ceo – del Governo degli US per gli shuttle di collegamento con la piattaforma spaziale, è anche Ceo di “Tesla”, la fabbrica di automobili elettriche il cui nome si riferisce, pour cause, al geniale inventore, oltre un secolo fa, del motore elettrico utilizzato dalle “Tesla Model”. Musk ha messo in open source su Internet, oltre un anno fa, i brevetti più importanti delle sue “Tesla” dichiarando di voler facilitare in questo modo la diffusione dell’auto elettrica; e a marzo scorso aveva già ricevuto oltre 400 mila prenotazioni per la “Model 3”, l’auto completamente elettrica che entro l’anno verrà immessa sul mercato con un prezzo intorno ai 30 mila euro. Già nel 2015 la “Tesla” è stata dichiarata da Forbes l’azienda più innovativa al mondo.

Non c’è bisogno di essere californiani per prevedere che una soluzione di questo tipo batterà in breccia i vari modelli ibridi già in circolazione – quelli elettrici hanno un costo simile ma prestazioni molto più scadenti soprattutto riguardo all’autonomia – e comporterà riduzioni di costi e di prezzi proporzionali alle quote di mercato che riuscirà a guadagnare. La diffusione prevedibile di una fitta rete di colonnine di “rifornimento” per le batterie comporterà un ulteriore impulso alla penetrazione delle fonti rinnovabili. Non a caso Cina e India hanno optato per accelerare i loro programmi di mobilità elettrica, e l’India ha deciso che dal 2030 si venderanno nel Paese solo auto elettriche.

Nel 2030, rispetto a diverse e più ottimistiche previsioni avanzate, è conservativo ritenere che un 20% del circolante sarà costituito da auto elettriche. Insomma, il futuro, prossimo, è lì, non davvero nei biocombustibili.

La SEN deve tenere conto del panorama internazionale dell’auto elettrica e del suo sviluppo; e riformulare sotto questa luce programmi e politiche dei trasporti, prevedendo anche un impegno di ricerca e sviluppo con centri di ricerca pubblici e finanziamenti privati 8 per l’evoluzione di tutta la componentistica, soprattutto le batterie, e la riduzione dei costi.

Costruire la cultura della sostenibilità energetica

Le strategie energetiche sono “storicamente” mirate sul medio-lungo termine, senza ignorare ovviamente quanto si può e si deve fare subito. Esse si devono porre perciò il problema delle modifiche culturali, oltre che sociali, che si possono determinare sul lungo termine. Tanto più nell’era dell’instabilità climatica, di quei cambiamenti climatici che già nel 2012 il numero di apertura online della rivista Nature denunciava come: “The treat has never been greater”, sollecitando tutti gli uomini di scienza a farsi promotori, con tutti i media che l’innovazione ha messo a disposizione, di un “risveglio” dell’opinione pubblica.

Purtroppo questo risveglio è più lento di quanto sarebbe auspicabile, testimoniato in Italia dall’impressionante numero di persone che ignorano il percorso che ha portato dal Protocollo di Kyoto all’Accordo di Parigi; peggio, da quanti, anche tra studenti universitari, non sanno, ormai a pochi anni dal loro traguardo, che cosa siano i tre 20%, tanto meno il ruolo di riferimento che hanno svolto a livello mondiale. Da qui l’inderogabile necessità di capovolgere questa situazione, a partire da alcuni elementi che vogliamo qui di seguito riportare come un riferimento assai schematico, vista la sede, ma necessario.

Per quanto riguarda il cambiamento climatico: “I buoi sono scappati dalla stalla”, siamo cioè già passati alla fase dell’instabilità climatica come testimonia su scala mondiale: il moltiplicarsi di eventi meteorologici estremi, il diffondersi impressionante di aree di siccità, la “cattiva” statistica che vede accumularsi negli ultimi vent’anni tutti i massimi delle temperature medie sulla superficie del pianeta, la spaccatura della calotta artica; insomma tutti i fenomeni che sono stati collegati al global warming. Che questo collegamento sia scientificamente inoppugnabile lo evidenziò il rapporto “Abrupt Climate Change” prodotto nel 2002 dal Consiglio delle ricerche (NRC) dell’Accademia delle Scienze americana9, che fu alla base dell’acceso dibattito che in capo a tre anni portò le Accademie delle Scienze dei maggiori Paesi del mondo ai già ricordati statement e alle loro forti sollecitazioni 2,3.

Nel rapporto, frutto di dieci anni di lavoro sul campo – carotaggi dall’Antartide al Golfo del Venzuela – , di analisi dei campioni di isotopi raccolti e di studio di modelli, veniva capovolto il punto di vista dominante della Climatologia che negava all’atmosfera ogni ruolo nelle modificazioni climatiche, riservate invece, quelle non astronomiche (rotazione, rivoluzione, precessione della Terra e loro fluttuazioni), alle variazioni di salinità delle correnti oceaniche e al bilancio della masse ghiacciate, soprattutto le calotte polari, del nostro pianeta. La negazione di un ruolo per l’atmosfera comportava che i gas serra, responsabili del global warming ma presenti nello strato più basso dell’atmosfera, non venissero accettati come climalteranti. La resistenza opposta in questo senso dai Climatologi si fondava, ma solo in positivo, su un evento molto bel studiato, il Dryas recente: la glaciazione dell’area Nord Atlantica, per un po’ più di mille anni a partire da 13 mila anni fa, come dovuta al blocco della corrente del Golfo per la riduzione della sua densità salina, causata a sua volta dallo scioglimento di un enorme scudo di ghiaccio sul Canada e dal conferimento di queste acque dolci alla Corrente del Golfo.

Questo esempio corroborava sicuramente la convinzione che i fattori dominanti delle modificazioni climatiche fossero proprio i due alla base del Dryas recente, non consentiva però di escluderne altri. Infatti, alla posizione dominante il rapporto del NRC controbatteva che l’atmosfera “cuce”, ricopre sia gli oceani che le terre emerse e che, più leggera e rapida nella sua azione di quelle due componenti assai più massive (correnti oceaniche e grandi masse ghiacciate) poteva essere in grado di produrre alterazioni del clima. E un modello apparentemente “semplice” spiegava, nel Rapporto, il passaggio dalla stabilità all’instabilità climatica in termini di raggiungimento di un valore di soglia per l’intensità dell’ “azione forzante” (il global warming). Il fatto che sull’arco di 50 anni ci sia stata una variazione della concentrazione in atmosfera di CO2 – il gas serra maggioritario – pari a quella che in precedenti epoche climatologiche ha richiesto 5000 anni produce il verificarsi dell’effetto soglia: la contrazione per un fattore 100 – da 5000 a 50 anni – è la misura dell’intensità raggiunta dall’ “azione forzante”, dal global warming. Un’intensità in grado di rompere la stabilità dell’equilibrio climatico.

Questa premessa evidenzia in estrema sintesi la molteplicità delle discipline scientifiche coinvolte, dalla Climatologia, all’Energetica, alla Fisica, alla Bio-geochimica, al complesso delle Scienze Naturali, per lo studio e l’interpretazione dei fenomeni; dalla Sociologia ambientale all’Economia alle Scienze dell’Informazione per quanto riguarda le implicazioni ambientali, sociali ed economiche del verificarsi sempre più accentuato e drammatico delle conseguenze dei fenomeni connessi al global warming.

Riguardo a questi fenomeni, l’avvenuto passaggio all’instabilità climatica – recepito anche nel V° Rapporto dell’IPCC nella forma di un’anticipazione di 20 anni, dal 2050 al 2030, del “punto di non ritorno” – obbliga a non considerare più il loro accadimento, il loro sommarsi e aggravarsi, come un’emergenza; al contrario, attesi i tempi di permanenza della CO2 in atmosfera, è lo scenario delle prossime decadi.

Ciò comporta un gigantesco sforzo di education dei cittadini a tutti i livelli e in tutti i luoghi di lavoro e di formazione, a partire da quella scolastica. Se la consapevolezza di questa esigenza non si trasformasse in consapevolezza diffusa e promotrice di stili di vita e azioni coerenti verso uno sviluppo sostenibile, la SEN perderebbe una componente socio-culturale fondamentale che ne pregiudicherebbe la realizzazione stessa.

Le azioni di mitigazione volte al conseguimento dei tre 20% al 2020, che si stanno già trasformando nell’Unione Europea in obiettivi ancor più impegnativi al 2030, configurano una progressiva ma marcata riduzione delle fonti fossili verso un molto maggior impiego di energie diffuse nel territorio, come quelle rinnovabili, fino all’autoproduzione e all’autoconsumo; ciò comporta una maggior iniziativa e un maggior controllo sociale da parte dei cittadini, ma richiede al contempo più sapere e più intelligenza nell’uso delle fonti.

Insomma, il passaggio da un modello energetico di fonti accentrate, di grande potenza e controllate da pochi, a uno basato su fonti diffuse e direttamente accessibili da molti. Di tutto questo la maggior parte dei cittadini è scarsamente informata e consapevole; e non appaiono sufficienti, in rapporto alla difficoltà degli obiettivi da conseguire, quel po’ di pratiche virtuose che pure si stanno attuando e stanno crescendo.

Non è insomma pensabile una SEN senza un’azione che:

  1. i) investa i programmi e i contenuti scolastici, dalla scuola dell’infanzia a quella dell’obbligo sui temi schematicamente enunciati;
  2. ii) produca un’education generale dei cittadini italiani, sia sui cambiamenti climatici non più come un’emergenza sia sugli aspetti tecnologici e sulle conseguenze sociali e culturali del nuovo modello energetico.

Questa dimensione è sostanzialmente assente dai documenti del Governo sulla SEN, col grave rischio di pregiudicarne la realizzazione o, nel migliore dei casi, di ridurre il conseguimento di alcuni risultati all’esito di un’innovazione meramente tecnologica.

Spetta al Governo decidere in quale forma voglia integrare nella SEN queste esigenze e questi problemi.

Roma, 11 luglio 2017

1 “.. Using the results from formal economic models, the Review estimates that if we don’t act, the overall costs and risks of climate change will be equivalent to losing at least 5% of global GDP each year, now and forever” “ The investment that takes place in the next 10-20 years will have a profound effect on the climate in the second half of this century and in the next.”. Stern N. (2006), “Stern Review on the Economics of the Climate Change”. http://webarchive.nationalarchives.gov.uk/20100407172811/http://www.hm-treasury.gov.uk/stern_review_ report.htm

2Joint science academies’ statement: Energy Sustainability and Security, 14 June 2006, http://www.greencarcongress.com/2006/06/12_national_aca.html/.

3Joint science academies’ statement: Global response to climate change, 7 June 2005, https://royalsociety.org/topics-policy/publications/2005/global-response-climate-change/

4http://trinomics.eu/wp-content/uploads/2017/07/State-of-play-of-European-climate-finance-tracking-published-6-July-2017.pdf

5 http://priceofoil.org/2017/07/05/g20-financing-climate-disaster/

6 https://twitter.com/PDurandOfficiel/status/881443636394831872

7In a world with growing pressures on resources and the environment, the EU has no choice but to go for the transition to a resource-efficient and ultimately regenerative circular economy” http://europa.eu/rapid/press-release_MEMO-12-989_en. htm

8 Non sarebbe infatti appropriato che i colpevoli ritardi della FCA venissero colmati dalla ricerca finanziata dal Governo.

9Abrupt climate change. Inevitable surprises”. National Academic Press, Whashington, D.C., Copyright 2002 by the National Academy of Sciences

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Gas fossile: il nemico armato del clima

dal blog di Mario Agostinelli

logo-il fatto quotidiano 2015In una conversazione privata a conclusione della Cop 21, un dirigente Eni ha previsto in mia presenza che il vero vincitore della conferenza di Parigi sarebbe stato il gas: completamente compatibile con il sistema delle grandi infrastrutture, disponibile in grandi quantità con sempre nuove tecnologie, soggetto alle convenienze geopolitiche delle grandi potenze e alle attenzioni politiche dei produttori di armi, meno osteggiato del petrolio e del carbone per i suoi effetti sulle emissioni climalteranti. Insomma, un utile compromesso per gli enormi interessi minacciati dalle rinnovabili e per mascherare l’urgenza di un cambio radicale di paradigma energetico: la decarbonizzazione innanzitutto.

A distanza di un anno e mezzo, quella previsione è più che confermata e il ritardo nel contenere gli aumenti di temperatura è reso più drammatico, pressoché inarrivabile, ma non esecrato quanto occorrerebbe per l’indifferenza dell’opinione pubblica. Il gas irragionevolmente si impone come la soluzione competitiva che l’economia mondiale (con l’eccezione parziale di Cina, India e Francia) e le multinazionali industriali e dei servizi stanno scegliendo per esternalizzare i costi della catastrofe della biosfera e abbindolare le popolazioni con il mito del ritorno alla crescita, accompagnata dalla riduzione delle tariffe e delle tasse sulle persone fisiche (il prezzo del gas viene tenuto basso, la sua diffusione non è accompagnata da misure di prevenzione private e pubbliche degli effetti nocivi e i danni climatici si abbattono non in generale, ma, per ora, prevalentemente sugli sfortunati più direttamente colpiti).

Dopo gli accordi per non andare oltre l’aumento di 1,5° C, solo il gas – naturale, liquefatto, da scisto, da sabbie bituminose – avanza, in un’autentica guerra commerciale e militare, per prendere tempo fino al 2023, quando i firmatari di Parigi dovranno sottostare a vincoli e verifiche più stringenti. E intanto, a tutto gas!

Se disegnassimo sulle carte geografiche i progetti di gasdotti e le rotte delle navi metaniere avremmo lo stesso effetto delle avanzate delle divisioni in tempo di guerra. I progetti mastodontici fioccano e l’Italia è tra i protagonisti sul fronte della messa in opera e della fornitura di sbocchi. Qualsiasi mare si debba valicare, eccoci pronti: Adriatico (Tap), Mar Nero (Blue Stream), Mar Caspio (Trans Caspian) per contendere alla Polonia, alla Germania e al centro del continente l’occasione dell’ “hub” del gas fossile europeo.

Ma c’è un altro fronte della guerra in corso che complica le strategie. Il gas liquefatto in partenza e poi rigassificato in arrivo, può viaggiare via mare, essere immesso in cisterne a bassa temperatura dai giacimenti naturali del Qatar, come dai giacimenti di sisto e dalle sabbie bituminose, dopo essere stato trasportato sulle coste americane dai gasdotti cui Trump oggi dà il via libera.

“È l’inizio della guerra dei prezzi tra il gasolio americano e il gas di condotta che viene da oriente”, ha dichiarato Thierry Bros, analista di Société générale, citato dal Wsj. Gli analisti dicono che la Russia potrebbe tagliare i prezzi che addebita ai propri clienti europei per cercare di scacciare i nuovi concorrenti statunitensi. Anche se più caro, molti in Europa vedono l’ingresso del gas liquido degli Stati Uniti sul mercato come parte di un più ampio sforzo geopolitico per sfidare il dominio russo delle forniture e mettere in crisi il rapporto Putin-Merkel per la costruzione della condotta North Stream 2 nel Baltico.

E infatti lo scatto americano non si è fatto attendere. A marzo, erano già stati consegnati i primi carichi di shale gas al Brasile, con successive spedizioni verso l’Asia. Il 21 aprile il Wall Street Journal aveva informato che una nave metaniera portava per la prima volta gas liquido americano in Europa. Poi le notizie si sono intensificate: il Guardian informa che 27.500 metri cubi di shale gas sono arrivati in Norvegia.

Trump, nel suo discorso a Varsavia ha voluto mandare un chiaro messaggio alla Russia. “Siamo seduti su una grande quantità di energia fossile ed ora siamo esportatori di energia, quindi, se qualcuno di voi ha bisogno di energia, basta che ci dia una telefonata”, così, secondo la trascrizione del suo discorso diffuso dalla Casa Bianca.

Il terminal nel Mar Baltico di Swnoujscie, dove la Polonia già accoglie Gnl dal Qatar, sarà ampliato e l’allestimento di terminali per il gas americano nei Paesi Baltici sono la risposta al sollecito, mentre si affaccia in concorrenza anche l’Egitto dopo la scoperta da parte dell’Eni di notevoli giacimenti nel Mediterraneo. Così, tutti corrono – un giorno sì e un giorno no – ai terminali del Golfo del Messico, alla corte del Qatar, alle stanze sontuose degli sceicchi arabi o di Al Sisi, dimenticandosi ogni volta di Regeni.

C’è infine la schizofrenia statunitense verso i produttori di gas del Golfo. Dopo l’anatema di Trump e dell’Arabia Saudita verso il Qatar, tre giganti energetici (Exxon, Bp e Total) dichiarano il loro sostegno al piano di Doha di aumentare del 30% la produzione entro il 2024. E Washington diventa mediatrice di una lotta di puri interessi, tutti con la puzza del gas, altro che inebriati da essenze religiose.

D’altra parte, come ha detto alla Reuters il funzionario di una delle compagnie coinvolte: “C’è solo una politica qui: si devono fare scelte puramente economiche. Essere qatariota in Qatar e emiratino negli Emirati”. Non c’è solo Trump a sparare sul clima.

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Tutti zitti sul nucleare: perché?

dal blog di Mario Agostinelli

logo-il fatto quotidiano 2015I loquacissimi e filonucleari Chicco Testa, Franco Battaglia e via discorrendo si sono presi le vacanze con molto anticipo. Nemmeno più un cenno ai mirabolanti benefici futuri dell’atomo, dopo i disastri economici che colpiscono Toshiba e Westinghouse; nemmeno una nota sulle decisioni di Areva e Edf di chiusura precauzionale di reattori; nulla sulla California che ferma la sua ultima centrale. E che silenzio tombale sul deposito nazionale delle scorie, che adesso non balla più solo tra Saluggia, Sardegna e Scanzano, ma fa capolino addirittura a Ispra (Varese) in un capannone per ora inaugurato solo per artisti temerari.

Mentre si avvia il dibattito sulla Nuova strategia nazionale (Sen) confezionata dal ministro Calenda, capace di entusiasmare tutti i fan delle fonti fossili e di rimandare ad altri tempi l’introduzione di un paradigma energetico finalmente innovativo, tutto si concentra sulle virtù del gas e dei gasdotti che sbarcherebbero sulle nostre coste. Direi che – freudianamente – le virtù taumaturgiche dell’atomo, troppo azzardate e impopolari da riproporre per il futuro dell’elettricità, vengono trasferite al gas, combustibile meno gravido di Co2, ma pur sempre evocativo – con le sue grandi centrali e migliaia di km di tubi – di una crescita illusoria, di una esuberanza e di uno spreco di energia.

Tutto, purché si stia lontano dalle fonti naturali, dall’efficienza, dalle reti digitali e dagli impianti di immagazzinamento di energia elettrica. E’ il modello dei grandi impianti che continua ad entusiasmare ministri ed esperti oggi più timidi e silenti. Anche questa è la ragione per cui la crisi del nucleare francese non trova spazio sulla stampa, né commenti all’altezza della gravità dei fatti.

Proprio in questo inizio di estate il Coordinamento antinucleare “Sud-Est France” ha ripubblicato il processo del 30 agosto 2016 a Parigi in cui aveva difeso il sito del blogger Mediapart che attaccava Luc Oursel (ora morto di cancro, era un ingegnere e caposquadra nelle miniere di uranio di Areva in Gabon), presentando una denuncia contro l’attività estrattiva di uranio in condizioni di rischio altissimo.

Nel testo ripubblicato, Areva viene accusata di aver firmato un accordo di “sponsorizzazione con la morte nucleare”; di svolgere attività culturali locali per i bambini in modo da far loro sottovalutare i pericoli di radiazione; di aver sovvenzionato la grande mostra sull’Egitto ad Avignone con i ricavi della vendita di combustibile Mox alla centrale di Fukushima. Queste accuse si aggiungono a difficoltà attuali di bilancio per Areva, a spese pazzesche per il progetto di fusione Iter, ai difetti del contenitore degli Epr in costruzione. Il nucleare zoppica davvero. E non solo in Francia.

In questi giorni, dopo la decisione Svizzera di non costruire nuove centrali nucleari, dall’altra parte dell’emisfero, in California, si sta prendendo una decisione determinante con conseguenze di vasta portata: Pacific Gas e Electric co hanno annunciato di non rinnovare la licenza per i due reattori presso la centrale nucleare di Diablo Canyon che chiuderà nel 2025, terminando un tumultuoso rapporto durato 31 anni con la popolazione e il governo locale e con una perdita economica annuale di circa un miliardo di dollari.

La chiusura fa parte di un accordo con le organizzazioni del lavoro e dell’ambiente in cui la multiutility accetta di aumentare gli investimenti in efficienza energetica, energia rinnovabile e immagazzinamento elettrico per compensare la potenza che non sarà più prodotta dalla centrale nucleare. Canyon Diablo è l’ultima centrale nucleare operante nello Stato, dopo l’arresto nel 2012 della stazione di generazione nucleare di San Onofre, a sud di San Clemente.

Il presidente di Pg&E Tony Earley ha dichiarato: “Il paesaggio energetico della California sta cambiando profondamente con l’efficienza energetica, la rinnovabilità e l’immagazzinamento che sono essenziali per la politica energetica dello Stato. Mentre compiamo questa transizione, la produzione completa di Diablo Canyon non sarà più richiesta fino a esaurirsi”. Diablo Canyon impiega quasi 1.500 lavoratori e contribuisce con più di un miliardo di dollari all’economia locale. È il più grande datore di lavoro privato della contea di San Luis Obispo, ed elargisce un salario medio annuo di 157mila dollari.

Si tratta di un accordo storico che definisce una data certa per la fine dell’energia nucleare in California e assicura il rimpiazzo con il risparmio, la sicurezza, il costo competitivo dell’energia rinnovabile, l’efficienza energetica e l’immagazzinamento di energia.

L’accordo è anche condizionato dall’approvazione da parte della multiutility pubblica statale dei programmi di Pg&E per la sostituzione della potenza di Diablo Canyon e delle altre grandi centrali con risorse senza gas a effetto serra. In definitiva, l’efficienza energetica e l’energia rinnovabile dal vento e dal sole possono sostituire gli impianti nucleari e a combustibile fossile.

Inoltre, la riconversione di tutti gli occupati sulle nuove tecnologie – ha detto un sindacalista locale – assicura “che i posti di lavoro della classe media siano una parte centrale dell’economia emergente pulita e rinnovabile“. Piacerebbe sentire anche in riva ai nostri mari discorsi di questo tono nell’estate assolata in cui il clima fa sentire i suoi morsi.

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Termovalorizzazione ed economia circolare, audizione in Senato

a cura di Roberto Meregalli – Roma, 14 giugno 2017

Audizione XIII Commissione del Senato in merito all’atto comunitario n. 316 (Termovalorizzazione ed economia circolare)

SCARICA IL PDF COMPLETO (3 MB) >>>

INDICE

    • Il ruolo della termovalorizzazione nell’economia circolare
    • La termovalorizzazione è…
    • Situazione attuale raccolta rifiuti in Italia
    • Compostaggio e trattamento anaerobico
    • Incenerimento
    • Direzione da imboccare
    • Aumentare la digestione anaerobica
    • Contribuendo a decarbonizzare i trasporti
    • Aumentare la trasformazione di rifiuti in materie prime
    • Ridurre le quantità di FORSU «circolante»
    • Prevenire: Ridurre le quantità di rifiuti di plastica
    • Aumentando la raccolta differenziata viene meno la necessità di incenerimento
    • Tariffazione puntuale
    • Incenerimento come pratica residuale
    • In Lombardia riteniamo sia necessario chiudere alcuni impianti e abbandonare progetti di TLR dipendenti
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