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Clima, finalmente la politica si è accorta di dover cambiare rotta

Tra le minacce borbottate da un Matteo Salvini in divisa e i roboanti proclami di un Luigi Di Maio incravattato – che Giuseppe Conte si premura di ridimensionare l’indomani – i Tg nazionali ci nascondono fatti e tendenze che orientano ormai l’immaginario popolare fuori dalla nostra “provincia”. Segnali sempre più percettibili che si oppongono alla distruzione dei diritti, all’esclusione e alla costruzione di muri, dispensati come trucide vie di scampo per una parte della popolazione di un pianeta sempre più inospitale. Vengono fortunatamente a galla le autentiche emergenze che segneranno un futuro assai prossimo e che, tra loro interconnesse in una visione ampia come quella di Bergoglio o incardinate nell’esperienza dei lavoratori e degli studenti tornati in piazza per una buona vita e un lavoro degno, ridicolizzano le prove muscolari e gli abbagli dei “cacicchi” di turno.

È giunto il momento di narrare la realtà per quello che è, non per quello che vogliono che appaia. Qui accenno ad alcuni dei segnali di un promettente cambiamento in corso, che può diventare irreversibile nel mondo se, contemporaneamente, vengono denunciati gli inganni che tendono a sminuirne la portata e sono svelati gli interessi che ne impediscono una piena affermazione.

È vero che Donald Trump non ha nemmeno menzionato il cambiamento climatico nel suo discorso annuale al Congresso, tutto dedicato al muro col Messico, ma, intanto, i democratici Usa stanno varando un Green New Deal, un autentico “piano Roosevelt” di forte impatto climatico e sociale.

È vero che Alessandro Di Battista e l’amico hanno incontrato i gilets jaunes, ma, secondo la Reuters, la Francia ha richiamato il suo ambasciatore non soltanto per un’inusitata ingerenza, ma perché la concorrenza tra la Total francese e l’italiana Eni sul petrolio in Libia è giunta a un punto di rottura.

È vero che il ministro Sergio Costa non sembra preoccupato delle trivelle in mare e nemmeno della mancata decarbonizzazione delle nostre fonti energetiche, ma che dire dello sciopero degli studenti belgi che al grido “Siamo più caldi del clima” per la quarta settimana di fila hanno manifestato in oltre 30mila per sollecitare interventi contro i cambiamenti climatici?

E se è vero che Nicolas Maduro non è Simon BolivarHugo Chavez, vale anche l’affermazione di Ed Crook sul Financial Times del 9 febbraio: “L’unica cosa che il presidente Trump odia più dell’Iran o del Venezuela sono i prezzi alti della pompa. E se è costretto a scegliere tra i due, sceglierà l’abbassamento dei prezzi del petrolio”.

Oltre alla ripetizione delle lotte di potere dei soliti noti, prendono piede in varie parti del pianeta atteggiamenti, azioni e comportamenti, in particolare delle nuove generazioni che sostituiscono la solidarietà all’individualismo della paura. Il clima, come nei due esempi sottostanti, fa da catalizzatore.

Mentre complessivamente nel mondo il consumo di energia è in crescita (una quota inferiore di fossili non significa che queste fonti siano in calo in termini assoluti), un report recente finanziato da grandi patrimoni (Bill Gates, ad esempio) cerca di definire l’apporto praticabile di tecnologie per ridurre le emissioni climalteranti. Si tratta di un approccio prettamente illuministico, fiducioso che, nei prossimi 30 anni, grandi investimenti sul clima anziché in armamenti possano abbattere la soglia di Co2. L’amministrazione Trump renderà certamente difficile pianificare un portafoglio di innovazione energetica efficace, ma occorre segnalare che il tentativo va controcorrente, pur affidandosi forse in maniera fin troppo esclusiva al salvataggio tecnologico della Terra.

In antitesi a questo approccio, ma con un grado di piena convergenza riguardo l’esito di una totale decarbonizzazione del sistema elettrico, sta rapidamente prendendo piede nel partito democratico statunitense un Green New Deal. L’idea è quella di arrivare a un futuro a basse emissioni di carbonio accompagnando il percorso con considerazioni e priorità di equità sociale. Entro dieci anni il 100% dell’elettricità americana proverrebbe da fonti rinnovabili e senza investimenti in nuovi reattori nucleari.

La proposta, accompagnata dall’introduzione di una Carbon tax, è guidata da Alexandria Ocasio-Cortez, la neoeletta al Congresso, una socialista democratica di New York che la definisce “transizione dal nucleare e da tutti i combustibili fossili il prima possibile”.

Interessante nella posizione di Alexandria Ocasio-Cortez è l’ampio profilo di una visione del Green New Deal come un piano per combattere l’ingiustizia economica e razziale e combattere i cambiamenti climatici. Una posizione ormai all’ordine del giorno della strategia delle prossime presidenziali, che spingerà i democratici a gareggiare per la Casa Bianca nel 2020 non solo per aderire all’idea generale, ma per stabilire obiettivi legislativi specifici con cui ottenere la meta passo dopo passo.

Il documento, che è sostenuto anche dal Movimento Sunrise gestito dalla gioventù, appoggia l’assistenza sanitaria universale, la garanzia di posti di lavoro e l’istruzione superiore gratuita, compiendo un enorme cambiamento nella comunicazione di un decennio fa, quando i democratici sostenevano un sistema “cap-and-trade” per limitare i gas serra, assegnando a pagamento i permessi di inquinamento industriale.

C’è sintonia tra l’impianto comunicativo della giovane deputata e le connessioni che compaiono nell’enciclica Laudato Sì. Lo testimoniano le parole da lei pronunciate per combattere il cambio climatico: “promuovere la giustizia e l’equità fermando l’egoismo, prevenendo il futuro e riparando l’oppressione storica delle popolazioni indigene, delle comunità di colore, delle comunità di migranti, delle comunità deindustrializzate, delle comunità rurali spopolate, dei poveri, dei lavoratori a basso reddito, delle donne, degli anziani, delle persone con disabilità e dei giovani “.

Potrebbe essere un programma per l’Europa, se i sovranisti e le regioni più ricche dalle nostre parti non pensassero che è meglio sopravvivere da soli.

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A Davos si preoccupano per l’economia, ma il pianeta ha un problema ben più grave

Il Forum di Davos è da sempre considerato un evento organizzato per migliorare lo stato degli affari mondiali. Quello appena terminato è stato pervaso da scetticismo e ha ricevuto scarsa attenzione anche dai media. Ben ne ha rappresentato la sintesi il murale che campeggiava nell’atrio del Centro Congressi con una ragazza che tiene un pallone, mentre nuvole temporalesche si avvicinano minacciose.

In effetti, le priorità a breve termine dei partecipanti – banchieri, esponenti della finanza, manager, governanti di nuovo conio, come il brasiliano Bolsonaro o lo statunitense Pompeo o il nostro Conte – non sono allineate con le preoccupazioni comuni a lungo termine (cambiamenti climatici, uguaglianza, società inclusive). Se da una parte è vero che le fortune miliardarie sono aumentate del 12% lo scorso anno, dall’altra ci sono gli ultimi report sullo scioglimento dei ghiacci, ad esempio, che vanno ben oltre le preoccupazioni per l’allentamento delle piste da sci della famosa località svizzera…

L’Antartide, a causa della sua natura inospitale, è rimasto intatto da sempre e rimane l’unico continente senza popolazione umana nativa e senza alcuna vita vegetale. Ma anche nei territori meno accessibili la natura risente della maggior concentrazione globale di gas climalteranti e manifesta comportamenti insoliti dei suoi componenti meno conosciuti alle nostre latitudini. Così, succede che le grandi balene blu, sogno e preda dei balenieri del secolo scorso, a seguito della penuria di pesci non figliano più lungo le coste a sud del 60° parallelo, ma per riprodursi si sono spostate verso i tropici e vengono avvistate in branchi addirittura nello Sri Lanka.

Ma è al Polo Nord che continuare a pattinare o slittare sarà sempre più pericoloso. Un rapporto, la Report Card Arctic 2018 compilato in base alla ricerca di oltre 80 scienziati che lavorano per governi e università in 12 Paesi, tiene traccia del ghiaccio marino, del manto nevoso, della temperatura dell’aria, della temperatura dell’oceano, della calotta glaciale della Groenlandia, della vegetazione e dei cambiamenti dell’ecosistema artico. Il volume appena pubblicato mostra che lo scorso anno la regione ha registrato la seconda temperatura più calda mai censita. Oltre a questo, suscita apprensione la constatazione che mai nel Mare di Bering è stato catalogato uno spessore del ghiaccio invernale talmente poco massiccio da permettere il fiorire precoce del plancton marino attorno all’Alaska. I resoconti sulla fauna e la flora sono impietosi: è confermato il declino a lungo termine della popolazione di caribù, mentre le mandrie di renne selvatiche che attraversano la tundra artica sono diminuite di quasi il 50% negli ultimi due decenni. Contemporaneamente, si sta verificando una impressionante espansione verso nord delle alghe tossiche nocive, trasportate da una insolita concentrazione di inquinanti microplastici che provengono dalle correnti oceaniche che si mescolano all’Oceano Artico.

Mare di Bering

La mappa mostra l’età del ghiaccio marino nel braccio di ghiaccio artico nel marzo 1985 (a sinistra) e nel marzo 2018 (a destra). Il ghiaccio che ha meno di un anno è colorato in blu più scuro. Il ghiaccio che è sopravvissuto per almeno quattro anni è bianco.

Le temperature dell’aria superficiale nell’Artico hanno continuato a scaldarsi a velocità doppia rispetto al resto del globo. Il ghiaccio è rimasto più “giovane, più magro” e ha coperto meno area rispetto al passato. Nel sistema artico terrestre il riscaldamento atmosferico ha continuato a generare un declino del manto nevoso, a provocare lo scioglimento della calotta glaciale della Groenlandia e del ghiaccio del lago interno nonché l’espansione e l’inverdimento della vegetazione della tundra artica.

E se, lasciati sci e pattini ai Poli, volessimo scendere dalle Alpi al mare, avremmo anche qui grandi sorprese. Il Reno, l’asse principale del trasporto fluviale in Europa, sta perdendo molto del suo flusso. Dopo una prolungata siccità nell’estate boreale, il traffico pesante in uno dei punti più profondi del fiume è stato paralizzato per quasi un mese alla fine dell’anno 2018. Il Reno, anche se solo temporaneamente, è stato invalidato nella sua funzione di arteria di trasporto fondamentale. L’impatto sulla crescita economica in Germania nel terzo e nel quarto trimestre è stato significativo, a riprova di come anche le economie industriali avanzate debbano mettere in conto gli effetti del riscaldamento globale. Daimler, Bosch, Bayer e Basf hanno annunciato di essere state costrette ad utilizzar sistemi di trasporto più costosi a causa dell’abbassamento del livello delle acque. I governi federali sono stati sollecitati a investire in infrastrutture – come chiuse e dighe – per rilasciare acqua a richiesta e per garantire che i corsi d’acqua rimangano navigabili.

D’altronde, i ghiacciai alpini si sono ridotti del 28% tra il 1973 e il 2010. “Le Alpi si stanno riscaldando ancora più velocemente proprio perché la neve e il ghiaccio si sciolgono”, ha detto Wilfried Hagg dell’Università di Monaco. “Un clima più caldo rende più probabile la ripetizione di incidenti come i bassi livelli del fiume Reno e Danubio della scorsa estate”. E pensare che il Reno e il Danubio nascono e scorrono a due passi da Davos.

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#10yearschallenge e clima, cosa è successo al pianeta in dieci anni e quale futuro ci attende

Va per la maggiore postare immagini di come si era nel 2009 rispetto all’anno in corso. Dieci anni fa. Un confronto non certo esaustivo se si parla di clima e dello stato del pianeta. In questo caso, in virtù dell’accelerazione dei cambiamenti in corso, affiora una sensibilità nuova rispetto allo scorrere del tempo: non è significativo solo quanto tempo è passato “da”, ma quanto manca “a”. Ossia, dovremmo chiederci se tra dieci anni saremo in un mondo ancora in continuità con quello di dieci anni fa, oppure osserveremo paesaggi e una biosfera irreversibilmente mutati rispetto alla memoria che ci rimane? Pertanto, per adattare un hashtag diventato virale a immagini realistiche dell’evoluzione dell’ambiente in cui viviamo, proverò a far ponte tra il 2009 e il 2029, gettando, a mo’ di esempio, dapprima uno sguardo in Inghilterra sugli effetti di 10 anni di cambiamenti climatici precedenti a oggi e illustrando in seguito le previsioni sui 10 anni a venire di cui il Pentagono ha informato un Trump tanto allibito quanto ostinatamente negazionista.

10 anni fa in Inghilterra. Un decennio fa il Regno Unito ha compiuto un passo coraggioso adottando una legge sui cambiamenti climatici e impegnandosi a ridurre significativamente le emissioni di gas serra entro il 2050. Dal 2008 al 2018 il Climate Change Act ha fornito compiti, responsabilità e una certa chiarezza sulla direzione di marcia da intraprendere per contrastare l’aumento della temperatura dovuto ai comportamenti della popolazione. A distanza di un decennio, la legge ha ottenuto un calo delle emissioni del 43% rispetto ai livelli del 1990. Lo smog più denso sul Tamigi è quasi scomparso.

Nel 2017 per la prima volta la maggior parte dell’elettricità del Regno Unito proveniva da fonti rinnovabili o a basse emissioni di carbonio, con fumate meno dense all’orizzonte, mentre l’economia, con un mix di sorgenti energetiche più pulite, riusciva a registrare una fase di espansione. Questi segnali positivi non sono bastati: il mutamento climatico si è fatto più rilevante; è andato perso il 26% della fauna selvatica (il 60% rispetto al 1970); il ritardo per limitare l’innalzamento della temperatura ai fatidici 1.5°C risulta sempre più incolmabile e le misure adottate finora hanno colpito di più le persone povere e svantaggiate, dal momento che i costi della transizione energetica (stimati attorno ai 600 miliardi di Euro) senza l’applicazione di una carbon tax, si sono in gran parte scaricati sui consumatori anziché sui grandi produttori di energia. Nel film dei dieci anni si potrebbe constatare anche una sproporzionata e improvvida destinazione di terreni per insediamenti umani, allevamenti e mangimi per bestiame, mentre i rischi di calore estremo e gli eventi meteorologici negativi sono cresciuti di anno in anno, come evidenziato dalla calura dell’ultima estate londinese e dalle inondazioni della primavera che l’ha preceduta.

Le previsioni del Pentagono per il 2030. Giorni fa è uscito un rapporto del Pentagono sui cambiamenti climatici con particolare attenzione alle “foto” prossime future delle basi americane in giro per il mondo. A premessa di provvedimenti operativi che riguarderanno i singoli siti, sono state espresse alcune considerazioni generali assai significative se non intriganti, vista la loro provenienza. Innanzitutto, si afferma che gli effetti del clima che muta rappresentano un problema di sicurezza nazionale, mentre, per la prima volta, viene preso atto che un brusco cambiamento climatico (vale a dire in una scala che cambia drammaticamente in anni, piuttosto che decenni o secoli) sia altrettanto probabile di un mutamento graduale. Se la rapidità prevalesse sulla gradualità cambierebbe lo scenario profilato dieci anni fa, secondo il quale l’agricoltura dell’Europa settentrionale, della Russia e del Nord America sarebbero prosperate, mentre l’Europa meridionale, l’Africa e l’America centrale e meridionale avrebbero sofferto di un aumento della scarsità d’acqua. Non più produzione di champagne nelle isole britanniche né grandi bacini di riserva idrica nelle zone subtropicali. Infine, perfino gli scienziati del Pentagono valutano che il riscaldamento globale sarà nei prossimi decenni un fattore crescente di estinzione delle specie, il cui tasso al momento è più alto che in qualsiasi momento dalla scomparsa dei dinosauri, 65 milioni di anni fa.

Sul piano più strettamente militare, si ritiene che il riscaldamento dell’Artico stia creando maggiori opportunità per un conflitto con la Russia e la Cina. L’indagine più estesa riguarda in dettaglio i modi con cui il cambiamento climatico – tenendo conto di cinque fattori: inondazioni ricorrenti, siccità, desertificazione, incendi boschivi e scongelamento del permafrost – potrebbe colpire migliaia di basi e installazioni militari sparse nel mondo. Circa i due terzi delle 79 installazioni trattate risultano danneggiabili all’innalzamento del mare o a future inondazioni ricorrenti e oltre la metà sono vulnerabili alla siccità attuale o futura. Circa la metà è esposta al crescente pericolo di incendi distruttivi. Ovviamente, gli impatti a causa di inondazioni costiere variano da regione a regione con maggiore impatto sulla costa orientale e le Hawaii rispetto alla costa occidentale. Addirittura, la regione di Hampton Roads in Virginia è citata come esempio di un’area che nei prossimi decenni dovrà affrontare un aumento del livello del mare fino a 45 centimetri.

Per il Pentagono di Trump, la risposta a tutti questi pericoli sembrerebbe essere diretta: armati fino ai denti e costruire un muro inespugnabile intorno agli Stati Uniti, mentre si tengono sotto tiro le altre potenze. Più realisticamente, penso impossibile agire non in pace e da soli.

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Petrolio, carbone e gas salveranno il lavoro (forse). Ma per il clima sarà un disastro

I delegati di oltre 200 Paesi delle Nazioni Unite erano arrivati ai colloqui sul clima a Katowice con l’incarico di sostenere l’accordo di Parigi 2015. Pur trattandosi di un appuntamento “tecnico” per fare il punto sui progressi o i ritardi rispetto all’agenda fissata tre anni fa, l’attenzione si è focalizzata sulle responsabilità che i leader mondiali si sarebbero assunti nei confronti dell’emergenza climatica. A un mese dalla conclusione della Conferenza possiamo dire che sono state confermate le previsioni più pessimistiche: in tre anni non solo non si sono verificati miglioramenti apprezzabili ma, alla luce degli ultimi dati diffusi dal Global Carbon Project, le emissioni di gas serra sono aumentate per il secondo anno consecutivo nel 2018.

Preso atto di ciò, si deve constatare che l’incombente crisi climatica sta andando oltre le nostre capacità di controllo. Vale allora la pena di andare oltre la ricerca dei colpevoli del passato (peraltro tanto noti quanto insensibili), per metterci in azione come persone e soggetti sociali attivi, capaci con le loro reazioni e comportamenti di imporre un cambiamento di rotta. Tanto urgente da doversi realizzare in un arco temporale breve che, secondo l’Ipcc, non può andare oltre i prossimi 15 anni.

Se questo è il contesto, occorre rendersi conto che la fobia verso i migranti e l’inganno della crescita a spese della natura non servono ad altro che a distrarre l’opinione pubblica, per mantenere immutate le disuguaglianze sociali anche a fronte della sfida del clima. Una sfida di primaria importanza che richiede due impegni cogenti: lasciare sottoterra i combustibili fossili e garantire i diritti umani e sociali nella transizione energetica. Sono queste le autentiche ipoteche per la civiltà a venire e non si riscuoteranno senza conflitti, per cui ogni individuo, ogni soggetto, ogni associazione, ogni organizzazione di interessi o di valori sarà tenuta a contrapporre una visione strategica all’interesse a breve, come è sempre avvenuto nelle fasi di profonda trasformazione.

Sappiamo da dove partire. Il mantenimento della crescita economica avviene tuttora al prezzo di un aumentato consumo di combustibili fossili. Negli ultimi anni – senza andare lontano e tirare in ballo la sconsiderata imprevidenza di Donald Trump Polonia, Germania e Italia non hanno fatto alcun passo indietro nel ricorso al carbone e al gas. In fondo, Katowice ha messo in luce quanto le élite globali, compresi i sovranisti nostrani del “cambiamento”, si aggrappino al business dei fossili e quanto i governi difendano i loro interessi nazionali a essi associati, accettando in compenso l’ineluttabilità del disastro climatico. La situazione è così compromessa e l’inerzia del sistema economico-finanziario così rigida da richiedere che tutte le componenti sociali forniscano un supporto per attuare quella che altro non è se non una vera rivoluzione dell’economia mondiale. Ad ora manca totalmente quella consapevolezza espressa con lucidità nella Laudato Si’ e cioè che “un vero approccio ecologico diventa sempre un approccio sociale”.

Data la mia esperienza, ritengo che sia ora che entri in gioco il sindacato, fin troppo silenzioso ma (mi auguro) già capace di segnali al prossimo congresso Cgil. L’accordo di Parigi, oggi messo da parte perfino dall’Europa, accanto ai diritti umani parla esplicitamente di sicurezza alimentare, diritti delle popolazioni indigene, uguaglianza di genere, partecipazione pubblica, equità intergenerazionale, integrità degli ecosistemi e, per il clima, propone una transizione giusta. C’è da chiedersi: su quali gambe? Forse su quelle malferme e incapaci di murare la strada delle corporation e della grande finanza? Al punto in cui siamo, continuare a fare della combustione dei fossili una ragione primaria di profitto porta a violare i diritti umani e a ricattare i lavoratori sotto il profilo occupazionale e dei diritti sociali. Ed è altrettanto chiaro, anche se ce ne scordiamo facilmente, come le persone possano perdere i loro diritti tradizionali di vivere in una foresta (Amazzonia), o in una valle (Tav) o lungo un litorale marino (Tap) quando si infrange l’equilibrio climatico potenziando la filiera fossile oltre il tollerabile. Tutte materie su cui il sindacato ha titolo pieno per essere informato e per negoziare a favore dei suoi organizzati.

I crescenti conflitti sociali legati all’eliminazione progressiva delle industrie fossili danno senso al termine “giusta transizione”, che non può che basarsi su un’attuazione completa della giustizia climatica. Per cominciare, ciò dovrà includere la limitazione del riscaldamento globale a un massimo di 1,5°C, altrimenti il ​​cambiamento climatico aggraverà globalmente le ingiustizie sociali. Carbone, petrolio e gas vanno rapidamente eliminati con una radicalità cui ci ha costretto lo sviluppo industriale ininterrotto e la cui espansione non è negoziabile, anche se ciò minaccia posti di lavoro. È d’obbligo che i lavoratori dipendenti dal sistema fossile non vengano lasciati a se stessi, ma affidati a una rete di sicurezza che li faccia transitare verso un lavoro socialmente significativo e che conservi la loro dignità. Non si tratta di assistenza, ma di diritti, di riconversione “win to win”.

Proprio con una visione strategica un sindacato non corporativo può prevenire una divisione irreparabile tra lavoratori e le comunità colpite dai cambiamenti climatici. Oggi è in atto una campagna insidiosa al riparo della quale governi e grandi attori fossili, in particolare nei Paesi industrializzati, hanno iniziato a chiedere solo compensazioni finanziarie e sgravi per le loro attività inquinanti, al fine di allungare il più possibile i tempi della fuoriuscita da carbone, petrolio e gas e usando come grimaldello per i loro interessi la questione dei posti di lavoro nelle filiere fossili inquinanti. Le stesse associazioni imprenditoriali e le corporation che sostenevano la necessità di chiudere impianti e delocalizzare per competere, di fronte alla crisi climatica si scoprono accaniti difensori del valore sociale e professionale del lavoro nei territori da cui traggono profitti, chiedendo nel contempo una sponda nel sindacato. Capisco come la situazione non sia facile e le cose non siano limpide, ma la posta è troppo alta perché il ricatto ricada su tutti sotto la veste di un interesse di pochi.

I tempi si avvicinano più di quanto si prevedesse e l’attacco è già in corso. Il governo polacco ha ottenuto a Katowice un’ambigua dichiarazione (Solidarity and Just Transition Silesia) per ottenere con l’appoggio di 49 delegati una marcia più lenta rispetto agli accordi internazionali nell’abbandono del carbone. La Commissione Ue è alle prese con un protocollo di sostegno all’industria del carbone e alla siderurgia nei paesi dell’Europa centrale e orientale che hanno chiesto di aderire all’Ue. In entrambi i casi non c’è ombra di organizzazioni sindacali, ancora prede forse delle storiche contraddizioni tra ambiente e lavoro. Basta rammentare quanto sia preveggente la posizione dei metalmeccanici piemontesi a fianco delle ragioni degli abitanti della Val di Susa e quanto imprudente sia l’annuncio di uno sciopero dei lavoratori impegnati nelle grandi opere, senza distinzione della loro utilità e del loro impatto ecologico, da parte del sindacato nazionale degli edili. Temi vecchi e nuovi su cui dibattere, non privi della massima urgenza, per non trascurare l’ineluttabilità di quanto accade in atmosfera e non cedere alla favola che la salute climatica la debbano pagare i lavoratori e i più indigenti.

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Auto ed ecotasse /2 – Imporre balzelli non serve a ‘fare cassa’ ma a educare alla sostenibilità

Nel post precedente si è accennato all’evoluzione futura dei veicoli a ruota motorizzati. Si tratta di un’evoluzione imposta dall’impatto climatico, che può essere accompagnata da provvedimenti fiscali congruenti. Il regime fiscale che si applica alle motorizzazioni che inquinano e emettono climalteranti non ha il compito di “fare cassa”, ma di accelerare una strategia di rapida decarbonizzazione a favore della salute e del clima, anche contro l’inerzia e le convenienze immediate delle industrie dell’auto. La funzione fiscale rappresenta il più vecchio e il più importante compito delle tasse, giacché concentra fondi in bilanci pubblici per finanziare beni comuni (salute e clima in questo caso) e tutelare le fasce dei cittadini più indifesi. Nel nostro caso, infatti, occorre impedire che i meno abbienti e gli occupati nel settore della mobilità vengano puniti da cambiamenti di rotta indispensabili, ma, essendone spesso vittime, ne traggano benefici in salute e utilità sociali.

Già fino alla crisi attuale ci sono stati – e se ne sa poco perché sono occultati dai grandi interessi monopolisti – vincitori indiscussi nel sistema fiscale applicato ai carburanti e agli operatori della mobilità. Basterebbero per tutti i favori pluridecennali elargiti alla Fiat nel nostro Paese o quelli ancor oggi dovuti nell’Ue al mantenimento del tasso minimo di tassazione del gasolio (dal momento che i camion nel traffico internazionale effettuano sistematicamente deviazioni per riempire i serbatoi nei Paesi in cui l’imposta sul carburante è più bassa) o, ancora, alla completa detassazione del carburante utilizzato nell’aviazione internazionale (32 miliardi di esenzioni!) e nella navigazione.

La tassa ambientale all’acquisto (malus) è concepita per svolgere una funzione di “riparazione a priori”, con un effetto educativo perché induce una percezione di nocività e uno correttivo al fine di limitare la diffusione di mezzi più inquinanti. Nella sua versione incentivante (bonus) il fisco dovrebbe svolgere invece una funzione di stabilizzazione della sostenibilità all’interno della società. Ma, una volta definiti sommariamente gli scopi, bisogna entrare nella complessità del problema per dare una risposta esauriente al problema del trasporto, estendendo il bilancio all’intero ciclo e passando per l’alimentazione dei veicoli e le infrastrutture su cui viaggiano.

Nel 2012, quando la media delle emissioni della CO2/km delle nuove auto era 135 g, la Ue aveva fissato limiti per le auto nuove entro 120 g per il 2015 e 95 g entro il 2020. Nel frattempo, le emissioni medie di CO2 delle autovetture nuove sono diminuite costantemente, passando da 170 g di CO2/km nel 2001 a 118 g di CO2/km nel 2016, con un tasso annuo di riduzione del 2%. Sarà necessaria un’ulteriore riduzione del 19,5% delle emissioni medie di CO2 per rispettare l’obiettivo 2021 di 95 g CO2/km (27% al di sotto dell’obiettivo del 2015). Tutto bene? No, poiché il trend di riduzione risulta troppo lento, oltre a essere aggravato dal maggior peso medio delle vetture prodotte, quasi sempre riempite dal solo guidatore che si muove nel traffico urbano a non più di 19km/h.

Penso che si debba allargare il campo di valutazione. Le domande cui rispondere sono tutte collegate e da prendere nella loro complessa coerenza: quali soluzioni contribuiscono a rendere effettivamente “sostenibile” il sistema della mobilità; quali fonti energetiche, quali tecnologie di trasformazione, quali vettori energetici o combustibili, quali sistemi di trazione sono più promettenti; quali iniziative, coerenti con le strategie definite in tema di energia e mobilità, vanno intraprese per concorrere al mantenimento dell’occupazione in attività industriali, servizi, ricerca e infrastrutture; come governare pubblicamente e non solo dal mercato lo sviluppo del progetto.

Le risposte non sono affatto usuali e provo ad avanzarne alcune in veste discriminante: assumere la sostenibilità della mobilità come “prodotto” per un mercato reale, non indotto, tenuto a misurarsi con il carattere sistemico delle molteplici implicazioni – ambientali, territoriali, politiche – di un prodotto socialmente desiderabile; stabilire nell’elettricità e nell’idrogeno da rinnovabili gli elementi risolutivi delle politiche energetiche e per la mobilità; privilegiare, soprattutto sul versante produttivo, le iniziative che consentano di ottenere risultati a breve e, nel contempo, favorire la transizione verso i traguardi strategici individuati (ibridi in particolare); fare leva sulle sinergie tra attività di ricerca e industria per sostenere la competitività del sistema industriale nel suo complesso e determinare le condizioni per la creazione di attività manifatturiere innovative; “aprire” il progetto, coinvolgendo fattivamente tutti gli attori che a esso possono contribuire e istituendo ambiti e procedure di governance adeguati alla complessità dei processi innescati e delle reti di relazioni attivate.

Dall’inizio è bene centrare gli incentivi sulle emissioni, introducendo un criterio sociale per cui si fa pagare meno a chi ha un reddito più basso e prevedendo un bonus rottamazione che premi chi rottama le vecchie auto inquinanti. Ma non basterà l’obbligo di investire in trasporto pubblico come asse indispensabile di una mobilità sostenibile che non è più centrata sul veicolo a proprietà individuale.

A questo punto, ci si potrebbe chiedere se esiste uno scenario in cui inquadrare l’intera questione energia-clima, trasporti compresi. Esiste in effetti una forma di tassa molto più efficiente di quelle qui contemplate e non riferita al consumatore finale. Per mantenere l’aumento della temperatura media globale ben al di sotto dei due gradi, come indicato dal rapporto Ipcc a Katowice, va presa in considerazione la proposta avanzata nel gennaio 2013 da Hansen, per cui alle compagnie che operano nel campo dei combustibili fossili verrebbe addebitata una tassa sul carbonio imposta alla sorgente, al pozzo minerario o al punto d’ingresso, distribuendo mensilmente il 100% delle entrate riscosse, a titolo di dividendo, alla popolazione, su una base pro capite.

Ciò sarebbe accompagnato dall’eliminazione delle attuali sovvenzioni all’industria dei combustibili fossili. Se si vuole, un autentico reddito di cittadinanza finalizzato al lavoro, alla riduzione dell’orario, alla salvaguardia del clima, alla sopravvivenza nel pianeta. E, questione importante, rivolto a fini distributivi verso la popolazione indigente, che ha un’impronta ecologica minore rispetto alla popolazione più ricca.

Sull’insieme di queste riflessioni è bene riflettere e non raffazzonare e portare all’approvazione di un Parlamento esautorato articoli di legge sillabati all’ultimo minuto: non si può – come ha detto la Fiom – “imboccare la strada sbagliata, investendo milioni di euro della collettività per pochi privati a cui scontare con un bonus l’acquisto dell’auto elettrica e invece scaricare sui cittadini che, non potendo acquistare l’elettrico, sono condannati a pagare un’imposta aggiuntiva che farebbe lievitare il costo del veicolo”.

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