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Auto ed ecotasse /2 – Imporre balzelli non serve a ‘fare cassa’ ma a educare alla sostenibilità

Nel post precedente si è accennato all’evoluzione futura dei veicoli a ruota motorizzati. Si tratta di un’evoluzione imposta dall’impatto climatico, che può essere accompagnata da provvedimenti fiscali congruenti. Il regime fiscale che si applica alle motorizzazioni che inquinano e emettono climalteranti non ha il compito di “fare cassa”, ma di accelerare una strategia di rapida decarbonizzazione a favore della salute e del clima, anche contro l’inerzia e le convenienze immediate delle industrie dell’auto. La funzione fiscale rappresenta il più vecchio e il più importante compito delle tasse, giacché concentra fondi in bilanci pubblici per finanziare beni comuni (salute e clima in questo caso) e tutelare le fasce dei cittadini più indifesi. Nel nostro caso, infatti, occorre impedire che i meno abbienti e gli occupati nel settore della mobilità vengano puniti da cambiamenti di rotta indispensabili, ma, essendone spesso vittime, ne traggano benefici in salute e utilità sociali.

Già fino alla crisi attuale ci sono stati – e se ne sa poco perché sono occultati dai grandi interessi monopolisti – vincitori indiscussi nel sistema fiscale applicato ai carburanti e agli operatori della mobilità. Basterebbero per tutti i favori pluridecennali elargiti alla Fiat nel nostro Paese o quelli ancor oggi dovuti nell’Ue al mantenimento del tasso minimo di tassazione del gasolio (dal momento che i camion nel traffico internazionale effettuano sistematicamente deviazioni per riempire i serbatoi nei Paesi in cui l’imposta sul carburante è più bassa) o, ancora, alla completa detassazione del carburante utilizzato nell’aviazione internazionale (32 miliardi di esenzioni!) e nella navigazione.

La tassa ambientale all’acquisto (malus) è concepita per svolgere una funzione di “riparazione a priori”, con un effetto educativo perché induce una percezione di nocività e uno correttivo al fine di limitare la diffusione di mezzi più inquinanti. Nella sua versione incentivante (bonus) il fisco dovrebbe svolgere invece una funzione di stabilizzazione della sostenibilità all’interno della società. Ma, una volta definiti sommariamente gli scopi, bisogna entrare nella complessità del problema per dare una risposta esauriente al problema del trasporto, estendendo il bilancio all’intero ciclo e passando per l’alimentazione dei veicoli e le infrastrutture su cui viaggiano.

Nel 2012, quando la media delle emissioni della CO2/km delle nuove auto era 135 g, la Ue aveva fissato limiti per le auto nuove entro 120 g per il 2015 e 95 g entro il 2020. Nel frattempo, le emissioni medie di CO2 delle autovetture nuove sono diminuite costantemente, passando da 170 g di CO2/km nel 2001 a 118 g di CO2/km nel 2016, con un tasso annuo di riduzione del 2%. Sarà necessaria un’ulteriore riduzione del 19,5% delle emissioni medie di CO2 per rispettare l’obiettivo 2021 di 95 g CO2/km (27% al di sotto dell’obiettivo del 2015). Tutto bene? No, poiché il trend di riduzione risulta troppo lento, oltre a essere aggravato dal maggior peso medio delle vetture prodotte, quasi sempre riempite dal solo guidatore che si muove nel traffico urbano a non più di 19km/h.

Penso che si debba allargare il campo di valutazione. Le domande cui rispondere sono tutte collegate e da prendere nella loro complessa coerenza: quali soluzioni contribuiscono a rendere effettivamente “sostenibile” il sistema della mobilità; quali fonti energetiche, quali tecnologie di trasformazione, quali vettori energetici o combustibili, quali sistemi di trazione sono più promettenti; quali iniziative, coerenti con le strategie definite in tema di energia e mobilità, vanno intraprese per concorrere al mantenimento dell’occupazione in attività industriali, servizi, ricerca e infrastrutture; come governare pubblicamente e non solo dal mercato lo sviluppo del progetto.

Le risposte non sono affatto usuali e provo ad avanzarne alcune in veste discriminante: assumere la sostenibilità della mobilità come “prodotto” per un mercato reale, non indotto, tenuto a misurarsi con il carattere sistemico delle molteplici implicazioni – ambientali, territoriali, politiche – di un prodotto socialmente desiderabile; stabilire nell’elettricità e nell’idrogeno da rinnovabili gli elementi risolutivi delle politiche energetiche e per la mobilità; privilegiare, soprattutto sul versante produttivo, le iniziative che consentano di ottenere risultati a breve e, nel contempo, favorire la transizione verso i traguardi strategici individuati (ibridi in particolare); fare leva sulle sinergie tra attività di ricerca e industria per sostenere la competitività del sistema industriale nel suo complesso e determinare le condizioni per la creazione di attività manifatturiere innovative; “aprire” il progetto, coinvolgendo fattivamente tutti gli attori che a esso possono contribuire e istituendo ambiti e procedure di governance adeguati alla complessità dei processi innescati e delle reti di relazioni attivate.

Dall’inizio è bene centrare gli incentivi sulle emissioni, introducendo un criterio sociale per cui si fa pagare meno a chi ha un reddito più basso e prevedendo un bonus rottamazione che premi chi rottama le vecchie auto inquinanti. Ma non basterà l’obbligo di investire in trasporto pubblico come asse indispensabile di una mobilità sostenibile che non è più centrata sul veicolo a proprietà individuale.

A questo punto, ci si potrebbe chiedere se esiste uno scenario in cui inquadrare l’intera questione energia-clima, trasporti compresi. Esiste in effetti una forma di tassa molto più efficiente di quelle qui contemplate e non riferita al consumatore finale. Per mantenere l’aumento della temperatura media globale ben al di sotto dei due gradi, come indicato dal rapporto Ipcc a Katowice, va presa in considerazione la proposta avanzata nel gennaio 2013 da Hansen, per cui alle compagnie che operano nel campo dei combustibili fossili verrebbe addebitata una tassa sul carbonio imposta alla sorgente, al pozzo minerario o al punto d’ingresso, distribuendo mensilmente il 100% delle entrate riscosse, a titolo di dividendo, alla popolazione, su una base pro capite.

Ciò sarebbe accompagnato dall’eliminazione delle attuali sovvenzioni all’industria dei combustibili fossili. Se si vuole, un autentico reddito di cittadinanza finalizzato al lavoro, alla riduzione dell’orario, alla salvaguardia del clima, alla sopravvivenza nel pianeta. E, questione importante, rivolto a fini distributivi verso la popolazione indigente, che ha un’impronta ecologica minore rispetto alla popolazione più ricca.

Sull’insieme di queste riflessioni è bene riflettere e non raffazzonare e portare all’approvazione di un Parlamento esautorato articoli di legge sillabati all’ultimo minuto: non si può – come ha detto la Fiom – “imboccare la strada sbagliata, investendo milioni di euro della collettività per pochi privati a cui scontare con un bonus l’acquisto dell’auto elettrica e invece scaricare sui cittadini che, non potendo acquistare l’elettrico, sono condannati a pagare un’imposta aggiuntiva che farebbe lievitare il costo del veicolo”.

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Auto ed ecotasse /1 – La rivoluzione nei trasporti è già in atto. E a pagarla non saranno i meno ricchi

Adesso che alla Cop 24 di Katowice tutto è andato come purtroppo si temeva, gli abitanti del pianeta delusi – a partire dagli europei – devono abbandonare quell’apatia nei confronti del cambiamento climatico che permette ai governanti di essere sconsideratamente negazionisti e di accreditare la frottola che le misure ambientali penalizzerebbero l’economia e le fasce meno abbienti. Il governo italiano non fa che accreditare di fatto un’impostazione tanto spudorata: Matteo Salvini e Luigi Di Maio, all’ombra del loro stravagante “contratto” e di baratti rabberciati all’ultimo minuto, sviano continuamente l’attenzione dai problemi reali e dalla possibilità di far crescere una coscienza matura. È quel che sta avvenendo sul nodo della necessaria decarbonizzazione dell’economia, mentre i vicepremier duellano il mattino per rappacificarsi la sera. Come è successo per la Tap, anche sulle ecotasse sembra proibito poter discutere e confrontarsi e i problemi vengono accantonati in cambio di un disorientamento generale, che consente alla Lega di rinforzare gli steccati di un sovranismo tanto impotente quanto discriminatorio.

Senza tener conto che occorre una programmazione politica dal lungo respiro per affrontare la sfida europea e mondiale della decarbonizzazione dei trasporti, con le schermaglie su improvvisati provvedimenti fiscali per l’auto – chiamati “ecotasse” per scandalizzare Fca e allarmare qualche benpensante – si è cercato di far credere che la difesa dell’ambiente sia un lusso che devono pagare i lavoratori e i meno ricchi. Al contrario, le questioni dell’impatto sulla mobilità, sull’occupazione, sul reddito, sulla salute e sul clima del superamento del motore a scoppio (che è la vera ragione per una politica fiscale sulle motorizzazioni) merita ben altra informazione e ben altro dibattito rispetto a quello che ci viene propinato.

In questa prima nota affronto il problema della rivoluzione nel sistema dei trasporti, già in atto, per poi discutere nel prossimo post la questione della carbon tax entro cui collocare la cosiddetta ecotassa, e prendere in considerazione le ricadute sociali a essa collegate.

Che il motore a scoppio – a benzina o gasolio – non faccia bene lo sa chiunque si sia avvicinato a un tubo di scappamento. La sua massiccia diffusione nell’ambiente in cui viviamo produce sia effetti cancerogeni, dovuti principalmente a polveri sottili, sia un contributo all’aumento di temperatura dovuto alle simultanee emissioni di CO2. Dato che la mobilità, anche se porta inconvenienti alla salute, è un diritto cui difficilmente si rinuncia, programmarne il futuro è questione di natura ancor più sociale che puramente economica. Siamo di fronte a sfide inedite su cui vengono giudicati i governi, come è il caso di tutti i Paesi sviluppati e come testimonia la vicenda dei gilet gialli francesi, che ha messo in luce tutti i rischi di un intervento autoritario in materia di tasse, mobilità e tutela ambientale.

Se partiamo da considerazioni su inquinamento e clima, dobbiamo avere presente che il diesel è più pericoloso per i suoi effetti cancerogeni (anche se i veicoli a benzina sono tutt’altro che esenti da conseguenze nefaste), mentre per il clima la maggior perniciosità dei due carburanti si viene a invertire. Tutto sommato, non dà granché risultati rimpiazzare un motore a combustione con l’altro (benzina al diesel), tranne che nel traffico cittadino dove si concentrano le polveri sottili. Affidare sostanzialmente all’abbandono del diesel il superamento della crisi del binomio (auto individuale + petrolio) è ingannevole. A cominciare dal fatto che un barile di petrolio (159 litri) finito in raffineria produce vari composti fra cui, per più di metà, benzina e gasolio per autotrazione, l’una e l’altro destinati al trasporto delle persone e delle merci, con quest’ultime che viaggiano su ruote con motorizzazioni esclusivamente diesel.

Allora è il motore a combustione in generale che manifesta il suo limite, dato che per ogni litro di carburante consumato vengono emessi circa 2,5 chilogrammi di CO2 (media sommaria fra i vari tipi di carburante, Gpl e metano compresi). Non c’è dubbio che il motore a scoppio (compreso quello alimentato a metano) andrà progressivamente sostituito con altre tipologie di motorizzazioni e combustibili che non producano effetti climalteranti.

La riconversione verso l’elettrico dei veicoli su gomma è una soluzione di prospettiva. Considerando l’intero ciclo “dal pozzo alla ruota” (well to wheels), il motore elettrico (alimentato a batteria o rifornito a idrogeno con pile a combustibile) non può che essere il terminale di un sistema diffuso di trasformazione e stoccaggio di vettori (elettricità o idrogeno) prodotti da fonti rinnovabili, per non comportare effetti perniciosi sul clima. Verso la definitiva decarbonizzazione, va incentivato lo sviluppo di tecnologie che migliorino il rendimento dei motori e le loro emissioni, con la combinazione di motore a scoppio e generatore di corrente (veicoli ibridi), riorganizzando le stazioni di servizio con la disposizione di colonnine di ricarica.

Qui un’ultima ma decisiva valutazione: la congestione spaziale, lo spreco e l’accumulo di rifiuti provocata dalle auto a proprietà individuale mette un freno all’entusiasmo per la soluzione enfatizzata dell’auto elettrica a guida automatica: forse l’escamotage più accattivante con cui le case automobilistiche possono rilanciare il mercato sotto la forma di status symbol per benestanti. Il motore elettrico è sì uno sconvolgimento del panorama attuale, ma ci si deve assicurare che eventuali benefici siano condivisi da tutti e che nessuno rimanga indietro. Ma se vogliamo letteralmente sopravvivere avendo cura del pianeta, non possiamo che ridurre il consumo di mobilità su mezzi individuali. Di questo e del regime fiscale con cui accelerare la transizione tratteremo nel prossimo post.

[continua…]

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Clima, l’accordo di Parigi ha clamorosamente fallito

Al posto del carbone: gas o rinnovabili? In un editoriale su Il Messaggero del 4 dicembre, Romano Prodi definiva una svolta storica la firma di 196 Paesi all’accordo di Parigi 2015 sul clima, che prevedeva severi obiettivi e misure concrete per la riduzione della CO2 auspicata da tutti, Cina e Stati Uniti compresi. Tre anni dopo, a Katowice per la Cop 24, quegli stessi firmatari possono annunciare un clamoroso quanto angosciante fallimento. Le convenienze economiche hanno prevalso sugli impegni politici e il limite di 1,5° C di aumento della temperatura sembra allontanarsi.

L’escamotage degli inquinatori per aggirare i patti siglati, sta nel sostituire allo “sporco” carbone il finto “salvagente” del gas fossile, come se i naufraghi in vista della tempesta scampassero per magia, aggrappandosi a una ciambella bucata. Bruciare gas comporta un po’ meno emissioni dell’equivalente in carbone, ma è pur sempre un’aggiunta di climalteranti in atmosfera. Non doveva essere questa la via d’uscita dall’allarme climatico certificato da tutti gli scienziati, ma i corposi interessi del sistema centralizzato delle fonti fossili ha suggerito trucchi adeguati per continuare a legittimarsi agli occhi dei cittadini distratti. I negazionisti climatici hanno così estratto un “jolly” fasullo, tenuto nella manica, per calarlo sul tavolo a partita aperta. Una carta decisamente differente dagli assi indicati a Parigi per frenare l’aumento di temperatura e, invece, paragonabile a un due di picche, quale è la sostituzione del gas al posto del carbone. Bene, seguendo la metafora, andiamo allora a vedere il mazzo intero, per capire come mai tutti, governi e cittadini, si dichiarano disposti al cambiamento, ma alcuni non ne vogliono pagare il prezzo.

1. La domanda di energia si sposta verso Oriente

Lo scenario in termini di domanda globale di energia sta cambiando profondamente. Se solo nel 2000 Europa e Nord America rappresentavano il 40% della domanda mondiale e l’Asia il 20%, da qui al 2040 questa situazione si invertirà. Se solo 15 anni fa, le società elettriche europee erano le protagoniste nella top ten mondiale, ora sei delle prime dieci sono utility cinesi. Inoltre, la composizione del mix energetico globale vedrà salire la quota di rinnovabili dall’attuale 25% a oltre il 40% nel 2040, non comunque abbastanza da impedire a gas+carbone di rimanere la fonte principale. Come vedremo avanti, non a causa delle arretratezze degli asiatici, ma per la pressione formidabile che lo shale gas statunitense, tenuto a basso prezzo, impone sul mercato delle importazioni in Europa e in Asia.

2. Le fonti fossili crescono

Un quadro significativo di quanto accade e probabilmente accadrà lo offre l’International Energy Agency (Iea) attraverso il World Energy Outlook 2018. “Nei mercati dell’energia, le rinnovabili sono ormai diventate la tecnologia preferita, costituendo quasi due terzi delle capacità globali aggiuntive al 2040, grazie al calo dei costi e all’aumento della domanda derivante dall’economia digitale, dai veicoli elettrici e da altri cambiamenti tecnologici”. Secondo la Iea, il prossimo scenario energetico dipenderà dalle scelte politiche governative in tema di limitazione delle emissioni di CO2. Ma dopo Parigi si è fatto ben poco: dopo due anni sostanzialmente stabili, la CO2 è cresciuta dell’1,6% nel 2017 e i primi dati suggeriscono un aumento continuo nell’anno in corso. Il gas naturale è il maggior responsabile della loro crescita.

Nel 2017 gli investimenti energetici globali sono arrivati a 1,8 trilioni di dollari con un calo del 2% sul 2016, ma “dopo diversi anni di crescita, gli investimenti mondiali nelle rinnovabili sono calati del 7% nel 2017 rispetto all’anno precedente e gli investimenti globali combinati nelle energie rinnovabili e nell’efficienza energetica sono diminuiti del 3% nel 2017 e stanno rallentando ulteriormente nel 2018. Ciò a differenza degli investimenti in fonti fossili, che lo scorso anno sono saliti per la prima volta dal 2014, a 790 miliardi di dollari, contro i 318 miliardi delle rinnovabili. Il mattatore lo fa il gas naturale. Lo rivela l’ultimo studio World Energy Investment 2018  dell’Iea che definisce “preoccupante” un andamento che mette a rischio la sicurezza energetica e gli obiettivi di taglio all’inquinamento.

3. Lo spostamento verso l’elettricità

Il settore dell’elettricità sta vivendo, secondo la Iea, la sua trasformazione più drammatica dalla sua nascita più di un secolo fa. “Nel 2017 il settore elettrico ha attratto la maggior parte degli investimenti energetici, sostenuto da una forte spesa per le reti, superiore perfino a quella dell’industria petrolifera e del gas per il secondo anno consecutivo. L’energia elettrica è sempre più il “carburante” prescelto nelle economie che si affidano in modo crescente a settori industriali più leggeri e a servizi e tecnologie digitali”. La sua quota in termini di consumi finali a livello mondiale sta raggiungendo il 20% ed è destinata a salire. L’impatto dell’elettrificazione nei trasporti, negli edifici e nell’industria è una caratteristica irreversibile. L’elettrificazione apporta benefici, in particolare riducendo l’inquinamento, ma richiede ulteriori misure per decarbonizzare l’alimentazione elettrica.

4. E qui rispunta il gas

Le decisioni finali di investimento per le centrali a carbone da costruire nei prossimi anni sono diminuite per il secondo anno consecutivo, raggiungendo un terzo del livello del 2010. Tutto bene? Niente affatto, perché sull’altro fronte fossile il miglioramento delle prospettive per il settore statunitense dello shale gas sta lanciando questo prodotto in tutti i continenti. Con una base finanziaria più solida e sostenuto dal proprio governo, si è trasformato nel maggior concorrente mondiale nel mercato dei fossili con una produzione che, a dispetto dei danni sull’ambiente, sta crescendo al ritmo più veloce mai registrato.

Le compagnie e i governi sono alla ricerca continua di fonti fossili ancora intatte e a minimi costi concorrenziali, in barba alle preoccupazioni per la temperatura della Terra. La produzione di shale gas statunitense, che si è già espansa a un ritmo record, dovrebbe raggiungere più di 10 milioni di barili al giorno da oggi al 2025. Sarebbe come aggiungere una seconda Russia alla fornitura globale in sette anni, un’impresa storicamente senza precedenti. Per queste ragioni Trump ripudia Parigi e spedisce alla Cop 24 di Katowice autentiche comparse non certo dotate di poteri. Intanto, qui da noi, drammi o commedie si trasformano sempre in farsa. Governi, industriali, giornali e “madamine” di balzacchiana riesumazione duellano con le popolazioni locali sulla Tav e sulla Tap e si genuflettono alle “grandi opere” senza distinzione alcuna. Ci verranno mai a dire con quale impronta ecologica e con quale combustibile inquinante le faranno funzionare?

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Macron chiuderà 14 reattori nucleari entro il 2035. Una mossa d’immagine o molto di più?

Il cambiamento climatico è il tipo di minaccia di cui le nostre menti non sono in grado di preoccuparsi. Sembra distante e che possa accadere nel futuro e ad altre persone: è invece tempo che il pubblico si convinca della rilevanza e dell’urgenza del problema. Arrivare a occuparsene a tempo scaduto e con una situazione irrimediabile e pericolosa ci ridurrebbe a subire limitazioni e imposizioni d’emergenza, con danno della libertà e della democrazia. Lo ripetono i climatologi di tutto il mondo, ma non è un problema per il trio ConteSalviniDi Maio, tutto intento a respingere migranti. Eppure se ne è accorto Emmanuel Macron e se ne sta capacitando la Francia, dove è andato in scena il primo atto di una rappresentazione in cui finale e repliche sono imprevedibili.

Ridurre le emissioni richiede che le persone confidino in autorità competenti, oneste e giuste e che tengano conto, quando decidono, di tutte le opinioni. Le barricate dei “gilet gialli” contro il caro gasolio, calato da un governo assai poco credibile dopo che aveva imposto duri colpi sul versante sociale (Macron era sceso al 25% di gradimento quando sono scoppiati i disordini), hanno indotto il presidente a fare un tentativo un po’ maldestro di recuperare un’immagine di ingiustizia sociale con un po’ più di giustizia climatica. La questione energetica giocata di fronte alla piazza è così balzata all’onore delle cronache, pur con un carico di ambiguità che analizziamo prima di trarne qualche insegnamento.

L’aumento del gasolio alla pompa era stato presentato ai francesi come misura per ridurre le emissioni climalteranti e l’inquinamento. Dopo giorni di proteste a volte violente per i prezzi elevati dell’energia, Macron ha proposto un meccanismo per rivedere la tassa sul carburante nel caso di aumento dei prezzi del petrolio sul mercato globale. Barcamenandosi tra condanna dei “facinorosi” e comprensione dei “concittadini”, ha anche avanzato l’offerta di tre mesi di consultazione con i gruppi di attivisti e associazioni, sia per scoraggiare le manifestazioni sia per “trovare il modo migliore per gestire i crescenti costi energetici”.

Ma da dove vengono i costi più alti dell’energia fossile e nucleare se non dalle crescenti preoccupazioni per la tutela dell’ambiente, del clima e della salubrità della popolazione? Il 27 novembre Macron ha fatto, più o meno coscientemente, un passo di grande rilievo, forse non voluto, ma altamente significativo: ha disegnato la transizione energetica dal vecchio sistema centralizzato fossile e nucleare verso il decentramento della rete elettrica, alimentata in gran parte da sole, acqua e vento. L’annuncio ha invaso i media di tutto il mondo: “Entro il 2035 chiuderanno 14 reattori nucleari”. Un botto, visto che la Francia dipende dall’energia nucleare più di qualsiasi altro Paese, ricavando circa tre quarti della sua elettricità da 58 reattori distribuiti in 19 centrali atomiche. Un botto subito messo in relazione alla necessità di stoppare la vicenda dei “giubbetti gialli”. Tuttavia la cronaca e le reazioni, sotto una pluralità di punti di vista, mentre ridimensionano l’annuncio lo arricchiscono di molte varianti interessanti, anche se contraddittorie.

François Hollande aveva già dichiarato che la quota di nucleare nel mix energetico del Paese sarebbe scesa dal 71% circa al 50% entro il 2025. Lo afferma Emiliano Bellini, che descrive l’iter dei governanti francesi rispetto al moloch del nucleare. Il successivo ministero per la transizione ecologica e inclusiva (macroniano) ha previsto la chiusura di sole sei centrali nucleari entro il 2028, mentre altri sei reattori nucleari verrebbero chiusi entro il 2035. In questo progetto l’obiettivo del 50% verrebbe raggiunto più tardi del previsto e, in teoria, la quota di energia nucleare potrebbe rimanere invariata fino al 2028. Si tratta dello scenario più ottimistico per lo sviluppo di energia pulita, perché invece il ministero delle Finanze (anch’esso macroniano) prevede la chiusura di nove reattori entro il 2035 e la costruzione di quattro nuovi entro il 2040. L’obiettivo del 50% sarebbe raggiunto solo entro il 2040 con un contemporaneo svecchiamento e rilancio.

Macron si è mosso tra i due ministeri, trovando una posizione di mezzo: la Francia chiuderà 14 dei 58 reattori (il 50% della potenza totale) attualmente in funzione nel Paese entro il 2035 (tra quattro e sei entro il 2030), oltre ai due della centrale di Fessenheim – la più vecchia del Paese – che cesseranno di funzionare nell’estate del 2020. L’eredità di Hollande, sposata in campagna elettorale dal nuovo presidente, viene – quatta quatta – spostata di dieci anni in avanti. Le affermazioni di contorno poi, vanno lette con cura: “Ridurre il ruolo dell’energia nucleare non significa rinunciarvi”, anche se non verrà adottata nessuna decisione immediata sulla costruzione di nuovi reattori di ultima generazione. Tuttavia le chiusure previste avranno come condizioni che “la sicurezza degli approvvigionamenti sia assicurata” e che “i vicini europei accelerino la loro transizione energetica”. Macron ritarda la riduzione della quota nucleare di un decennio, ma, altro botto, annuncia un obiettivo solare di 45 GW entro il 2030.

Bisogna riconoscere subito un’importante novità: le fonti rinnovabili previste sono sostitutive di fossili e nucleare, anche se la Francia manterrà una quota di nucleare al centro del suo sistema elettrico. Tanti sono gli spunti su cui riflettere, mentre molto del nuovo strombazzato sulla piazza ha ancora un tratto aleatorio. Su tre questioni mi voglio comunque soffermare:

1. Il nucleare che conosciamo è finito anche in Francia. I reattori invecchiano, i costi di dismissione e stoccaggio sono incomputabili, mentre il costo del kWh rinnovabile è ormai definitivamente inferiore.

2. La questione climatica comincia ad assumere contorni che pesano sul quotidiano, non solo per i danni e il degrado naturali, ma anche per i costi da sopportare nell’immediato e nel lungo periodo. Il mondo rurale che usa l’auto a caro prezzo e gli indigenti che reclamano salari e pensioni più equi sono scesi in piazza reclamando maggiore potere d’acquisto e occupazione dignitosa. Gli uni e gli altri non credono che l’odierno modello di sviluppo inalterato li porti lontano.

3. Il settore nucleare francese dispone oggi di 220mila posti di lavoro. Da qui al 2035 la metà di essi verrà riconvertita con un saldo occupazionale aggiuntivo se saranno sostituiti da efficienza e rinnovabili. Lo stesso non si può automaticamente dire dei rami manifatturieri che saranno falcidiati dai sistemi 4.0.

Arnaud Gosseement, un noto avvocato specializzato in legislazione ambientale, dopo aver apprezzato la chiusura certa di Fessenheim ai confini tedeschi, ha affermato che l’importanza degli annunci del 27 novembre è relativa, in quanto forniscono solo linee guida generali su una bozza di strategia energetica. Può darsi, ma io segnalo una discriminante rispetto al passato, dovuta ai fatti e alle novità del tempo assai più che alle furbizie politiche.

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Tap, per dire no bastava scegliere di ridurre i consumi

di Mario Agostinelli e Roberto Meregalli

Ci sono elementi che da sempre sono stati considerati alla base di una buona politica energetica: la diversificazione delle fonti, la riduzione della dipendenza dalle forniture estere e, nell’ambito della fornitura di fonti fossili, la diversificazione dei fornitori per non essere ostaggio di nessuno. Elementi fondamentali per un Paese come l’Italia, affamato di energia, ricca di fonti naturali, ma senza grandi giacimenti di petrolio e gas fossili. La progressiva incidenza delle Fer e la riduzione dell’intensità energetica hanno contribuito, negli ultimi anni, alla riduzione della dipendenza del nostro Paese dalle fonti di approvvigionamento estere. La quota di fabbisogno energetico nazionale soddisfatta da importazioni nette rimane elevata (pari al 76,5%) ma più bassa di circa sei punti percentuali rispetto al 2010. Quindi, generazione da Fer ed efficienza energetica sono le migliori armi per ridurre la dipendenza dall’estero e aumentare la propria indipendenza. Una considerazione banale ma troppo spesso trascurata.

Dopo un decennio di riduzione dei consumi energetici però, lo scorso anno, la domanda di energia primaria è tornata a crescere (+1,5% rispetto al 2016); e l’energia in più di cui abbiamo avuto bisogno è venuta soprattutto dal gas, il cui contributo al bilancio energetico nazionale è salito al 36,2%. 

Le rinnovabili, come segnalato in precedenti post, continuano a essere stazionarie, nel 2017 segnano un lievissimo aumento passando dal 19,1% al 19,2% del bilancio energetico nazionale, il resto è fossile. Di conseguenza, aumentando la domanda e non aumentando proporzionatamente le fonti Fer, il nostro grado di dipendenza dall’estero, è peggiorato.

Ma torniamo al gas. Nel 2017 la domanda di gas naturale è stata pari a 75,2 miliardi di metri cubi, con una crescita di circa 4,3 miliardi (+6,0%) rispetto ai 70,9 miliardi del 2016. Tale domanda è stata coperta per il 7% dalla produzione nazionale e per il 93% attraverso l’importazione. In particolare, la produzione nazionale di gas naturale è stata pari a 5,5 miliardi di metri cubi in riduzione del 4,3% rispetto al 2016, l’importazione è stata pari a 69,7 miliardi di metri cubi con un incremento del 6,7% rispetto al 2016. L’unico dato positivo da segnalare è che circa 9 milioni di metri cubi di gas sono stati prodotti dall’impianto di biometano di Montello (Bg).

Le importazioni via gasdotto sono state pari a 61 miliardi di metri cubi, ma dai nostri “tubi” con l’estero abbiamo una capacità di import pari a circa 114 miliardi di mc l’anno (Fonte Mise). Quindi molto più che sufficienti. Da dove è venuto l’aumento dei consumi? Soprattutto dalle centrali termoelettriche (2,5 miliardi di metri cubi in più (+10,5%). Quindi in sintesi la nostra scelta è di bruciare più gas per fare elettricità, piuttosto che installare più pannelli solari o pale eoliche. Questo dicono i numeri. Da quattro anni il numero dei nuovi pannelli installati è sufficiente solo a compensare il degrado di quelli installati dieci anni fa, mentre per centrare i target Ue al 2030 si dovrebbero installare in media 4 Gw di nuovi impianti all’anno, contro i 0,4 (400 Mw) che installiamo.

La scelta fossile è esplicitata dalle politiche: l’ok al Tap, anche da parte di chi lo ha sempre contestato a fronte di nessuna misura di incentivazione alle fonti rinnovabili è un messaggio chiaro. Dall’inizio di questa legislatura energia e clima sono sparite dal dibattito politico, azzerate. Eppure, per dire no al Tap non serviva alcuna analisi, bastava scegliere di ridurre i consumi decidendo di fare elettricità con sole, vento e terra. Se oggi abbiamo capacità di import pari quasi al doppio dei consumi basta decidere di non farli aumentare di più scegliendo di portare avanti quella rivoluzione energetica che il nostro Paese aveva iniziato anni fa, lasciandola poi languire negli ultimi anni. Ma, soprattutto, serviva scegliere di proteggere il clima, di far qualcosa non solo propagandistico di fronte alle coste devastate della Liguria o ai milioni di alberi morti nel bellunese o ai morti in Sicilia nell’ondata di maltempo che ha violentato alcune nostre terre.

Anche perché il metano è una delle molecole più climalteranti, molto peggio della CO2; l’Ipcc stima che sia responsabile del 20% del riscaldamento climatico e studi pubblicati anche sul prestigioso Nature hanno rivelato che il 2,3% del metano estratto riesce a “scappare” in atmosfera. Investire nel clima sarebbe stata l’occasione anche per investire soldi generando lavoro (in un anno “scarso” come il 2017 si stima comunque che alle attività legate alla realizzazione e gestione di nuovi impianti alimentati da Fer siano corrisposte circa 70mila unità di lavoro permanenti e 44mila temporanee), riducendo l’inquinamento dell’aria, avviando finalmente anche nel nostro Paese lo sviluppo della mobilità elettrica che deve andare di pari passo con l’aumento della generazione da fonti rinnovabili perché ne è complementare.

Il nostro è uno dei Paesi col più alto tasso di motorizzazione, cioè col rapporto più alto fra cittadini e numero di automobili: 62,4 auto ogni 100 abitanti, dato che ci pone al sesto posto della classifica mondiale. Quindi tanto lavoro da fare. Nei primi 10 mesi dell’anno sono state immatricolate 1.649.678 automobili, di cui elettriche pure solo 4.167, +150% rispetto al corrispondente periodo dello scorso anno ma comunque pari allo 0,3% del totale. Il precedente ministro delle attività produttive aveva annunciato un milione di auto elettriche entro il 2022. Ma rimane un annuncio, che nemmeno l’attuale ministro ha in qualche modo ripreso, mentre resta al palo la creazione di una rete nazionale di colonnine di ricarica, nelle mani al più delle iniziative delle singole imprese elettriche, che guardano al di là del naso del trio di governanti intenti a litigare e riappacificarsi subito dopo con grande dispendio di energia.

L’articolo Tap, per dire no bastava scegliere di ridurre i consumi proviene da Il Fatto Quotidiano.

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