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Clima, i ragazzi mi hanno fatto capire perché la loro mobilitazione conta tantissimo

Ogni volta mi faccio sorprendere dalla inconsueta freschezza con cui i miei nipoti elaborano una loro immagine del mondo, che acquisiscono attraverso una autentica “compressione” del trascorrere del tempo (sono istantaneamente in relazione con quanto accade ovunque). I battiti del loro orologio non sono identici a quelli del mio e me lo rivelano con le loro scoperte sulla natura, gli animali, le piante con cui convivono. Davvero hanno una percezione della loro presenza al mondo diversa da quella che avevo io alla loro età. So di affermare cose che ciascuno sperimenta, ma non vuole prendere in conto, fino a che si passa dall’osservazione del presente alle previsioni del futuro. Ci casco ogni volta, perché l’immagine che comunicano i miei nipoti ha quel carattere di novità che fa capire che tra la loro e la mia esperienza è passato del tempo: tanto più accelerato, quanto più ci si avvicina alla sensazione cosciente di un pianeta difficile da abitare da grandi.

Ho riprovato la stessa sensazione la mattina del 13 marzo in una affollata assemblea di studenti liceali in una grande sala di Busto Arsizio, in preparazione della mobilitazione di venerdì 15 marzo sul clima. Oltre trecento, attentissimi, nel ruolo di protagonisti, creativi nel loro esprimersi con video, cartelloni – persino una recita teatrale – e ben consci che per loro, al contrario che per me quando ero ragazzo, il tempo non si conta da qui in avanti, ma all’indietro: “Quanto manca a?” (al crescere del livello del mare oltre i frangiflutti che resistono da secoli, all’estendersi di zone aride anche nella fascia prealpina, all’indebolirsi del legame con il territorio già martoriato dall’inquinamento e reso inagibile alla mobilità proprio nelle ore in cui migliaia di auto, sempre più grandi e potenti, trasportano una mamma con un serbatoio di combustibile pieno ma con un solo bambino a bordo, verso i cancelli dell’istituto in cui andrà ad imparare…).

Questa generazione, con cui provo ad interagire parlando del clima e che frequenta la scuola con una facoltà di connessione attraverso la rete con tutte le fonti di informazione mai sperimentata fino ad ora, si sente dire che, se si continuerà a percorrere la strada dello sviluppo così come l’avevamo immaginata, al massimo avrà davanti a sé qualche nipote o pronipote, a meno che… E qui non c’è alcuna alzata di spalle. Anzi! Qualcuno ha detto: “Son passati 4 mesi da quando la totalità dei governi e delle genti del mondo ha saputo… non è cambiato nulla, nulla, ora tutti pensano a comprare il 5G e la crociera scontata del 70%… ma io fatico a dormire”. Riflessioni così autentiche e incontestate scuotono l’indifferenza che i negazionisti climatici cercano di imporci a qualsiasi costo. Anche quello di ritenere che non ci sia spazio per tutti sulla Terra e che rinchiudersi nei “nostri” territori, respingendo gli “invasori”, impedirebbe di diventare anche noi, prima o poi migranti a causa del precipitare del cambiamento climatico.

Ora che il negazionista per eccellenza, Donald Trump, è stato eletto presidente Usa ed è diventato il riferimento dei populisti identitari (alla globalizzazione contrappongono il localismo politico) di tutto il mondo, questi giovani rappresentano oggettivamente una novità. E’ significativo che, secondo un recente sondaggio, il 38% dei giovani Usa ritiene che si debbano considerare le conseguenze del riscaldamento del pianeta prima di decidere di fare figli. Se già oggi la crisi climatica presenta il conto di un modello insostenibile, lo scenario al 2050 si annuncia infatti catastrofico per chi allora sarà nel pieno della vita.

Mi sorprende allora questa lucidità che appartiene ai più giovani e capisco che la tempesta creata dallo scuotere di due treccine svedesi risolute non si placherà presto. La metafora delle conseguenze globali del battito d’ali di una farfalla sembra perfino misurato rispetto al possibile diffondersi del messaggio di Greta. Sul finire di un inverno insolitamente tiepido occorre chiedersi: l’Unione europea sarà in grado di fare la sua parte per contrastare il riscaldamento globale? Questa è la posta, forse la più importante, delle prossime elezioni, celata dalla gran parte dei media dietro l’inganno di regolare i conti ciascuno a casa propria, come se si potesse recintare il clima, che, per definizione, è questione sovranazionale! Stiamo cioè parlando dell’impegno dei governanti, di chi ci dovrebbe rappresentare, a diminuire l’emissione di anidride carbonica e altri gas a effetto serra rilasciati dalle centrali termiche, dai motori, dalle industrie, dai sistemi di trasporti, dai cementifici di tutto il continente. Di noi, della nostra economia e del nostro comportamento quotidiano, non delle paure che sono ad arte manipolate.

La mobilitazione dei giovani per incitare governi, ma anche famiglie ed amici, ad agire contro il cambiamento climatico conta tantissimo. Questo è stato detto e raccontato in una mattinata di riflessione comune in una provincia del Paese che si dà per assegnata ad una parte ben precisa nella stizzosa disputa tra i contraenti di un “contratto” che del clima non parla affatto. Anche per riflettere su questa distonia tra politica raccontata e società vissuta, ho voluto raccontare, quasi in diretta e con una modalità diversa da quella con cui ho sempre predisposto i miei post settimanali, un episodio che non resterà isolato – credo – dopo le manifestazioni del 15 marzo.

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Clima, Greta e i giovani spronano i burocrati Ue ad agire. Ma la guerra al carbone è ancora lunga

Per la settima settimana consecutiva, scolari e studenti belgi scioperano per il clima. Questa settimana sono affiancati da Greta Thunberg, la 16enne svedese dalle lunghe trecce che ha iniziato il movimento nel suo stesso Paese. Greta ha incontrato i suoi colleghi a Bruxelles e ha tenuto un discorso in presenza del presidente della Commissione Ue Jean Claude Juncker. Parafrasando il discorso dei burocrati dell’Europa ha detto: “Stiamo battendo a tappeto le scuole proprio perché noi i nostri compiti li abbiamo fatti!” Greta ha invitato i politici ad ascoltare con urgenza gli esperti del clima e insistito sul fatto che i ragazzi non stavano solo combattendo per il proprio futuro “ma per quello di ogni corpo”.

C’è un’enorme distanza tra l’“esposizione” del proprio corpo, del “vivente”, come ostenta Greta – la stessa incompatibilità dello studiare senza occuparsi dell’emergenza del futuro alle porte – e l’irrilevanza con cui i invece i governi si occupano della cura della Terra, tutti presi da un’improbabile uscita dalla crisi, inseguita con le stesse ricette che l’hanno prodotta. Sembra che il buon Juncker abbia consigliato agli studenti di risparmiare acqua quando fanno il bagno.

Si pensi, ad esempio, allo stridore tra la vivacità di quei ragazzi e la pesantezza ottusa del dibattito in corso per abbandonare la combustione del carbone nelle centrali elettriche in giro per il pianeta. Una ricerca recente della Commissione globale sull’economia e il clima evidenzia come per ottenere riduzioni di emissioni climalteranti occorrerebbe agire subito con interventi specifici su cinque settori:

1. energia
2. città
3. cibo e uso del suolo
4. acqua
5. industria

Limitiamoci in questo post alla produzione di energia. Dato che i combustibili fossili rappresentano, con un costo e un impegno economico enorme, ancora l’80% del consumo energetico globale e il 75% delle emissioni di gas serra, non solo causano grande vulnerabilità economica per i prezzi volatili del carburante o le costose importazioni di carbone, petrolio e gas, ma provocano vulnerabilità umana, con un bilancio, secondo l’Organizzazione mondiale della Sanità, di 4,2 milioni di persone morte all’anno. La soluzione sta in una sostituzione con fonti rinnovabili e efficienza nel lasso di una transizione il più rapida possibile. Ma come abbandonare il carbone?

Le sovvenzioni e altri sostegni alla produzione e al consumo di combustibili fossili nel 2015 ammontavano ancora a 373 miliardi di dollari all’anno. La riduzione delle sovvenzioni combinata con la fissazione del prezzo di vendita per tonnellata di Co2 emessa (una vera carbon tax all’origine, estesa in modo uniforme) genererebbe 2.800 miliardi di dollari di entrate o risparmi governativi all’anno. Secondo gli analisti, in Ue il prezzo per tonnellata è più che quadruplicato negli ultimi 16 mesi – da quattro euro nel maggio 2017 agli attuali 18 euro – e dovrebbe raggiungere i 25 euro a tonnellata entro la fine del 2019. A un listino di 40 euro a tonnellata, l’Ue potrebbe risparmiare all’ambiente 400 milioni di tonnellate di Co2 e chiudere rapidamente col carbone.

Un grande peso nei consumi proviene dal settore edilizio e vengono alla luce soluzioni interessanti legate al ruolo del pubblico. In India, una società sostenuta dal governo, Energy Efficiency Services Limited, raggruppa gli appalti per accrescere i mercati dell’illuminazione e degli apparecchi ad alta efficienza con un risparmio di 35 miliardi di kilowattora. Negli Stati Uniti e in Germania, le aziende municipalizzate forniscono finanziamenti a basso costo con risultati impressionanti, anche sotto il profilo dell’occupazione: si calcolano tre volte il numero di posti di lavoro, con lo stesso investimento in combustibili fossili (le imprese di energia rinnovabile impiegano 10,3 milioni di persone in tutto il mondo).

Ma la guerra in corso sul mantenimento del carbone è tutt’altro che vinta. La Germania ritarda la chiusura fino al 2038. mentre la Cina ha ritardato o interrotto il lavoro su 151 centrali a carbone e ha creato un fondo di 15 miliardi di dollari per la riqualificazione, la riallocazione e il pensionamento anticipato di circa 5-6 milioni di persone che verrebbero altrimenti licenziate. In Italia, l’Enel ha un comportamento contraddittorio: dopo avere avviato progetti per passare dal carbone – con la chiusura di 23 centrali – a soluzioni compensative, si è aperto un conflitto interno sui tempi. Mentre il ministero dell’Ambiente prevede il 2025 come deadline, per Brindisi, Civitavecchia e Fiumesanto non sono ancora chiare le misure sostitutive da adottare e viene addossato il ritardo alle incertezze dei programmi governativi.

In una sua analisi, la Banca Mondiale (v. Bmi/Fitch: Infrastructure: Asia Nuclear, CPEC & Italy Coal) ritiene improbabile la fermata prima del 2028, a causa del ritardo nella crescita delle rinnovabili nel Paese, nella capacità di stoccaggio nel Centro-Sud e in Sicilia e nelle infrastrutture di trasmissione per Adriatico e Sardegna. Occorrerebbero 127 miliardi di euro per mantenere i tempi, ma basteranno le trecce di Greta e un risveglio dei giovani italiani a far spostare finanziamenti sul futuro del clima, anziché perforare le Alpi torinesi e portare gasdotti sulle rive pugliesi dell’Adriatico?

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Clima, finalmente la politica si è accorta di dover cambiare rotta

Tra le minacce borbottate da un Matteo Salvini in divisa e i roboanti proclami di un Luigi Di Maio incravattato – che Giuseppe Conte si premura di ridimensionare l’indomani – i Tg nazionali ci nascondono fatti e tendenze che orientano ormai l’immaginario popolare fuori dalla nostra “provincia”. Segnali sempre più percettibili che si oppongono alla distruzione dei diritti, all’esclusione e alla costruzione di muri, dispensati come trucide vie di scampo per una parte della popolazione di un pianeta sempre più inospitale. Vengono fortunatamente a galla le autentiche emergenze che segneranno un futuro assai prossimo e che, tra loro interconnesse in una visione ampia come quella di Bergoglio o incardinate nell’esperienza dei lavoratori e degli studenti tornati in piazza per una buona vita e un lavoro degno, ridicolizzano le prove muscolari e gli abbagli dei “cacicchi” di turno.

È giunto il momento di narrare la realtà per quello che è, non per quello che vogliono che appaia. Qui accenno ad alcuni dei segnali di un promettente cambiamento in corso, che può diventare irreversibile nel mondo se, contemporaneamente, vengono denunciati gli inganni che tendono a sminuirne la portata e sono svelati gli interessi che ne impediscono una piena affermazione.

È vero che Donald Trump non ha nemmeno menzionato il cambiamento climatico nel suo discorso annuale al Congresso, tutto dedicato al muro col Messico, ma, intanto, i democratici Usa stanno varando un Green New Deal, un autentico “piano Roosevelt” di forte impatto climatico e sociale.

È vero che Alessandro Di Battista e l’amico hanno incontrato i gilets jaunes, ma, secondo la Reuters, la Francia ha richiamato il suo ambasciatore non soltanto per un’inusitata ingerenza, ma perché la concorrenza tra la Total francese e l’italiana Eni sul petrolio in Libia è giunta a un punto di rottura.

È vero che il ministro Sergio Costa non sembra preoccupato delle trivelle in mare e nemmeno della mancata decarbonizzazione delle nostre fonti energetiche, ma che dire dello sciopero degli studenti belgi che al grido “Siamo più caldi del clima” per la quarta settimana di fila hanno manifestato in oltre 30mila per sollecitare interventi contro i cambiamenti climatici?

E se è vero che Nicolas Maduro non è Simon BolivarHugo Chavez, vale anche l’affermazione di Ed Crook sul Financial Times del 9 febbraio: “L’unica cosa che il presidente Trump odia più dell’Iran o del Venezuela sono i prezzi alti della pompa. E se è costretto a scegliere tra i due, sceglierà l’abbassamento dei prezzi del petrolio”.

Oltre alla ripetizione delle lotte di potere dei soliti noti, prendono piede in varie parti del pianeta atteggiamenti, azioni e comportamenti, in particolare delle nuove generazioni che sostituiscono la solidarietà all’individualismo della paura. Il clima, come nei due esempi sottostanti, fa da catalizzatore.

Mentre complessivamente nel mondo il consumo di energia è in crescita (una quota inferiore di fossili non significa che queste fonti siano in calo in termini assoluti), un report recente finanziato da grandi patrimoni (Bill Gates, ad esempio) cerca di definire l’apporto praticabile di tecnologie per ridurre le emissioni climalteranti. Si tratta di un approccio prettamente illuministico, fiducioso che, nei prossimi 30 anni, grandi investimenti sul clima anziché in armamenti possano abbattere la soglia di Co2. L’amministrazione Trump renderà certamente difficile pianificare un portafoglio di innovazione energetica efficace, ma occorre segnalare che il tentativo va controcorrente, pur affidandosi forse in maniera fin troppo esclusiva al salvataggio tecnologico della Terra.

In antitesi a questo approccio, ma con un grado di piena convergenza riguardo l’esito di una totale decarbonizzazione del sistema elettrico, sta rapidamente prendendo piede nel partito democratico statunitense un Green New Deal. L’idea è quella di arrivare a un futuro a basse emissioni di carbonio accompagnando il percorso con considerazioni e priorità di equità sociale. Entro dieci anni il 100% dell’elettricità americana proverrebbe da fonti rinnovabili e senza investimenti in nuovi reattori nucleari.

La proposta, accompagnata dall’introduzione di una Carbon tax, è guidata da Alexandria Ocasio-Cortez, la neoeletta al Congresso, una socialista democratica di New York che la definisce “transizione dal nucleare e da tutti i combustibili fossili il prima possibile”.

Interessante nella posizione di Alexandria Ocasio-Cortez è l’ampio profilo di una visione del Green New Deal come un piano per combattere l’ingiustizia economica e razziale e combattere i cambiamenti climatici. Una posizione ormai all’ordine del giorno della strategia delle prossime presidenziali, che spingerà i democratici a gareggiare per la Casa Bianca nel 2020 non solo per aderire all’idea generale, ma per stabilire obiettivi legislativi specifici con cui ottenere la meta passo dopo passo.

Il documento, che è sostenuto anche dal Movimento Sunrise gestito dalla gioventù, appoggia l’assistenza sanitaria universale, la garanzia di posti di lavoro e l’istruzione superiore gratuita, compiendo un enorme cambiamento nella comunicazione di un decennio fa, quando i democratici sostenevano un sistema “cap-and-trade” per limitare i gas serra, assegnando a pagamento i permessi di inquinamento industriale.

C’è sintonia tra l’impianto comunicativo della giovane deputata e le connessioni che compaiono nell’enciclica Laudato Sì. Lo testimoniano le parole da lei pronunciate per combattere il cambio climatico: “promuovere la giustizia e l’equità fermando l’egoismo, prevenendo il futuro e riparando l’oppressione storica delle popolazioni indigene, delle comunità di colore, delle comunità di migranti, delle comunità deindustrializzate, delle comunità rurali spopolate, dei poveri, dei lavoratori a basso reddito, delle donne, degli anziani, delle persone con disabilità e dei giovani “.

Potrebbe essere un programma per l’Europa, se i sovranisti e le regioni più ricche dalle nostre parti non pensassero che è meglio sopravvivere da soli.

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A Davos si preoccupano per l’economia, ma il pianeta ha un problema ben più grave

Il Forum di Davos è da sempre considerato un evento organizzato per migliorare lo stato degli affari mondiali. Quello appena terminato è stato pervaso da scetticismo e ha ricevuto scarsa attenzione anche dai media. Ben ne ha rappresentato la sintesi il murale che campeggiava nell’atrio del Centro Congressi con una ragazza che tiene un pallone, mentre nuvole temporalesche si avvicinano minacciose.

In effetti, le priorità a breve termine dei partecipanti – banchieri, esponenti della finanza, manager, governanti di nuovo conio, come il brasiliano Bolsonaro o lo statunitense Pompeo o il nostro Conte – non sono allineate con le preoccupazioni comuni a lungo termine (cambiamenti climatici, uguaglianza, società inclusive). Se da una parte è vero che le fortune miliardarie sono aumentate del 12% lo scorso anno, dall’altra ci sono gli ultimi report sullo scioglimento dei ghiacci, ad esempio, che vanno ben oltre le preoccupazioni per l’allentamento delle piste da sci della famosa località svizzera…

L’Antartide, a causa della sua natura inospitale, è rimasto intatto da sempre e rimane l’unico continente senza popolazione umana nativa e senza alcuna vita vegetale. Ma anche nei territori meno accessibili la natura risente della maggior concentrazione globale di gas climalteranti e manifesta comportamenti insoliti dei suoi componenti meno conosciuti alle nostre latitudini. Così, succede che le grandi balene blu, sogno e preda dei balenieri del secolo scorso, a seguito della penuria di pesci non figliano più lungo le coste a sud del 60° parallelo, ma per riprodursi si sono spostate verso i tropici e vengono avvistate in branchi addirittura nello Sri Lanka.

Ma è al Polo Nord che continuare a pattinare o slittare sarà sempre più pericoloso. Un rapporto, la Report Card Arctic 2018 compilato in base alla ricerca di oltre 80 scienziati che lavorano per governi e università in 12 Paesi, tiene traccia del ghiaccio marino, del manto nevoso, della temperatura dell’aria, della temperatura dell’oceano, della calotta glaciale della Groenlandia, della vegetazione e dei cambiamenti dell’ecosistema artico. Il volume appena pubblicato mostra che lo scorso anno la regione ha registrato la seconda temperatura più calda mai censita. Oltre a questo, suscita apprensione la constatazione che mai nel Mare di Bering è stato catalogato uno spessore del ghiaccio invernale talmente poco massiccio da permettere il fiorire precoce del plancton marino attorno all’Alaska. I resoconti sulla fauna e la flora sono impietosi: è confermato il declino a lungo termine della popolazione di caribù, mentre le mandrie di renne selvatiche che attraversano la tundra artica sono diminuite di quasi il 50% negli ultimi due decenni. Contemporaneamente, si sta verificando una impressionante espansione verso nord delle alghe tossiche nocive, trasportate da una insolita concentrazione di inquinanti microplastici che provengono dalle correnti oceaniche che si mescolano all’Oceano Artico.

Mare di Bering

La mappa mostra l’età del ghiaccio marino nel braccio di ghiaccio artico nel marzo 1985 (a sinistra) e nel marzo 2018 (a destra). Il ghiaccio che ha meno di un anno è colorato in blu più scuro. Il ghiaccio che è sopravvissuto per almeno quattro anni è bianco.

Le temperature dell’aria superficiale nell’Artico hanno continuato a scaldarsi a velocità doppia rispetto al resto del globo. Il ghiaccio è rimasto più “giovane, più magro” e ha coperto meno area rispetto al passato. Nel sistema artico terrestre il riscaldamento atmosferico ha continuato a generare un declino del manto nevoso, a provocare lo scioglimento della calotta glaciale della Groenlandia e del ghiaccio del lago interno nonché l’espansione e l’inverdimento della vegetazione della tundra artica.

E se, lasciati sci e pattini ai Poli, volessimo scendere dalle Alpi al mare, avremmo anche qui grandi sorprese. Il Reno, l’asse principale del trasporto fluviale in Europa, sta perdendo molto del suo flusso. Dopo una prolungata siccità nell’estate boreale, il traffico pesante in uno dei punti più profondi del fiume è stato paralizzato per quasi un mese alla fine dell’anno 2018. Il Reno, anche se solo temporaneamente, è stato invalidato nella sua funzione di arteria di trasporto fondamentale. L’impatto sulla crescita economica in Germania nel terzo e nel quarto trimestre è stato significativo, a riprova di come anche le economie industriali avanzate debbano mettere in conto gli effetti del riscaldamento globale. Daimler, Bosch, Bayer e Basf hanno annunciato di essere state costrette ad utilizzar sistemi di trasporto più costosi a causa dell’abbassamento del livello delle acque. I governi federali sono stati sollecitati a investire in infrastrutture – come chiuse e dighe – per rilasciare acqua a richiesta e per garantire che i corsi d’acqua rimangano navigabili.

D’altronde, i ghiacciai alpini si sono ridotti del 28% tra il 1973 e il 2010. “Le Alpi si stanno riscaldando ancora più velocemente proprio perché la neve e il ghiaccio si sciolgono”, ha detto Wilfried Hagg dell’Università di Monaco. “Un clima più caldo rende più probabile la ripetizione di incidenti come i bassi livelli del fiume Reno e Danubio della scorsa estate”. E pensare che il Reno e il Danubio nascono e scorrono a due passi da Davos.

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#10yearschallenge e clima, cosa è successo al pianeta in dieci anni e quale futuro ci attende

Va per la maggiore postare immagini di come si era nel 2009 rispetto all’anno in corso. Dieci anni fa. Un confronto non certo esaustivo se si parla di clima e dello stato del pianeta. In questo caso, in virtù dell’accelerazione dei cambiamenti in corso, affiora una sensibilità nuova rispetto allo scorrere del tempo: non è significativo solo quanto tempo è passato “da”, ma quanto manca “a”. Ossia, dovremmo chiederci se tra dieci anni saremo in un mondo ancora in continuità con quello di dieci anni fa, oppure osserveremo paesaggi e una biosfera irreversibilmente mutati rispetto alla memoria che ci rimane? Pertanto, per adattare un hashtag diventato virale a immagini realistiche dell’evoluzione dell’ambiente in cui viviamo, proverò a far ponte tra il 2009 e il 2029, gettando, a mo’ di esempio, dapprima uno sguardo in Inghilterra sugli effetti di 10 anni di cambiamenti climatici precedenti a oggi e illustrando in seguito le previsioni sui 10 anni a venire di cui il Pentagono ha informato un Trump tanto allibito quanto ostinatamente negazionista.

10 anni fa in Inghilterra. Un decennio fa il Regno Unito ha compiuto un passo coraggioso adottando una legge sui cambiamenti climatici e impegnandosi a ridurre significativamente le emissioni di gas serra entro il 2050. Dal 2008 al 2018 il Climate Change Act ha fornito compiti, responsabilità e una certa chiarezza sulla direzione di marcia da intraprendere per contrastare l’aumento della temperatura dovuto ai comportamenti della popolazione. A distanza di un decennio, la legge ha ottenuto un calo delle emissioni del 43% rispetto ai livelli del 1990. Lo smog più denso sul Tamigi è quasi scomparso.

Nel 2017 per la prima volta la maggior parte dell’elettricità del Regno Unito proveniva da fonti rinnovabili o a basse emissioni di carbonio, con fumate meno dense all’orizzonte, mentre l’economia, con un mix di sorgenti energetiche più pulite, riusciva a registrare una fase di espansione. Questi segnali positivi non sono bastati: il mutamento climatico si è fatto più rilevante; è andato perso il 26% della fauna selvatica (il 60% rispetto al 1970); il ritardo per limitare l’innalzamento della temperatura ai fatidici 1.5°C risulta sempre più incolmabile e le misure adottate finora hanno colpito di più le persone povere e svantaggiate, dal momento che i costi della transizione energetica (stimati attorno ai 600 miliardi di Euro) senza l’applicazione di una carbon tax, si sono in gran parte scaricati sui consumatori anziché sui grandi produttori di energia. Nel film dei dieci anni si potrebbe constatare anche una sproporzionata e improvvida destinazione di terreni per insediamenti umani, allevamenti e mangimi per bestiame, mentre i rischi di calore estremo e gli eventi meteorologici negativi sono cresciuti di anno in anno, come evidenziato dalla calura dell’ultima estate londinese e dalle inondazioni della primavera che l’ha preceduta.

Le previsioni del Pentagono per il 2030. Giorni fa è uscito un rapporto del Pentagono sui cambiamenti climatici con particolare attenzione alle “foto” prossime future delle basi americane in giro per il mondo. A premessa di provvedimenti operativi che riguarderanno i singoli siti, sono state espresse alcune considerazioni generali assai significative se non intriganti, vista la loro provenienza. Innanzitutto, si afferma che gli effetti del clima che muta rappresentano un problema di sicurezza nazionale, mentre, per la prima volta, viene preso atto che un brusco cambiamento climatico (vale a dire in una scala che cambia drammaticamente in anni, piuttosto che decenni o secoli) sia altrettanto probabile di un mutamento graduale. Se la rapidità prevalesse sulla gradualità cambierebbe lo scenario profilato dieci anni fa, secondo il quale l’agricoltura dell’Europa settentrionale, della Russia e del Nord America sarebbero prosperate, mentre l’Europa meridionale, l’Africa e l’America centrale e meridionale avrebbero sofferto di un aumento della scarsità d’acqua. Non più produzione di champagne nelle isole britanniche né grandi bacini di riserva idrica nelle zone subtropicali. Infine, perfino gli scienziati del Pentagono valutano che il riscaldamento globale sarà nei prossimi decenni un fattore crescente di estinzione delle specie, il cui tasso al momento è più alto che in qualsiasi momento dalla scomparsa dei dinosauri, 65 milioni di anni fa.

Sul piano più strettamente militare, si ritiene che il riscaldamento dell’Artico stia creando maggiori opportunità per un conflitto con la Russia e la Cina. L’indagine più estesa riguarda in dettaglio i modi con cui il cambiamento climatico – tenendo conto di cinque fattori: inondazioni ricorrenti, siccità, desertificazione, incendi boschivi e scongelamento del permafrost – potrebbe colpire migliaia di basi e installazioni militari sparse nel mondo. Circa i due terzi delle 79 installazioni trattate risultano danneggiabili all’innalzamento del mare o a future inondazioni ricorrenti e oltre la metà sono vulnerabili alla siccità attuale o futura. Circa la metà è esposta al crescente pericolo di incendi distruttivi. Ovviamente, gli impatti a causa di inondazioni costiere variano da regione a regione con maggiore impatto sulla costa orientale e le Hawaii rispetto alla costa occidentale. Addirittura, la regione di Hampton Roads in Virginia è citata come esempio di un’area che nei prossimi decenni dovrà affrontare un aumento del livello del mare fino a 45 centimetri.

Per il Pentagono di Trump, la risposta a tutti questi pericoli sembrerebbe essere diretta: armati fino ai denti e costruire un muro inespugnabile intorno agli Stati Uniti, mentre si tengono sotto tiro le altre potenze. Più realisticamente, penso impossibile agire non in pace e da soli.

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