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Cambiamento climatico, così l’inettitudine dei governi lo accelera

Da tempo su questo blog insisto a fornire informazioni sulla gravità del cambiamento climatico e a mettere in evidenza le omissioni e le sottovalutazioni di chi ci governa. In questo inizio estate gli eventi inconsueti e devastanti sulle rive settentrionali del Mediterraneo (tempeste di grandine, tornado, mareggiate sconvolgenti, venti violentissimi e improvvisi) suonano come un allarme annunciato ma disatteso colpevolmente, nell’ossessione di rendere impenetrabili ad altri esseri umani le nostre sponde, risospingendoli anche con ferocia implacabile verso i territori che già il clima e la guerra avevano reso loro impraticabili.

Ora può toccare a noi, se la minaccia climatica non diventa la priorità del futuro più prossimo e le nostre risorse economiche, culturali e sociali non si riconvertono rapidamente verso la cura della casa comune. In questi stessi giorni, oltre 250 esperti del mondo scientifico italiano hanno scritto ai presidenti della repubblica, del senato, della camera e del consiglio, una lettera dal titolo: Il riscaldamento globale è di origine antropica, chiedendo altresì “una urgente riconversione dell’economia in modo da raggiungere il traguardo di zero emissioni nette di gas serra entro il 2050”.

Senonché, invece di cominciare a precisare le date successive, già da domani, per la eliminazione delle fonti climalteranti (chiusura delle centrali a carbone, eliminazione delle prospezioni e delle estrazioni petrolifere, sostituzione della combustione del gas in impianti di nuova progettazione con sistemi di reti rinnovabili e accumuli distribuiti, riconversione degli impianti industriali e progressiva conversione dei consumi individuali e familiari), i nostri rappresentanti hanno continuato a recitare, nel teatro che i media ci allestiscono a ogni ora, l’insopportabile e unica rappresentazione del braccio di ferro intorno al fantasmagorico “contratto di governo”.

Ma mentre i topi ballano la nave prende acqua anche da falle impreviste. Esaminiamone alcune, che ci aiutano a capire come non si stia invertendo la rotta a tempo debito, né a livello globale, né sul piano nazionale.

1. Per inseguire nuovi profitti con l’estrazione di minerali, gas e petrolio dalle zone più inaccessibili e dalle profondità marine o con l’apertura di nuove rotte di navigazione rese praticabili in seguito allo scioglimento delle lande ghiacciate, la quota di fossili non convenzionali – vale a dire estratti e trasportati con bilanci energetici (ed emissioni) sempre più svantaggiosi – è in costante aumento e viene bruciata a ritmi sempre più elevati.

2. Entro la metà di questo secolo, l’aumento di temperatura, anche se moderato, porterà ad un aumento della domanda di energia, sia a livello globale che nella maggior parte delle regioni. Lo rivela uno studio pubblicato su Nature Communications da ricercatori dell’Università Ca’ Foscari, da Cmcc (Italia) e Boston University (Usa). Addirittura, l’effetto non avrà solo ripercussioni geografiche differenti, ma inciderà maggiormente sui redditi bassi. Dato che i cambiamenti climatici porteranno la domanda globale di energia nel 2050 a un aumento compreso tra l’11% e il 27% se il riscaldamento sarà modesto, e tra il 25% e il 58% se il riscaldamento sarà elevato, la domanda riguarderà in particolare l’elettricità per raffreddare gli ambienti nell’industria e nel settore dei servizi. Di conseguenza le imprese e le famiglie richiederanno meno gas naturale e petrolio per via delle minori esigenze di riscaldamento e, viceversa, più energia elettrica per soddisfare le maggiori esigenze di raffreddamento degli ambienti, con una pressione proporzionalmente più elevata sui meno abbienti.

3. Solo ora sono stati comunicati i dati per cui, in media, dal 2014 ogni anno è “sparita” dal polo sud (Antartide) una superficie di ghiaccio antartico pari a circa due volte e mezza l’Italia. Un fenomeno prima trascurato e che sembrava riservato quasi esclusivamente all’Artico. I negazionisti, che hanno sempre ignorato questa complessità, da oggi hanno un alibi in meno.

4. Secondo le Bloomberg Opinion Sparklines del 10 maggio, WattTime ha annunciato che utilizzerà la tecnologia satellitare per misurare l’inquinamento atmosferico da ogni grande centrale elettrica del mondo e per rendere disponibili questi dati al pubblico. Ciò farà venir meno la possibilità per molte centrali elettriche (comprese le nostre) di tener segreto il loro inquinamento e di ignorare la carbon tax.

5. Come riportato dalla stampa, il 14 giugno 2019 la Commissione Europea ha dato il via libera al capacity market italiano che, come impostato a oggi, prevede incentivi fino a 1,4 miliardi di € all’anno per 15 anni alle centrali a gas, esistenti e nuove. Il governo ha deciso di tirare dritto con il benestare dell’Authority, nonostante siano state sollevate proteste subito messe a tacere.

6. Il Coordinamento Nazionale No Triv il 10 Luglio 2019 ha reso noto Il Decreto Ministeriale 15 febbraio 2019, con cui sono state approvate le “linee guida nazionali per la dismissione mineraria delle piattaforme per la coltivazione di idrocarburi in mare e delle infrastrutture connesse”. A oggi l’elenco non è stato reso pubblico. Se si tiene conto che i costi di smantellamento e di bonifica dei siti sono stimati tra i 15 ed 30 milioni di dollari per singola struttura, si può capire come i proprietari Eni ed Edison di oltre 100 piattaforme in funzione possano contare su un tardivo od omesso smantellamento.

Anche senza dover tirare in ballo Erdogan o Putin o Blair, ci domandiamo: come si può procedere – come se niente fosse – a bucare l’Adriatico, sostituire il gas al carbone nelle centrali di Civitavecchia o Spezia o continuare a connettere tubi alla Puglia (Tap) e allestire centrali di pompaggio nel Parco degli Abruzzi?

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Giorgio Nebbia, il debito verso di lui è enorme. E io lo ricordo così

Per tributare un riconoscimento che non potrebbe certo ripagare il debito incommensurabile che la mia generazione ha nei confronti di Giorgio Nebbia, forse con Laura Conti il più straordinario innovatore tra quanti hanno colto nella capacità trasformativa del lavoro assoggettato al capitale il pericolo più grave di minare irreversibilmente la natura, la sua integrità, la sua indiscutibile attitudine di alimentare una vita buona sulla Terra, rubo le parole ad una nota con cui un amico mio e di Giorgio – Gian Paolo Poggio – ha annunciato una scomparsa purtroppo da tempo messa in un conto doloroso.

“Sapevo – scrive Gian Paolo – di Giorgio Nebbia attraverso i suoi articoli, in particolare i contributi, molto originali, che apparivano nel bollettino di Italia Nostra. L’ho conosciuto di persona verso la fine degli anni 80, in occasione della vicenda dell’Acna di Cengio (Savona). Il suo approccio era assolutamente non convenzionale, non era più giovane ma partecipava direttamente agli incontri in alta Valle Bormida, e con lui la moglie Gabriella, sobbarcandosi un lungo viaggio. La sua impostazione del problema era chiarissima e, nello stesso tempo, molto impegnativa. Andava bene contestare la fabbrica per il suo impatto sulla salute e sull’ambiente, ma bisognava studiare i cicli produttivi, sapere esattamente cosa produceva e quali erano gli scarichi inquinanti, cosa aveva prodotto nel corso dei suoi cento anni di attività. E questo non per una pur meritevole conoscenza storica, ma per poter intervenire in modo efficace, in termini di bonifica, di risanamento dell’ambiente e di controllo sulla salute dei lavoratori e della popolazione.

Da allora è stato per me e per la Fondazione Micheletti l’interlocutore principale, un infaticabile e inflessibile stimolatore di attività, iniziative, il più delle volte invisibili perché dedicate alla salvaguardia degli archivi che hanno a che fare con la produzione, le manifatture, il lavoro, l’energia. Gli studi più rilevanti sono quelli che ha dedicato al ciclo delle merci, definendosi sempre orgogliosamente merceologo, anche quando la merceologia veniva abolita, un po’ come se si potessero abolire le merci. Di cui, anche un po’ per provocazione intellettuale, metteva sempre in evidenza la dimensione materiale, naturale, il carico quantitativo sulle matrici ambientali.”

Per quanto mi riguarda ho goduto della sua amicizia e di una curiosità quasi stupita per l’attenzione che un sindacalista – quale ero io allora – dedicava non tanto all’incidente clamoroso sul lavoro, che faceva notizia, quanto alla ricostruzione degli effetti irreversibili che i cicli di trasformazione di materie e energia, fagocitate nel vortice di produzioni spinte alla massimizzazione del profitto, producevano “normalmente e quotidianamente” su un ambiente degradato e sui cambiamenti della biosfera, mai presa seriamente in considerazione come spazio vitale, luogo di riproduzione, bene comune da conservare.

“Giorgio – conclude il nostro comune amico – era persona estremamente avvertita, libera da schemi ideologici, appassionato ma estremamente consapevole delle debolezze umane, e però ostinatamente aperto alla speranza. Occorrerà molto tempo per conoscere Giorgio Nebbia nelle sue molteplici dimensioni”. Oggi lo ricordiamo con lo smarrimento che solo l’affetto più intenso può in minima parte colmare.

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Idrogeno e rinnovabili al posto del carbone a Civitavecchia?

Mentre le forze di maggioranza hanno scelto proprio la Giornata Mondiale dell’Ambiente per bocciare la mozione sull’emergenza climatica, che avrebbe dato accesso a quasi 50 miliardi tra contributi europei e fondi nazionali per fronteggiare sia le misure di adattamento che quelle di mitigazione del caos climatico nel nostro Paese, la Ue stimava il costo di un mancato adattamento tra i 100 miliardi di euro all’anno nel 2020 e 250 miliardi nel 2050, senza tenere in conto i costi sociali derivanti dagli eventi estremi. Pertanto, esigeva risposte urgenti ed adeguate da approvare nei piani nazionali da adottare. Il governo dei “litiganti per finta, ma negazionista per davvero”, non tiene in nessun conto l’emergenza climatica, dato che lucra già abbastanza voti e consensi dalle paure che una criminalità efferata e una invasione inarrestabile dei migranti stillano quotidianamente nelle “pance” degli italiani. Ma sul clima e sui fossili è difficile glissare.

Così capita che a Civitavecchia, nella città del carbone, la Lega si metta il vestito ambientalista e alle amministrative batta un Pd piuttosto ambiguo sul destino della centrale Enel. Senonché, appena eletto, il neosindaco del Carroccio, Ernesto Tedesco, si sente dire dal suo capo Salvini che “è finito il tempo dei ‘no’ a tutto” e che “con i soli ‘no’ non si campa”, ponendosi così in linea con i piani di phase-out dell’Enel che, nei siti di La Spezia, Fusina, Brindisi e Civitavecchia, vuole sostituire il carbone con il metano.

Con questi presupposti, il “polo delle rinnovabili dal 2025” di cui la nuova maggioranza ha parlato in campagna elettorale non si farà, a meno che la nascita e l’ottimo lavoro svolto da un Comitato locale che da No Carbone si è trasformato in “No al metano Si alle rinnovabili” mobiliti i cittadini e raccolga suggerimenti e conoscenze per dar vita ad un piano energetico territoriale sostitutivo del carbone.

Trovo di grande interesse, anche per il possibile coinvolgimento degli “studenti di Greta”, che laddove si aprano spazi per la riconversione ecologica, le forze che democraticamente vogliono riappropriarsi del territorio e stabilire attraverso la sua cura l’occasione per un miglioramento della vita, entrino in gioco per proporre una piena e stabile occupazione, una salubrità dell’aria, la vivibilità dei territori. Altro che patti Salvini-Blair per agganciare tubi di gasdotti come il Tap sulle nostre coste!

A questo proposito si è aperta in rete una discussione sul ricorso all’idrogeno per una alternativa alla combustione del carbone sulla costa tirrenica. Mi sono occupato a lungo di ricerca sulle celle a combustibile e sul ricorso all’idrogeno nel campo della mobilità e ne ho scritto nel mio primo blog sul fattoquotidiano.it.

Non avrebbe senso produrre energia con elettrolisi dell’acqua dal mare, nonostante i progressi avvenuti anche in questo campo. L’idrogeno, come vettore energetico, ha senso solo se prodotto con energie rinnovabili e assolutamente pulite (fotovoltaico e eolico), nella funzione di serbatoio dell’eccesso di energia accumulata cui ricorrere quando non c’è né sole né vento. Un serbatoio da trasformare in energia con buon rendimento attraverso celle a combustibile, molto interessanti per abitazioni o veicoli. Le reti intelligenti da porre in atto sul territorio dove insisteva la centrale fossile, potrebbero essere integrate con “accumuli di idrogeno” ottenuto quando c’è sovrapproduzione, per fare da compensatori negli scambi in rete di energia elettrica prodotta e consumata con fonti rinnovabili e in modalità cooperative. Ovviamente il sistema di fonti rinnovabili dovrebbe essere interamente dedicato e interamente integrato al sistema di consumi elettrici che “si appoggia” all’idrogeno da utilizzare come vettore.

Vanno certamente superati una serie di problemi di sicurezza e si potrebbe, nella fase di transizione, anche ricorrere all’idrometano, ovvero una miscela di idrogeno e metano fossile o bio che sia, che utilizza le linee già esistenti del metano per trasportarlo fino agli utenti finali. L’idrogeno ottenuto da rinnovabili che alimenta celle a combustibile è una buona soluzione già oggi per abitazioni e veicoli, se non fosse che il mercato vuole mantenere la prevalenza di un controllo centralizzato di tutto il settore energetico.

In Germania, con la carica di idrogeno pronto dall’esterno, sono in fase di sperimentazione alcuni treni su alcune tratte locali e l’industria dell’auto, oltre all’elettrico a pile, pensa seriamente all’idrogeno per motori elettrici e non termici. In Svezia stanno entrando in funzione stazioni di rifornimento di idrogeno solare per autoveicoli elettrici a idrogeno.

La partita è aperta e tocca enormi interessi. La mia esperienza dice che il cambiamento non viene dai cartelli dei produttori di veicoli o dalle corporation dei fossili, ma dall’attenzione delle popolazioni al loro futuro e alla salute dei loro figli. Ben venga quindi la discussione sulla eliminazione del carbone a Civitavecchia e non ci si fidi di amministratori pronti a rispondere ai richiami dall’alto anziché ai loro elettori. E benvenuto agli studenti di Fridays for Future, che in questa partita avranno molto da giocare.

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A Civitavecchia un comitato si batte per chiudere col carbone senza tuffarsi nel gas

Mario Silvestri racconta un episodio che svela la furbizia della classe dirigente quando è messa di fronte a decisioni ineludibili, in cui si affanna a salvare capra e cavoli. Eravamo nel 1957, ed era in palio il lancio del nucleare in Italia. Ad una riunione ufficiale negli States viene chiesto al professor Medi, alto funzionario del Ministero, “lei inclina verso i reattori ad uranio naturale o verso quelli ad uranio arricchito?”. Dopo un minuto di silenzio, Medi pronunciò la sua sentenza: «Enriched» (arricchito; ndr). Ma la domanda era precisa: “Quanto?”. Ed in un soffio venne la risposta: «Just a bit» (un pochino; nda).

L’aneddoto si ripropone a proposito della dismissione del carbone alla centrale di Civitavecchia. La SEN emanata nel 2017 dal governo Gentiloni prevedeva la dismissione di tutti gli impianti di produzione di energia dal carbone entro il 2025. L’ad di Enel, Storace, aggiungeva che Enel Green Power sarebbe stata in grado di installare 2500 Megawatt di rinnovabili all’anno per raggiungere il target di 0 emissioni di CO2 con 10 anni di anticipo rispetto all’obiettivo previsto dall’accordo di Parigi sui cambiamenti climatici. Ma nella campagna elettorale in corso, a Civitavecchia i candidati sindaci e i loro referenti al governo fanno un po’ come Medi 15 lustri fa, farfugliando promesse – un “pochino” di gas al posto del carbone – che, sul litorale tirrenico, si può temere siano “da marinaio”.

Proprio perciò si è costituito il 17 marzo in una affollata assemblea cui ho partecipato un comitato per NO al carbone e No alle fonti fossili, che spiazza completamente le offerte di Enel di chiudere col carbone magari al 2025 (cosa peraltro buona e auspicabile) per sostituire però l’offerta di potenza elettrica con un po’ di MW a gas fossile. Dietro al vago “just a bit”, c’è qualcosa di ben più corposo: l’approdo di navi metaniere al porto di Civitavecchia, la giustificazione della Tap in Puglia, la prospettiva di non rendere sostitutive ai fossili le energie rinnovabili e di non attivare un sistema decentrato al posto di quello centralizzato del petrolio, del carbone ed ora del gas.

L’assemblea di Civitavecchia è stata chiarissima nel definire i suoi obiettivi: salute (In Europa si stima che solo gli impatti sanitari connessi alla combustione del carbone costano 62 miliari di euro all’anno) come aspetto primario per chi vive nella bellissima area litorale e marina (siti archeologici, agricoltori, operatori turistici, operatori dell’energia, pescatori e pesci compresi) e nuova occupazione nelle fonti rinnovabili distribuite, aggregabili in forme di proprietà cooperativa, sviluppate con il sostegno di centri di ricerca e di nuove professionalità qualificate e stabili, collegate attraverso lo sviluppo delle reti intelligenti per l’innovazione e per i nuovi servizi ai clienti. Per il comitato dovrà esserci un immediato anche se graduale passaggio tra la produzione di energia elettrica avvenuta per decenni in modo tradizionale e l’impegno dell’Enel e del governo alla bonifica, a mantenere in loco siti per la ricerca e per la produzione ad impatto ambientale pari a zero, con un saldo occupazionale positivo. Il phase out dal carbone va quindi accompagnato non solo dall’esclusione di un intermezzo riservato al gas, ma anche da un’ampia riconversione delle attività portuali, della mobilità e da piani industriali inquadrati un piano energetico per la città che ancor oggi non è mai stato presentato.

D’altra parte, appare anche dal punto di vista economico azzardata l’insistenza su fonti fossili in un sito già provato da pesante degrado. Alla fine del 2017, la Banca Mondiale ha annunciato che non finanzierà più la prospezione e la produzione di petrolio e gas dopo il 2019 e che la promozione di sistemi di energia rinnovabile decentralizzati sarà al centro della sua strategia energetica. E sono molteplici le iniziative di “disinvestimento fossile”, annunciate a più riprese da banche, gestori di fondi, multinazionali, governi locali, con cui abbandonare progressivamente quei settori industriali maggiormente esposti alla perdita futura di remunerazione.

Lo stesso Comitato di Civitavecchia ha colto come il tema dei posti di lavoro come effetto della riconversione non possa essere eluso. Lo slogan coniato è: “I lavoratori vogliono essere al tavolo e non nel menù”, poiché si tratta di “fare la transizione con la gente, non contro la gente”. E le soluzioni ci sono: efficienza energetica; diffusione delle energie rinnovabili; mobilità pulita, sicura e connessa; competitività industriale e economia circolare; infrastrutture e interconnessioni; bioeconomia.

Questa battaglia va unificata con quella per rilanciare le rinnovabili. Secondo Legambiente per la prima volta dopo 12 anni nel 2018 in Italia è calata la crescita di energia pulita, prodotta da solare, eolico, bioenergie, e procedono a passo lento anche gli investimenti nel settore. Tutto ciò mette a rischio gli obiettivi al 2030 per il nostro Paese che, paradossalmente, si conferma tra le nazioni con le maggiori opportunità sul fronte delle rinnovabili grazie a risorse fossil-free diffuse e differenti da nord a sud. Questo è un pessimo segnale per il governo gialloverde, oltremodo litigioso su tutto e rivolto nelle sue dispute ben lontano dall’ansia con cui scenderanno in manifestazione il 24 maggio gli studenti di tutto il pianeta.

Confortati non dai governi, ma – si rifletta su questo – dalle inedite dispute all’ordine del giorno delle assemblee degli azionisti delle società energetiche. Greenpeace ha svolto manifestazioni davanti ai Lloyds di Trieste ed ha così monopolizzato anche gli scambi tra la dirigenza e gli azionisti di Generali preoccupati degli investimenti nei fossili. Non solo quelli tradizionalmente critici, perché a porre domande sul modus operandi del Leone di Trieste in relazione al global warming sono stati anche una mezza dozzina di azionisti “ordinari”. Durante poi l’Assemblea degli azionisti Enel, Re:Common ha ottenuto che il governo italiano si sieda ad un tavolo per negoziare dettagli concreti per rendere concreta la fase di dismissione del carbone, in particolare per quanto riguarda i due principali impianti che la compagnia ha, per una produzione totale di 4,5 GW, a Brindisi Sud e a Torrevaldaliga Nord (Civitavecchia). Ci sono timori che l’Enel non sia soltanto alla ricerca di una deroga, ma, sulla base dell’approccio già impiegato dalla tedesca RWE, stia utilizzando tali negoziati per chiedere alcune compensazioni. E’ evidente come l’eliminazione degli impianti a carbone sia materia altamente conflittuale: la trasformazione di queste impianti in nuove centrali a gas appare come un escamotage per vanificare il protagonismo e la presa di coscienza di studenti, lavoratori e cittadini in una fase di acuta crisi dell’intero pianeta.

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Casal Bruciato e la città di Roma alla prova del clima

Il recentissimo Rapporto del WWF e Global Footprint Network calcola che il 10 maggio 2019 sarà l’Overshoot Day per l’Europa: la data entro la quale, considerato il nostro stile di vita, i cittadini e le cittadine europee possono considerare di aver esaurito il budget di natura a loro disposizione.

Bisogna ricordare, infatti, che nonostante la popolazione europea rappresenti solo il 7% di quella globale, l’Unione Europea usa il 20% della biocapacità (la capacità degli ecosistemi di rinnovarsi) del pianeta. Per l’Italia, nonostante la profonda crisi della nostra economia dal 2008 in poi e la recente recessione, l’Overshoot Day cadrà soli 5 giorni dopo, il 15 maggio. Bisognerebbe ricordarsene nella campagna elettorale in corso, straziata dal dramma dei migranti e da un razzismo bieco che servono solo a distrarre dalle vere emergenze su cui cittadini e governi si devono confrontare.

Partiamo dalle immagini che riempiono ossessivamente i nostri schermi. Gli africani, bersagli di una accanita esclusione, sono responsabili solo del 3% delle emissioni climalteranti, ma stanno pagando con le desertificazioni il prezzo maggiore. I quartieri delle città, sedi di azioni violente contro gli “stranieri”, sembrano avamposti di lontane guerre tra civiltà, pur essendo, come Casal Bruciato, dentro una Roma sfilacciata e spesso abbandonata a se stessa. Ma se si guarda ai moli di approdo dei barconi in porti dotati di tutte le più aggiornate tecnologie o al quartiere romano, venendo dal centro e passando dall’ipermoderna stazione Tiburtina, si ha l’impressione di trovarsi nel cuore vitale di un Paese caotico ma in movimento, purtroppo frenato da false paure e dalla rimozione del futuro reale, previsto, accertato.

Mi sono chiesto, ad esempio, ma cosa pensa Roma – nelle sue istituzioni, tra i suoi abitanti, nell’impegno delle sue università, nella coscienza dei suoi studenti – del cambiamento climatico che la riguarda già ora? Ed ho trovato riscontro in un eccellente studio di Pierluigi Albini cui credo utile fare riferimento, per capire a quali sfide (non solo paure!) siamo sottoposti nel concreto. Non si prende mai in considerazione l’emergenza climatica come perno necessario di un insieme di competenze progettuali e di decisioni politico-amministrative in grado di pensare delle città a prova di clima. Oggi il nesso clima-urbanistica è diventato una questione di vita o di morte e da qui la necessità di applicare nella pianificazione (leggasi Piani Regolatori Generali e decisioni urbanistiche) la valutazione dei servizi ecosistemici come parte essenziale di una lotta di contrasto al cambiamento climatico.

E decisivo è intervenire sulla struttura delle aree urbane che oggi ospitano più della metà della popolazione mondiale, generando circa l’80% dell’economia mondiale e oltre il 70% del consumo energetico globale e dell’energia correlata alle emissioni. Secondo l’International Panel on Climate Change (IPCC), l’urbanizzazione incide per tre quarti dell’inquinamento del pianeta: tra il 71 e il 76% delle emissioni di CO2, secondo altre fonti per l’80%. Dunque, la questione delle città, della loro configurazione e del loro sviluppo è una questione centrale per una politica di contrasto climatico.

Roma, con i suoi quasi 3 milioni di residenti nel territorio comunale e con i 4,4 milioni della Città metropolitana, produce emissioni da fonti plurime ben superiori alla media nazionale per cittadino e produce più di 2,3 milioni di tonnellate di rifiuti urbani per la sola città di Roma, di cui sono note le assurde vicende. L’esaltazione delle soluzioni tecnologiche come soluzioni miracolistiche dei problemi lascia il tempo che trova: anche nelle Smart city il fattore umano rimane l’asse centrale, specialmente nelle città e non una variabile indipendente.

La città virtuosa, ovvero in grado di ridurre l’impatto ambientale delle proprie attività, che sa muoversi, ottimizzando i sistemi di trasporto e le reti di collegamento, ma anche la città che sa non muoversi (utilizzando servizi ICT), la città viva e dinamica, informata, con una diffusione capillare e comprensibile delle informazioni in grado di generare nuove attività, la città partecipata, che genera nuove forme di partecipazione, come la gestione dei Beni comuni e l’urbanistica “dal basso”, la città sicura, con soluzioni innovative di sorveglianza del territorio e di assistenza ai cittadini, la città ben governata, con un decentramento radicale delle funzioni pubbliche. la città abitabile, nel senso di una calmierazione dei valori fondiari e di una reale applicazione del diritto alla casa, ovvero all’abitare: ecco quel che ci meritiamo e quel che occorre, come spiega l’autore del saggio citato.

Non sembra che qualcuna di queste direttrici sia in corso di applicazione a Roma, che, tra l’altro è anche il più grande comune agricolo d’Europa con i suoi 50 mila ettari coltivati. La grande estensione, anche verde, del territorio romano potrebbe dunque svolgere una funzione importante nelle politiche di mitigazione del clima, se e solo se, si adottasse una svolta radicale, anche culturale, nelle politiche urbanistiche e di governo del territorio, vincendo resistenze e deformazioni cuturali e non facendo più prevalere interessi privati e speculativi sulla vita dei cittadini attuali e futuri

Senza sollevare qui questioni di portata globale, è ancora possibile ridurre l’ampiezza, l’incidenza e la velocità del cambiamento su scala locale, contrastandone gli effetti e costruendo delle “città a prova di clima”, meno vulnerabili. Roma ne è una prova documentata e le soluzioni, a partire dal documento citato, sono a portata di mano. Purché non si disperdano le energie umane, civili e naturali in scontri irreparabili, che ci separano dalla convivenza e dalla partecipazione. Questo è, a mio parere, il portato terribile e temibile della involuzione a destra in atto in tutto il Paese e che va contrastata con la straordinaria ripresa di un tessuto democratico e partecipato messo in pericolo.

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