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Civitavecchia, il nuovo piano energetico passa dal gas. Per fortuna c’è un asso nella manica

Il 21 novembre, a un convegno pubblico a Milano, i rappresentanti di un comitato per la riconversione ecologica di Civitavecchia (Comitato Sole) hanno portato alla discussione un prezioso contributo per la riconversione della centrale a carbone in uno scenario senza fossili che riguarda l’intera area, comprese le attività portuali.

La partenza di questa proposta innovativa viene dalla constatazione di un territorio falcidiato da percentuali altissime di malattie tumorali e respiratorie e ingannato dalla truffa del “carbone pulito”. Presentato come opportunità di ricchezza, occupazione e benessere, il bilancio è sconsolante. Ora, dopo dieci anni di produzione a carbone, la centrale Enel dovrà essere riconvertita.

Un nuovo piano energetico si affaccia all’orizzonte, disegnato più sulle esigenze del mercato che su quelle dell’emergenza ambientale e della crisi climatica e della conseguente necessità di un progetto di transizione energetica che abbandoni i fossili, gas compreso. Per Enel invece la transizione passa dal gas.

Intanto A2A, quella che gestisce l’inceneritore di Brescia e la centrale di Brindisi Nord, fa richiesta di installare un inceneritore al confine tra Tarquinia e Civitavecchia: in tal modo la riduzione di personale dovuta alla dismissione del carbone sarebbe compensata dall’impiego nell’incenerimento di rifiuti. Ma il Comitato ha un asso nella manica: ricercatori appassionati al bene pubblico e che da sempre si occupano di fonti rinnovabili offrono la loro collaborazione per un progetto che non risani solo l’area della centrale, ma riguardi anche le grandi navi da crociera, città galleggianti che bruciano il peggior combustibile nel porto, vicino al centro della città.

Nasce così l’idea di fare del porto di Civitavecchia la prima esperienza italiana significativa di un ambiente portuale a zero emissioni, inserito in un contesto urbano anch’esso in grado di coprire il proprio fabbisogno energetico con energie rinnovabili. Un laboratorio, ma anche una utopia concreta collegata con altre esperienze simili in corso in Europa e finanziate dalla Ue per un network portuale a zero emissioni lungo le coste baltiche e nel Mediterraneo. Il progetto si articola in più stadi:

1. Pretendere da Enel una grande opera di bonifica del territorio e di far parte di un progetto per creare un Polo di ricerca energetica da fonti rinnovabili per l’uscita dal carbone. L’insediamento di una elevata potenza fotovoltaica sul vastissimo territorio carbonifero consentirebbe l’accumulo di energia in idrogeno per elettrolisi, da distribuire alle utenze anche attraverso celle a combustibile.

2. Chiedere al Comune e alla Regione un piano di ambientalizzazione di Civitavecchia che la metta in grado di alimentare energeticamente l’intero comprensorio di afferenza in maniera sostenibile, utilizzando allo scopo modalità di produzione di energie rinnovabili a tecnologie correnti ed accumuli elettrici.

3. Avanzare alla compagnie che hanno accesso al porto la richiesta di alimentare le necessità portuali correnti, in prevalenza uffici, climatizzazione e refrigerazione dei magazzini, mediante produzione di energie rinnovabili a tecnologie correnti e implementazione di azioni mirate all’incremento dell’efficienza energetica degli edifici.

4. Esigere dalla compagnia portuale l’elettrificazione delle banchine portuali e una azione sperimentale su scala reale, volta all’utilizzo di tecnologie innovative zero-emissioni per le attività di movimentazione portuale (container, auto, merci non deperibili e deperibili, gruistica e cantieristica navale).

5. Impegnare il governo e le imprese in una implementazione significativa di sistemi sperimentali di produzione di energia in ambito marino ad elevata maturità tecnologica (energia dalle onde e dalle correnti marine, compresa una sperimentazione on e off-shore di impianti eolici innovativi).

6. Chiedere ai gestori della rete elettrica di strutturare una Smart Grid, consistente in una rete “intelligente” per la gestione puntuale dell’informazione e dei sistemi di produzione energetica, degli accumuli di corrente effettuati, sia diretti che tramite produzione di idrogeno.

Al di là delle puntualizzazioni che presumono confronti (e conflitti, se è il caso), va apprezzato uno sforzo di risveglio della buona politica e della bella cultura con le forze sane che esistono sul territorio e, augurabilmente, il contributo delle realtà produttive, sindacali e associative della città. In primavera è prevista una partita di calcio che, come nella realtà, vedrà il Comitato Sole contro il resto del mondo. Una sorta di metafora di una contesa per dimostrare che la partita è tutta da giocare.

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Venezia, anche la finanza è in allarme per il clima. E la partita per la svolta green è ancora aperta

L’allagamento di Venezia apre una fase nuova nella sensibilità della popolazione e allarga un solco più profondo nei confronti di quella politica che ha sempre negato l’emergenza climatica, magari cercando nei migranti o nella difesa dei confini la panacea alla crisi più profonda dal dopoguerra e, forse, della storia dell’umanità. Il futuro batte alla porta dei sordi rinchiusi nelle stanze del potere, ossessionate da un presentismo irresponsabile. E non si tratta di un futuro da 0,2% più o meno del Pil.

In un post di un anno fa avevo ammonito sulla perdita di siti di valore inestimabile come Venezia e Aquileia per l’innalzamento dei mari e avevo ricevuto commenti spesso irridenti. La realtà è stata perfino più crudele dei timori avanzati. Oggi l’urgenza si sta tramutando in un tempo che viene a mancare.

In uno studio pubblicato da Nature Climate Change e riportato in sintesi dal Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici, studiosi di grande serietà proiettano i loro modelli su due aspetti fin qui poco analizzati: il decremento di produttività complessiva (lavoro e natura) dovuta al clima e l’effetto importante che ne ricade sulla stabilità del sistema finanziario.

Viene stimato che il Pil nelle regioni italiane da qui alla seconda metà del secolo, differenziato a seconda della latitudine, avrà un rallentamento della crescita di meno 8 punti (sette volte il rallentamento stimato oggi dagli economisti!) mentre si registrerà un incremento ulteriore delle disuguaglianze economiche tra Nord e Sud.

Massimo Tavoni e Francesco Bosello, coautori del rapporto, dimostrano l’affidabilità delle loro previsioni: “Disponiamo di una risoluzione spaziale molto più dettagliata, nell’ordine di 100, 50 o addirittura di 10 chilometri quadrati come in questo studio, anziché riferirsi a medie nazionali. Combinando i dati economici con i dati climatici, entrambi ad alta risoluzione spaziale, possiamo comprendere la relazione storica tra temperatura e crescita economica a livello di cella geografica”. E già adesso sappiamo che è ben diverso abitare a Varese o in Liguria o nella laguna veneta…

In base a un’analisi dettagliata, se ne ricava che la temperatura ottimale per l’economia del Paese, quella che consente di massimizzarne la performance economica, è 11,5°C: già oggi in alcune regioni la temperatura media supera tale valore e lo supererà sempre in misura maggiore, comportando una riduzione della produttività e della crescita economica, come conseguenza degli impatti dei cambiamenti climatici.

Per effetto dei cambiamenti climatici, i fallimenti delle banche diventeranno in futuro sempre più frequenti, mentre la finanza pubblica dovrà sostenere costi sempre più elevati per salvare le banche insolventi, con un’esplosione del debito pubblico. Le crisi finanziarie hanno certamente ripercussioni sull’economia, perché causano una riduzione della produzione e dei consumi, ma anche sulla finanza pubblica, per un aumento dei costi necessari alla ristrutturazione del sistema finanziario da parte dei governi.

Il cambiamento climatico e gli eventi estremi ad esso associati come alluvioni, frane, innalzamento del livello del mare e tempeste possono, per esempio, aumentare le infrastrutture a rischio e ripercuotersi negativamente sulle compagnie assicurative, per effetto dell’innalzamento dei premi. Per le stesse imprese aumenterebbero le insolvenze, che, riverberate su scala globale, come quelle sperimentate nel corso della crisi finanziaria del 2008, costringerebbero i governi a intervenire.

Lo studio di Nature per la prima volta prova a quantificare tale effetto: i fallimenti delle banche in futuro sarebbero, a causa dei cambiamenti climatici, più frequenti (da +26% fino a +248%); salvare le banche insolventi comporterebbe un costo per i governi pari a circa il 5-15% del Pil all’anno, portando a un’esplosione del debito pubblico, che potrebbe arrivare a raddoppiare nel 2100. I due fattori esaminati suggeriscono di concentrare gli sforzi sul raggiungimento delle emissioni zero nette globali il più rapidamente possibile.

Proprio in questo contesto il 14 novembre la Bei ha deciso una nuova politica di prestiti energetici, ponendo fine al sostegno a progetti di combustibili fossili (compreso il gas naturale) alla fine del 2021. La nuova politica energetica non era riuscita a ottenere sostegno in una prima discussione in ottobre, con Paesi come la Germania – divisa tra i vari ministeri – e l’Italia compattamente contro. Per queste contrarietà, la data definitiva è stata spostata dal 2020 al 2021.

Ungheria, Polonia e Romania hanno votato contro la nuova politica. Cipro, Estonia, Lituania e Malta si sono astenute tutte per mancanza di flessibilità sul gas. Austria e Lussemburgo hanno escluso il voto a causa di ciò che hanno percepito come una linea di apertura all’energia nucleare. E’ interessante questa dislocazione, perché dice quanto e perché la partita sia aperta. Ma come farà il governo italiano a sostenere ancora l’utilità del gasdotto Tap e la riconversione a gas della centrale a carbone di Civitavecchia, contro un ordine del giorno votato all’unanimità dal Consiglio Comunale?

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Cambiamenti climatici, le banche tifano per i combustibili fossili. Ma la natura non può più aspettare

In queste giornate di forti emozioni e coinvolgimento, creati dall’entrata in campo di un nuovo movimento schiettamente giovanile che si organizza su un terreno colpevolmente ignorato dai governanti delle generazioni passate, lascio alla testimonianza diretta degli eventi che si manifestano nelle assemblee e nelle piazze di tutto il pianeta il compito di trasmettere il loro potentissimo messaggio di fondo. Qui invece vorrei riflettere su un aspetto poco trattato quando si parla dell’emergenza climatica e si afferma – giustamente – che non esiste una soluzione “di mercato” ai disastri ambientali. Vorrei, cioè trattare il ruolo che il capitale finanziario e le banche hanno nel dare continuità al sistema dei fossili, ostacolando la decarbonizzazione che deve avvenire in orizzonti temporali vicinissimi.

Bill Mckibben, un ambientalista statunitense attivo anche come scrittore e giornalista, definito nel 2010 dal Boston Globe come “probabilmente l’ambientalista più influente della nazione”, ha lavorato sul cambiamento climatico per 30 anni e dice di aver imparato a liberare la sua angoscia e a tenerla sotto controllo. Ma, negli ultimi mesi, ammette che la sua angoscia vera riguarda i suoi figli. Lo scorso autunno gli scienziati climatici di tutto il mondo hanno affermato che, se vogliamo raggiungere gli obiettivi fissati nell’accordo sul clima di Parigi del 2015, abbiamo a disposizione un numero di anni che non vanno al di là delle dita delle mie mani.

Nel mondo di Trump, Putin, Bolsonaro e delle compagnie di combustibili fossili che li sostengono, sembra impossibile modificare il quadro che si prospetta. Invece non è nemmeno tecnologicamente impossibile: nell’ultimo decennio è stato abbassato il prezzo dell’energia solare ed eolica rispettivamente del 90 e 70 per cento. Ma non basta, se oltre alla tecnologia non muta la direzione dell’economia capitalista e se non entra in campo, assieme ai movimenti planetari degli studenti e delle donne, il movimento delle lavoratrici e dei lavoratori che sentano la riconversione ecologica come il principale obiettivo contrattuale.

C’è un ruolo delle banche e della finanza, che di frequente viene occultato e che ritarda le misure urgenti per combattere il cambiamento climatico in corso. Chi concentra la maggior parte del denaro e della ricchezza creata a spese del lavoro e della natura, ha un potere che potrebbe essere esercitato in pochi mesi se cessasse di finanziare i fossili. Mckibben suggerisce che la chiave per interrompere il flusso di carbonio nell’atmosfera sia quella di interrompere il flusso di denaro verso carbone, petrolio e gas.

L’industria ha nelle sue riserve cinque volte più carbonio di quanto il consenso scientifico pensi che possiamo tranquillamente bruciare. Un’istituzione religiosa dopo l’altra si è spogliata di petrolio e gas e Papa Francesco ha convocato i dirigenti del settore energetico in Vaticano per dire loro che devono lasciare il carbone sottoterra.

Ma il sistema bancario si è unito alle industrie del fossile per impedirne l’uscita di scena. Nei tre anni trascorsi dalla fine dei colloqui sul clima di Parigi, la banca Chase ha investito 196 miliardi di dollari in finanziamenti per l’industria dei combustibili fossili, molti dei quali per finanziare nuove iniziative estreme: trivellazioni in acque ultra-profonde, estrazione di petrolio artico, trivellazioni nell’Adriatico. Nei fatti Jamie Dimon, il Ceo di JPMorgan Chase, è un barone del petrolio, carbone e gas quasi senza pari. Lo stesso vale per le attività di gestione patrimoniale e assicurativa: senza di esse le società di combustibili fossili rimarrebbero quasi letteralmente a corto di gas.

Nei tre anni successivi alla firma dell’accordo sul clima di Parigi, i prestiti delle banche all’industria sono aumentati ogni anno e gran parte del denaro va verso le forme più estreme di sviluppo energetico. Tutti sanno che prima o poi l’era dei combustibili fossili finirà, e se una banca gigantesca come Chase – o altre analoghe – si ritirasse, invierebbe un segnale inconfondibile di un’imminente “bolla del carbonio”, con danni gravi per i vettori ferroviari, i proprietari di porti e le imprese appaltatrici di carbone o dipendenti dal gas. Un danno che tuttavia impallidirebbe a fronte del tipo di previsioni su quel che resterebbe del pianeta se l’industria dei combustibili fossili continuasse sul suo percorso attuale per un altro decennio.

Quando si riflette sulla dimensione di questi problemi, appare in tutta la sua povertà di strategia la dimensione della politica energetica nazionale, che garantisce la costruzione di gasdotti come il Tap o la riconversione delle centrali a carbone in impianti a gas fossile come previsto per Civitavecchia, con la prospettiva di un ritorno degli investimenti a 25 anni, quando le tariffe pagate dai cittadini in bolletta continueranno magari a essere incassate, mentre la natura non avrà più risorse sufficienti a rigenerarsi.

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Nucleare, la Germania ordina pastiglie anti-radiazioni per tutti. E purtroppo l’allarme è giustificato

Due settimane fa ilfattoquotidiano.it dava una notizia sorprendente, almeno a prima vista: un maxi ordine da 190 milioni di compresse di iodio anti-radiazioni era stato inoltrato a un produttore austriaco dall’Ufficio federale tedesco per la protezione dalle radiazioni. E’ noto come lo iodio “buono” agisca saturando la tiroide e impedendo che si accumuli nella ghiandola quello radioattivo, in grado di provocare tumori. Notizia ghiotta, ma a prima vista stravagante.

Dopo un G7 che finalmente si è accorto che l’Amazzonia brucia, che in Iran è meglio trattare che bombardare, che la guerra dei dazi rende tutti perdenti, come mai torna in vita la paura del nucleare? Dopo gli abbracci, tra una prova missilistica e l’altra, tra Trump e Kim Jong-un e dopo la clamorosa uscita di scena, almeno negli Usa e in Europa, dei reattori nucleari come prospettiva energetica risolutiva.

In effetti, il cambio di cultura imposto dalla minaccia della catastrofe climatica impone non solo il controllo delle emissioni climalteranti, ma anche il pieno controllo sociale delle tecnologie per prendersi cura della Terra e l’incompatibilità tra radiazioni e salute dell’intera biosfera si è rivelata insormontabile. Così, il nucleare civile è ormai residuale negli Stati Uniti dove fornisce un contributo alla produzione di elettricità del 20% proveniente da 99 reattori nucleari attivi con un’età media di circa 37 anni, mentre in tutta l’Ue si prevedono dismissioni e abbandoni, con i due grandi reattori di Areva ancora di là da venire.

Da dove viene allora l’imprevisto ordine tedesco di immunizzazione radioattiva della popolazione, quando la guerra nucleare passa per un esercizio maniacale di Trump e sono solo 451 i siti nucleari civili attivi nel mondo contro 63mila impianti tradizionali, che invece attirano le maggiori preoccupazioni per le emissioni di CO2? Bastano quattro considerazioni, purtroppo trascurate dai media, per giustificare l’allarme.

1. Il progetto di documento, chiamato Nuclear Posture Review, che espone la strategia nucleare degli Stati Uniti di recente elaborazione, consente l’uso di armi nucleari per rispondere a una vasta gamma di attacchi devastanti, ma non nucleari, alle infrastrutture americane, inclusi gli attacchi informatici. Il nuovo documento è il primo a espandersi oltre lo scambio di attacchi atomici, per includere i tentativi di distruggere infrastrutture di vasta portata, come la rete elettrica o le comunicazioni di un paese, in quanto sarebbero più vulnerabili alle armi informatiche.

La nuova strategia sotto Trump sarebbe la risposta pronta non solo ai progressi nucleari della Corea del Nord e dell’Iran, ma anche a quelli di hackering informatici da parte di Russia e Cina. Se il cyber può causare un malfunzionamento fisico delle principali infrastrutture con conseguenti morti, il Pentagono ha ora trovato il modo di “stabilire una dinamica dissuasiva” ricorrendo all’impiego della bomba nucleare. Anche a tal fine si è stabilito il prezzo per un rifacimento trentennale dell’arsenale nucleare Usa (comprese le B61 di Aviano e Ghedi!) in oltre 1,2 trilioni di dollari.

2. L’incidente nucleare dell’8 agosto, in una città della Russia sub-artica nella provincia di Archangelsk in Siberia (vedi Yurii Colombo su il manifesto, 14 agosto 2019), totalmente oscurato dall’entourage di Putin anche dopo che si è registrato un livello di radioattività 16 volte maggiore rispetto ai valori normali, si suppone dovuto a un’esplosione durante i test su un reattore con una fonte di energia a radioisotopi montato su un razzo da crociera. Programmi di ricerca simili sono stati condotti negli Stati Uniti. I dubbi sull’esplosione dell’8 agosto non sono legati tanto al tasso di radioattività ma al tipo di radiazioni emesse, su cui “si sa davvero poco”.

3. La maledizione di Fukushima: “Il governo giapponese inganna l’Onu, violati i diritti umani di lavoratori e bambini”. Così riferisce l’Ansa dell’8 marzo riferendo l’accusa di Greenpeace, che, a otto anni dal disastro dell’11 marzo 2011, pubblica un rapporto che certifica che i livelli di radiazione nella zona di esclusione e delle aree di evacuazione intorno alla centrale sono da cinque a oltre cento volte più alti del limite massimo e che in oltre un quarto dell’area la dose annuale di radiazioni a cui sarebbero esposti i bambini potrebbe essere 10-20 volte superiore al massimo raccomandato.

A distanza di otto anni dall’incidente non si vede nessuna prospettiva di soluzione. La rimozione del combustibile presente nelle piscine dei reattori danneggiati (per un totale di 1.393 elementi) è stata completata solo per l’unità 4, mentre per l’unità 3 dovrebbe iniziare entro quest’anno e solo nel 2023 per le unità 1 e 2. Un immane disastro nello spazio e nel tempo.

4. Infine c’è da prendere in considerazione il rilancio senza clamori della tecnologia nucleare, previsto da uno dei siti web più influenti sul piano delle politiche industriali. Il website “dell’innovazione e dell’industria manifatturiera Usa” con sede nel Michigan riporta che in Cina sono partiti due reattori “sicuri” che eliminano la necessità di sistemi di raffreddamento esterni, cosa che è fallita a Fukushima. “Questa tecnologia sarà sul mercato mondiale entro i prossimi cinque anni”, ha detto Zhang Zuoyi, il direttore dell’Institute of Nuclear and New Energy Technology di Pechino. “Stiamo sviluppando questi reattori per conquistare il mondo”. Intanto la Nasa sta collaudando il progetto Kilopower, un reattore nucleare compatto con il potenziale per alimentare le missioni sulla Luna, su Marte e persino nei più profondi tratti dello spazio.

Attenti, quindi, perché zitti zitti i militari più aggressivi e i sostenitori di una tecnologia che sfugge al controllo sociale e alla riproduzione della biosfera potrebbero ricominciare, magari dai missili, dai robot e dallo spazio, lontano da occhi umani, a riproporci una strada che sembrava desueta e da abbandonare definitivamente. Ma quanti altri disastri nucleari e quante tonnellate di pastiglie a mo’ di aspirina ci occorrono per costringere finalmente i politici – eletti per governare non solo il presente, ma anche il futuro dei nostri figli – a porre fine alla follia nucleare?

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Clima, così un’azienda americana del gas ha fatto propaganda contro le rinnovabili

In un articolo del The Guardian del 26 luglio compare una notizia che dà conto di come l’emissione di climalteranti da fossili possa venire spacciata – se non come un’attrattiva – almeno per un ripiego conveniente per la quota di popolazione più indigente e, di sovente, meno informata sul pericolo del cambiamento climatico. La vicenda è così rappresentativa di una manipolazione dell’opinione pubblica e dell’irriducibilità del negazionismo climatico da essere riferita in dettaglio.

Con una indiscutibile efferatezza la SoCalGas, la più grande utility americana per il gas (fornisce gas naturale a quasi 22 milioni di consumatori nella sola California), nota per essere il più fiero nemico del ricorso all’elettricità fornita dalle fonti rinnovabili, sta cercando di contrastare gli sforzi per limitare l’uso del gas naturale in California. Per farlo è arrivata al punto di costituire e finanziare un gruppo di consumatori che, beneficiando del titolo e dei vantaggi delle società “no profit”, nel loro statuto si sono dati l’obiettivo di spingere verso “soluzioni energetiche equilibrate”, consistenti nella diffusione di gas fossile in sostituzione di altri fossili maggiormente climalteranti.

E’ noto come nello stato della California il ruolo delle amministrazioni locali abbia favorito la diffusione delle rinnovabili, ormai largamente convenienti anche in bolletta, e abbia reso efficiente la rete elettrica in competizione con le reti di distribuzione di petrolio e gas. L’opinione pubblica manifesta ampio consenso alla politica energetica meno “trumpiana” di tutti gli States, ma la reazione delle maggiori corporation energetiche, legate al vecchio carro, non si sono fatte attendere. In particolare, la SoCalGas ha puntato sulle classi sociali più indigenti e meno acculturate e, in un’inedita attività di lobbying a sostegno della diffusione del gas naturale, ha finanziato, con l’aiuto di una società di esperti di pubbliche relazioni, il lancio di un “gruppo di consumatori senza scopo di lucro”, rivolto specificatamente agli insediamenti di immigrati meno facoltosi.

Il compito del gruppo consiste nel propagandare, con l’assistenza di consulenti, l’uso del gas naturale mixato a gas di origine biologica. Quali siano le quote del mix propagandato non è dato sapere ed è anzi considerato un’esca fasulla. L’importante è tener viva la rete di distribuzione attraverso le condotte di proprietà e non far subentrare al suo posto quella elettrica, conveniente sia per prezzo che per gli effetti sul clima.

Se si entra in dettaglio, l’episodio risulta davvero inquietante. Berkeley, California, è diventata la prima città degli Stati Uniti a vietare il gas naturale ed è proprio tra la popolazione locale che SoCalGas ha individuato alcuni leader latinos da stipendiare per sostenere la propaganda all’uso del gas nelle industrie e nelle municipalizzate. Il gas “rinnovabile” viene presentato come metodo alternativo per rendere più verde la rete fossile e combattere così la crisi climatica. Mentre i fautori dell’ambiente spingono le città a spegnere il gas, SoCalGas ha reso gratuite le bollette per i suoi propagandisti riuniti in una società registrata come C4Bes, facendone una entità indipendente in quanto no profit al fine di nascondere la sponsorizzazione diretta.

SoCalGas e C4Bes non negano l’esistenza della crisi climatica. Promuovono l’uso di gas “pulito” e “rinnovabile” sotto forma di metano catturato da caseifici, dagli impianti di trattamento delle acque reflue e dalle discariche e affermano che l’uso di biogas al posto del gas fossile ridurrebbe le emissioni e si dimostrerebbe più economico della piena elettrificazione. Ma il parere degli esperti del ministero per l’Energia a San Francisco afferma che “non si può decarbonizzare la conduttura semplicemente sostituendo il gas naturale fossile con gas rinnovabile” – come informa Michael Boccadoro, direttore dell’associazione per la sostenibilità delle aziende agricole della California “perché il potenziale di biogas da latte sarebbe troppo costoso per essere utilizzato in abitazioni o aziende e, alla fine, dentro i tubi continuerebbe a scorrere in prevalenza gas fossile”.

Ma cosa non si fa per spacciare per buono il gas anche nella temperie climatica di quest’estate terrificante! Andrebbe detto a Matteo Salvini, Giuseppe Conte e Luigi Di Maio, disposti a fare patti col diavolo pur di farci bruciare gas metano in più.

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