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Coronavirus, la fonte energetica più tradizionale si sta spegnendo: siamo in un’era nuova

La crisi da pandemia ci restituirà un mondo diverso. Lo si dice da più parti, anche perché si sta spegnendo, anche per una ragione di convenienza, la fonte energetica più tradizionale, che aveva reso possibile una crescita che, al più, si sarebbe dovuta governare, non rapidamente accantonare.

Da settimane i principali indici dei prezzi del petrolio oscillano, con brusche cadute e leggere risalite, fino ad assumere valori negativi, ben oltre quindi la grande crisi finanziaria del 2008 e 2009. Bloomberg ha titolato Il mercato del petrolio è in pezzi al punto che esiste il rischio di far saltare gli assetti geopolitici del mondo e, con un eccesso di offerta a prezzi stracciati, di dare la stura al mantenimento per un lungo periodo delle centrali termiche e dei veicoli a combustibile, ulteriormente vanificando gli sforzi per tenere sotto controllo il riscaldamento climatico.

In effetti, siamo di fronte ad una situazione assai complicata: è in corso, anche a causa dell’epidemia, una recessione globale e pesante; si è affacciato sul mercato un prodotto competitivo estratto in modo non tradizionale (lo “shale oil” prodotto negli Stati Uniti con la tecnica del fracking), e c’è il rifiuto dell’Arabia Saudita, impegnata in una faticosa alleanza con la Russia, di sobbarcarsi da sola il compito di tenere alti i prezzi del greggio per indebolire la concorrenza del prodotto estratto al di là dell’Atlantico.

Fino a questo ultimo mese il saliscendi del prezzo dei fossili sembrava tutto giocato all’interno della filiera degli idrocarburi, nella contesa sostanzialmente tra i due maggiori esportatori concorrenti dotati di tecniche tradizionali (Arabia e Russia) e il nuovo arrivato (Stati Uniti) che si rifornisce in casa propria di olio di scisto.

Ma il dilagare del coronavirus, che dall’inizio del 2020 sta mettendo in quarantena intere popolazioni e riducendo al lumicino le attività produttive e gli stessi consumi, non si direbbe solo una questione economica o sanitaria: con una aggressività inedita e una rischiosità imprevedibile evoca l’incertezza della permanenza della nostra vita sulla Terra. È così profondo il turbamento provocato da far pensare ad un “dopo” in discontinuità con il “prima”.

Rivedere a fondo il modo di produrre richiederà senz’altro anche un’accelerazione nei processi di decarbonizzazione. Il che porta a propendere più per lo smantellamento della poderosa rete dei fossili, anziché correre ai ripari con ingenti investimenti sulla salute, che sarebbe comunque destinata a peggiorare a velocità maggiori delle capacità di contenimento dell’inquinamento e delle catastrofi climatiche dovute al ricorso ai combustibili climalteranti.

Tanto vale allora vendere tutto il vendibile prima possibile, e investire i proventi in qualcos’altro (magari fonti rinnovabili, batterie, reti intelligenti etc.). Il lockdown di un paese dopo l’altro, con auto ferme, fabbriche chiuse e stop dei voli, ha provocato lo stop a nuovi investimenti nel settore estrattivo, il riempimento delle riserve strategiche disponibili e perfino la navigazione in acque extraterritoriali di grandi petroliere noleggiate e riempite di greggio.

Due sono le possibilità di uscita: usare prezzi stracciati dei fossili con l’inevitabile aumento delle emissioni di CO2 o, al contrario, accelerare verso la transizione alle fonti rinnovabili e al risparmio, disponendo di un sistema decentrato sul territorio, che si approvvigiona e consuma in forme cooperative e che riduce gli sprechi e gli effetti sull’ambiente e la salute.

La recessione in corso, a prima vista, fa pensare che energia a bassi costi sia un obbligo da sfruttare, almeno in un’ottica capitalista e aziendale. Ma l’opinione pubblica – ferita dall’esperienza e dalla genesi del coronavirus, non certo separabile dagli stili di vita e dal degrado presente nell’atmosfera – non sarà più facilmente disponibile a giocarsi il futuro di figli e nipoti per riprendersi tal quale un presente, oltretutto precario, insalubre e giocato sul filo delle guerre commerciali.

La pandemia ha spostato lo scenario in cui si discuteva della possibile carenza di fonti esauribili come petrolio, gas e carbone: il picco di Hubbert sarà quasi sicuramente raggiunto prima dalla domanda che non dall’offerta e lo stop e il prezzo degli idrocarburi non saranno determinati dallo svuotamento dei pozzi, ma dal rifiuto di impiegarli per i danni che hanno a che fare con la biosfera prima che con la geopolitica.

Nei fatti, ci si è preoccupati a lungo e sbagliando di prevedere prima di tutto il “peak oil”, il momento in cui la produzione avrebbe toccato il massimo per poi iniziare a diminuire: invece, al ,punto in cui siamo, si è capito che sarebbe arrivato prima il “peak demand”, il momento in cui la domanda mondiale sarebbe cominciata a calare. Non è una rivoluzione da poco, anche nel nostro modo di pensare: siamo in un’era nuova. E chi non ne vuole tener conto, vuole che l’Antropocene, in cui presuntuosamente diciamo di essere entrati, duri davvero poche generazioni.

Avanzano pensieri e visioni nuove che non avremmo pensato di veder piovere sulla Terra così presto e con così tanta angoscia. Peggio sarebbe però insistere e riproporsi di continuare a progettare il Pianeta come un proprio manufatto. Un mondo tutto sotto controllo, disconnesso dalla natura e dal resto del vivente, da consumare solo da parte di pochi, con un meccanismo vorace e predatorio, da cui ci si separa sempre più di rado.

Colpisce che tra le attività che non sono state poste in lockdown dal Governo durante la pandemia ci siano quelle estrattive e che, a quanto mi giunge notizia, stiano per attraccare a Civitavecchia carboniere di grandi dimensioni, per il cui scarico potrebbero circolare centinaia di autotreni dal porto verso la centrale, con spargimento di pulviscolo inquinante, consegnando all’Enel una città in ginocchio proprio quando la riconversione dell’area a fonti non fossili e a immagazzinamento di idrogeno potrebbe essere dietro l’angolo!

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Aerei da guerra ‘indispensabili’? Leonardo non si ferma ma le condizioni non convincono i lavoratori

Travolti dalla tragedia in corso e dall’affanno che ci opprime, diamo scarso rilievo a fatti straordinari, che indicano probabilmente il cambio di direzione del nostro futuro, reso precario da comportamenti ormai insostenibili e illusoriamente proiettato a non convivere con la natura la pace ed il diritto ad un lavoro sano e dignitoso.

Non ha avuto adeguata risonanza un fatto che per me, che abito vicino alle fabbriche aeronautiche di Varese che producono in prevalenza armamenti, rappresenta una svolta nel sentire e nell’agire popolare. All’Alenia Aermacchi (oltre 1000 dipendenti) tra sostegno alla salute in emergenza pandemica e difesa della produzione bellica, le lavoratrici e i lavoratori hanno scelto la prima. Rifiutandosi di stare al lavoro lo scorso fine settimana, nonostante la dichiarazione del Prefetto di Varese di “indispensabilità” delle loro prestazioni anche in tempi di coronavirus, hanno aperto un conflitto ed un confronto fin qui inedito. Eppure, Alessandro Profumo, ad di Leonardo – il gruppo cui appartengono Aermacchi e Agusta (caccia ed elicotteri ad impiego militare) – , sul Corriere della Sera era uscito con un titolo perentorio: “Tecnologia e sicurezza nazionale, Leonardo non si può fermare”.

Ma anche dopo “l’aiutino” del quotidiano lombardo l’azienda, di fronte alle resistenze dei dipendenti, si è dovuta rassegnare ad una trattativa con Fim, Fiom, Uilm locali e nazionali per il rallentamento della produzione, il rispetto delle esigenze personali e l’utilizzo delle compensazioni salariali per le fermate della produzione, da concordare con la presenza diretta dei delegati di fabbrica. L’accordo raggiunto sabato 28 marzo smentisce le motivazioni del Prefetto di Varese e le dichiarazioni della Direzione (che vede lo Stato come primo azionista) e che si possono riassumere in affermazioni che escludono ripensamenti a fronte della crisi epocale in corso. Infatti, nell’intervista sopra citata, l’ad afferma che “mai come in questi giorni ci siamo resi conto di quanto sia imprescindibile garantire i nostri confini” e – aggiunge – “Seguiamo con attenzione il dibattito che sta toccando anche il nostro settore, polarizzandosi sempre più verso una dicotomia salute-lavoro”. Ma “grazie al senso di responsabilità e al sacrificio di molti colleghi, che desidero ringraziare personalmente, Leonardo – in costante raccordo con il Ministero della Difesa in primis e con gli altri interlocutori istituzionali – ha continuato a garantire l’operatività e il funzionamento di servizi strategici ed essenziali per il Paese”.

Perché allora, ci dovremmo chiedere, non l’ha fatto direttamente con chi ogni mattina lascia la propria casa, si accompagna ad altri su sistemi di trasporto con pericolo di contagio e poi, al lavoro, si pone a contatto con altre persone a rischio per produzioni non “indispensabili”? Come si può perpetuare, senza un minimo di esitazione ed un irrinunciabile progetto di riconversione, la sopravvivenza della produzione di velivoli da guerra in quanto incorporano un “sistema industriale e la continuità di competenze di altissimo valore tecnologico, eredità di investimenti in ricerca e sviluppo”, che proprio perciò sarebbero da destinare ad emergenze sociali ed ambientali non più procrastinabili?

È un merito indubbio del sindacato unitario quello di aver retto e diretto la spinta delle lavoratrici e dei lavoratori senza recedere rispetto al loro diritto alla salute, e – chissà mai nel dibattito che si è aperto – alla pace e all’uscita dal sistema dei fossili, su cui continua a basarsi ogni attività che ha a che fare con le armi. Le buone ragioni esibite in questo frangente hanno dato già primi frutti. Leonardo ha comunicato di aver intrapreso una serie di iniziative per sostenere lo sforzo di tutti coloro i quali stanno garantendo con il loro impegno quotidiano le attività per il contenimento del contagio da Covid-19, nonché l’assistenza ai malati e alle loro famiglie. Perciò ha messo a disposizione della protezione civile velivoli ed elicotteri ed ha “lanciato la produzione di un primo lotto di valvole per supportare il progetto di valvole in materiale plastico, che consentono di modificare un particolare modello di maschere per la respirazione”.

Forse la scossa che viene dal lavoro, anche quando è autonomamente e democraticamente conflittuale con l’impresa, può aprire una strada inesplorata per la riconversione ecologica e la salvezza del Pianeta. Lo dice anche uno stuolo di firme, a partire da Silvio Garattini, Don Colmegna e Gino Strada, per bloccare in questa fase drammatica e ripensare a breve la destinazione delle attività non insostituibili. Un appello che conta ovviamente anche e proprio sul mondo del lavoro. A questo riguardo, non può che essere confortante che l’accordo sindacale per l’Aermacchi si concluda così: “Si conferma l’attivazione in sede locale di incontri di verifica e applicazione di quanto previsto nel presente protocollo anche alla luce dello sviluppo organizzativo delle attività produttive, che saranno condivise con le Rsu/Rls per garantire il massimo livello di sicurezza e prevenzione a tutela della salute dei lavoratori”. Di questo, aggiungono Fim, Fiom, Uilm, si ringraziano i lavoratori e le loro rappresentanze elette in fabbrica.

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Il trattato di non proliferazione nucleare compie 50 anni. Ma le grandi potenze continuano a tendere i muscoli

Il 6 e 9 agosto 2020, il mondo commemorerà il 75esimo anniversario dei bombardamenti atomici statunitensi di Hiroshima e Nagasaki. Quasi in concomitanza, i giochi olimpici – se il coronavirus fosse debellato – si dovrebbero concludere a Tokyo il 9 agosto.

Poiché il Trattato sulla non proliferazione delle armi nucleari (Npt) celebra oggi – 5 marzo 2020 – 50 anni dalla sua entrata in vigore, questo e quell’anniversario costituiscono un’occasione unica per educare le persone sulle catastrofiche conseguenze umanitarie delle armi nucleari e sul significato del nuovo Tpnw (Trattato delle Nazioni Unite per la proibizione delle armi nucleari), sostenuto dall’Ican (la Campagna internazionale per l’abolizione delle armi nucleari), rendendo pubblico sostegno al lavoro per vietare ed eliminare le armi nucleari.

Il mondo non è fermo al contesto del Npt, ma una nuova spinta propulsiva viene dalla iniziativa dell’Ican. Una proposta ancora più avanzata, che prevede un trattato di divieto di possesso e gestione delle armi nucleari e che finisce col rafforzare di fatto il Npt, messo in discussione unilateralmente dal presidente Usa Donald Trump.

Ma le grandi potenze continuano a tendere i muscoli: una nuova corsa agli armamenti nucleari è già in corso. Non si tratta tanto di armi in fase di progettazione o sviluppo, ma del rischio che una nuova corsa agli armamenti nucleari tra la Russia e gli Stati Uniti rappresenta per il mondo. Nell’agosto scorso gli Stati Uniti hanno mandato un segnale eloquente, ritirandosi dall’Intermediate Nuclear Forces Trea­ty (Inf) sui missili nucleari a corto e medio raggio, ed è noto che allo stato attuale è difficile che Stati Uniti e Russia rinnovino il Trattato New Start sulla riduzione delle armi nucleari strategiche, quando scadrà nel 2021.

Parimenti, nessuno dei due Paesi ha sottoscritto il Tpnw lanciato nel 2017. Cosa ancora più significativa, le strategie difensive della Russia e degli Stati Uniti continuano a consentire l’uso di armi nucleari contro minacce non nucleari, acuendo il rischio di un conflitto irreparabile. La Russia considera apertamente le proprie armi nucleari una difesa contro il dominio detenuto dagli Stati Uniti e dalla Nato quanto a capacità bellica convenzionale. Nell’ultima Nuclear Posture Review (Npr, i Rapporti del Pentagono sulla strategia nucleare degli Stati Uniti) del febbraio 2018, l’opzione nucleare è stata prevista contro gli “attacchi strategici significativi” non nucleari, compresi i terroristi e le armi biologiche e chimiche globali.

Tranne la Cina, nessuna potenza nucleare ha assunto l’impegno al No First Use, cioè a non ricorrere per primi all’impiego delle armi nucleari. In questo contesto la Conferenza di revisione del Npt, prevista per la prossima primavera, rischia di tramutarsi in una sorta di mischia generale diplomatica in cui gli Stati non nucleari rinfacceranno a quelli che posseggono armi nucleari, firmatari del Trattato (Stati Uniti, Russia, Regno Unito, Francia e Cina), di aver violato il loro impegno al disarmo ai sensi dell’articolo VI.

L’appuntamento sarà senza dubbio occasione di dibattiti e controversie, ma da essa potrebbe arrivare una spinta per rilanciare iniziative già approvate nelle Conferenze precedenti e tuttora da promulgare: per esempio, l’istituzione di una Nuclear Weapons Free Zone in Medio Oriente, così come un rinnovato impegno collettivo per sostenere il Npt.

La Conferenza Onu del 2017 sulla proibizione delle armi nucleari ha mostrato che c’è un consenso globale sulla loro abolizione tra gli Stati non nucleari, compresa la Santa Sede, e le organizzazioni della società civile. Nel corrente anno verrà organizzata una conferenza per trarre un primo consuntivo dell’azione intrapresa. Nel percorso di preparazione è emersa la resistenza della maggioranza non nucleare al “bullismo” degli Stati in possesso di armi nucleari, così come la volontà della maggioranza dei Paesi Onu di procedere per conto proprio alla definizione dei termini di sicurezza internazionale, fino a quando le grandi potenze, i loro alleati e alcuni “Stati ombrello” non saranno pronti a unirsi a essi.

Mentre a livello delle grandi potenze è in atto un indiscutibile processo di erosione del sistema di controllo degli armamenti nucleari; a livello internazionale è emersa invece una grande novità: su pressione dell’Ican è stato negoziato presso la sede delle Nazioni Unite a New York un nuovo trattato, con la partecipazione di oltre 135 stati e membri della società civile. Il 7 luglio 2017 la stragrande maggioranza degli Stati (122) ha adottato un accordo storico: il Trattato sul divieto delle armi nucleari (Tpnw).

Si tratta di una convenzione vincolante aperta alla firma dal 20 settembre 2017 e che entrerà in vigore dopo che almeno 50 Stati lo avranno ratificato. A partire dal 25 novembre 2019, 80 stati hanno firmato e 34 stati hanno ratificato questo trattato. Prima di una sua assunzione, le armi nucleari rimarrebbero le uniche armi di distruzione di massa non completamente bandite, nonostante le loro catastrofiche conseguenze umanitarie e ambientali.

Questo nuovo accordo colmerebbe un’importante lacuna nel diritto internazionale, “vietando ai paesi di sviluppare, testare, produrre, fabbricare, trasferire, possedere, immagazzinare, minacciare di usare armi nucleari o consentire lo spiegamento di armi nucleari nei territori”. La prospettiva aperta è entusiasmante: potrebbe addirittura avverarsi che nell’anno del 50esimo del Npt venga ratificato il Tpnw da almeno 50 Stati. “50+50” può essere lo slogan del pacifismo, anche se viene occultato dai media che operano per l’establishment muscolare che governa il pianeta e che traccia una line di continuità tra potenza militare, distruzione della natura. cambiamento climatico, controllo della popolazione, respingimento dei migranti.

Non a caso papa Francesco ha dichiarato che “è da condannare con fermezza la minaccia dell’uso delle armi nucleari, nonché il loro stesso possesso”. Ma, oltre alla sua determinazione, occorre convincere tutti noi, credenti e non credenti, che la pace, il disarmo e la giustizia climatica e sociale possono ancora risanare il pianeta malato.

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Energia, più gas e meno rinnovabili: un trucco fatale per il clima

Sconfitti sulla responsabilità del brusco cambiamento climatico in corso, i sostenitori dei fossili hanno cambiato spalla al fucile abbandonando carbone e petrolio in prospettiva e rilanciando a tutto campo il gas. Il “minore dei mali” tra i combustibili fossili consentirebbe di sostituire a breve il carbone e di mantenere il monopolio centralizzato delle multinazionali estrattive anche a spese di un incremento incontrollato di guerre sia economiche sia condotte sui campi fuori confine con gli eserciti più devastanti. Che la contesa sul futuro del Pianeta si giochi tra gasdotti e navi metaniere e rinnovabili appare ogni giorno più chiaro. Si sta passando dal negazionismo più bieco alla raffinatezza di “difendere” la possibilità di crescita dei più poveri (che si bombardano quotidianamente ad opera dei più ricchi).

Per fornire un’idea di come il confronto si vada facendo più aspro, man mano che il tempo viene a mancare e le lotte ricevono ispirazione da tante Grete e Francesco sparsi in tutti i continenti, faccio qui riferimento al caso degli Stati Uniti, dove tutto non va come ci raccontano gli amici di Trump. Sui web americani sono apparsi contemporaneamente due articoli molto informati e aggressivi: l’uno – di Anes Alic per Oilprice.com – a sostegno del gas come pietra angolare in una transizione energetica che dà per scontata l’irraggiungibilità di zero emissioni di CO2 per la metà del secolo; l’altro – di Dan Gearino – documentatamente convinto che il potenziale delle fonti naturali rinnovabili possa conseguire il traguardo che l’Ipcc giudica invalicabile.

1. Partiamo dal gas, col suo marchio “consevatore” e incompatibile con +1,5 °C

Anes Alic cerca dimostrare sotto il profilo economico le convenienze per i proprietari dei pozzi fossili, detentori allo stesso tempo della rete energetica centralizzata e sostenuti da ingenti finanziamenti pubblici. I prezzi del gas naturale – afferma – sono diminuiti molto più rapidamente di qualsiasi altra fonte di energia. Nel 2018, il gas naturale è costato 1,72 volte in più rispetto al carbone mentre costava 2,2 volte in più solo nel 2014. Questa è la vera ragione per cui il gas naturale sta rapidamente sostituendo il carbone come combustibile preferito per la generazione di elettricità in centrale. La domanda di gas continua a crescere a un ritmo vertiginoso (4,9% nel 2018), mentre la spesa per infrastrutture di grandi dimensioni continua a fluire nel settore (~ $ 360 miliardi nel 2018). Anche i prezzi del Gnl (liquido) sono diminuiti in media del 20% negli ultimi due decenni.

Gran parte dell’effetto può essere dovuta ad una sovrabbondanza di approvvigionamento unita a una capacità delle condutture insufficiente per trasportare la merce. Anes suggerisce di creare subito possenti infrastrutture, fin che l’economia e la distrazione dei governi sull’applicazione della carbon tax lo consente Il blocco di interessi che ha fatto fallire qualsiasi accordo alla Cop 25 di Madrid (Usa, Brasile, India e Cina e Australia) sta nella convinzione che per due decenni, il gas a basso prezzo e finanziato da danaro pubblico – shale gas compreso – sarà la chiave del dominio dell’energia, se non dell’immenso potere geopolitico oggi più articolato e meno ostile agli Usa. Infatti, il globo non deve più fare affidamento su un ristretto pool di produttori con una stretta nell’offerta, ma su addirittura su 21 nuovi produttori, con Stati Uniti e Australia che diventano importanti esportatori e con aumenti delle riserve accertate di gas naturale, mentre il Qatar, sta diventando il più grande produttore mondiale di Gnl, sottraendosi alle minacce di embargo dell’Arabia Saudita grazie ad un ammiccamento di Trump.

Il punto debole del risveglio del gas sta nelle inevitabili emissioni di CO2, ma il fatto che esse siano il 50% in meno rispetto al carbone e il 30% in meno rispetto al petrolio fa sì che venga sottovalutata una deprecabile e incontrollata crescita dei consumi: il gas finisce così coll’identificarsi con l’ossessione dello sviluppo, cementato in forme tecnologiche fortemente dipendenti e fortemente favorite dall’inerzia del sistema: ovvero il gas rappresenta oggi la reale resistenza al cambiamento.

2. Le rinnovabili: competitrici più accreditate per un’innovazione sostenibile

La rete elettrica degli Stati Uniti, scrive Dan Geraino, è sulla buona strada per diventare molto più pulita già nel 2020. All’11 febbraio 2020, dei 42 Gigawatt di nuova capacità della elettricità da immettere nella rete Usa proveniente dallo a Stato di New York, il 76% proviene già da energia eolica e solare, come si ricava dall’ultima serie di dati provenienti dall’amministrazione dell’Energia Usa.

Si tratta di una quota record, rispetto al 64% della nuova capacità aggiunta nel 2019. E lo sarebbe, nonostante la posizione ostile dell’amministrazione Trump nei confronti delle energie rinnovabili, comprese le tariffe sui pannelli solari importati dalla Cina e il rifiuto di estendere alcuni crediti d’imposta già programmati ai tempi di Obama, come afferma Joshua Rhodes, analista senior di Vibrant Clean Energy.

Ma il favore offerto al gas (in particolare al dannosissimo shale gas) fa sì che il mix di nuove centrali elettriche nel 2020 sia completamente dominato da eolico, solare e gas, con tutte le altre fonti di energia che si sommano a meno di un gigawatt, circa il 2%..

Ci sono tuttavia due impreviste novità: la prima sta nel fatto che la maggior parte della prevista crescita delle energie rinnovabili quest’anno – 18 Gigawatt – proviene da ben 107 progetti decentrati nei territori e sostitutivi di centrali fossili municipalizzate, i cui sviluppatori hanno iniziato la costruzione in tempo per beneficiare del credito d’imposta federale sulla produzione. La seconda è addirittura più sorprendente: i costi per lo sviluppo di parchi eolici sono diminuiti così tanto da essere le opzioni meno costose, anche senza sovvenzioni. Nientemeno che il Texas dei petrolieri, sorprendentemente, guida la nazione americana nella capacità di energia eolica e sarà anche il leader della nuova capacità eolica prevista nel 2020, con il 32% in totale.

Chi vincerà la sfida? Non ho dubbi che dipenderà dalla forza del movimento che combatte il cambiamento climatico. La tecnologia si adatta ai progetti sociali, oltre che alle convenienze economiche. Ci sono parchi eolici negli Stati delle Pianure americane che operano ad alto livello per gran parte del giorno e della notte e ci sono impianti a gas che rimangono inattivi per la maggior parte del tempo. Poiché l’eolico e il solare continuano a rappresentare una grande percentuale di nuove centrali elettriche, gli operatori di rete dovranno adattarsi ai sistemi in esecuzione che dispongono di grandi quantità di energia intermittente. Google e l’utilità NV Energy stanno collaborando per un progetto di accumulo di energia solare ed energia che secondo le aziende è il più grande del suo genere al mondo. Questo è il futuro e lo sarà, spero, anche da noi, già a partire dalla riconversione del carbone a Civitavecchia.

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Clima: ricorrere al metano è inutile, eppure le lobby lo rilanciano. Quindi a tutto gas

L’Accordo per limitare a 1,5 °C l’aumento di temperatura al 2030, ha suggerito alle lobby fossili il rilancio del metano come “rimedio”, a sostituzione dell’eccesso di emissioni dovute alla combustione di carbone e petrolio. Il punto di forza, a dire dell’Eni sta nel fatto che, mentre il carbone produce CO2, in ragione di 350-400 grammi per kWh, il gas “si ferma solo a 200 grammi/kWh”. Quindi… a tutto gas!

La verità è che sì, il gas naturale inquina meno di petrolio e carbone, ma inquina, eccome. Come “soluzione ponte” per approdare alle rinnovabili non ha ragione di esistere: anzi, chiudere un occhio sul metano, corrisponderebbe a mancare l’obiettivo più importante di totale decarbonizzazione per la metà del secolo. Qui sotto illustro tre motivazioni per non ricorrere al gas, pena il non raggiungimento degli obiettivi ritenuti necessari dall’Ipcc.

1. Si è recentemente scoperto che il metano (per oltre il 99% componente del gas naturale) è anch’esso un potente gas serra (una tonnellata di metano equivale a 25 tonnellate di anidride carbonica) ed è aumentato nell’atmosfera, non solo come prodotto di esalazione di paludi, allevamenti bovini, risaie, discariche, ma, soprattutto, come fuoriuscita da depositi superficiali e, in particolare, da attività minerarie dirette proprio all’estrazione di combustibili fossili.

Si libera in maggior misura in atmosfera nella forma di CH4 sia quando si ricorre a perforazioni non convenzionali sia quando si estrae shale gas. Le ricerche più accurate affermano che nell’ultimo decennio la dispersione di metano dall’attività mineraria supera quella proveniente da fonti biogeniche.

In definitiva, chi suggerisce (o impone) l’impiego massiccio della fonte fossile “meno sporca”, si limita a una comparazione di emissioni di CO2 alla combustione, ma glissa sul fatto che all’estrazione e nel corso della trasmissione venga disperso gas metano, ancor più pericoloso per il clima dell’anidride carbonica (le perdite dai tubi dei metanodotti non sono mai inferiori al 3%).

2. Non basterà sostituire gas al carbone per arrivare a 1,5°C. Si calcola che, se tutto il carbone fosse sostituito da metano, usando le esistenti centrali a ciclo combinato, diminuiremmo le emissioni di CO2 di 15 milioni di tonnellate. Se invece la stessa quantità di elettricità venisse prodotta da nuove fonti rinnovabili, le ridurremmo di 26 milioni di tonnellate. Non basterà quindi il passaggio dal carbone al gas, ma occorrerà – e questo non lo si vuol ammettere – puntare su tecnologie di sequestro sottoterra della CO2 prodotta in eccesso.

Questa scommessa rischiosa ignora che non è affatto provato che le tecnologie di sequestro funzionino. Servono solo come specchietto per le allodole per ritardare l’adozione di misure immediate e, qualora fossero messe a punto, comporterebbero un onere economico ingiusto per le generazioni future e aumenterebbero significativamente l’insicurezza alimentare e idrica.

Infatti, un gas letale e inodore come la CO2, più pesante dell’aria, sarebbe una minaccia incombente, dato che eventuali fughe non sono avvertibili ai nostri sensi e i terreni coltivabili sotto cui porre in custodia il prodotto di una follia umana diventerebbero inservibili.

3. Anche sotto il profilo dei costi il vantaggio del gas non regge. Oggigiorno l’energia rinnovabile può ormai sostituire profittevolmente il carbone come generazione di massa, risparmiando nel contempo il denaro dei consumatori. In una proiezione futura, il confronto gas-rinnovabili è ancor più penalizzante per il primo. Le infrastrutture multimiliardarie del gas, eventualmente messe in opera oggi, verrebbero progettate per funzionare per decenni a venire.

Si tratta infatti di infrastrutture ad alta intensità di capitale che richiedono lunghi periodi di funzionamento per remunerare gli investimenti. Una volta che il capitale è stato impiegato, l’operazione è destinata a continuare finché i ricavi superano i costi operativi marginali. Ma la crisi climatica ha tempi bruschi e la sua precipitazione suggerisce di evitare di mettere in opera nuovi progetti sul gas, le cui emissioni “a vita intera” non rientrerebbero nei bilanci del carbonio previsti dall’accordo di Parigi e tanto meno dai suoi aggiornamenti.

Possiamo concludere che in Italia il gas come risorsa di transizione non ha ragione di essere. Purtroppo, non è quello che sta scritto nel Piano clima (Pniec) del governo. La percentuale del gas fossile rimane il 37% del totale del fabbisogno primario e solo per il 2040 si prevede una riduzione della sua percentuale al 33%.

Le fonti rinnovabili crescono solo dal 18% al 28%. Intanto, è confermata la partecipazione di Snam ed Eni ai nuovi metanodotti, così come la necessità di dotarsi di nuovi terminali (“gassificatori”) di importazioni di Gnl (gas liquefatto) anche da Paesi impegnati nell’estrazione di shale gas.

Che fare allora della Tap (Trans Adriatic Pipeline), del progetto di riconversione a gas del carbone di Civitavecchia e della metanizzazione della Sardegna? A chi giova un errore di previsione così incomprensibile a fronte dei dati forniti dalle previsioni climatiche?

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