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Civitavecchia: con l’idrogeno verde ha l’occasione di mettere d’accordo economia e ambiente

C’è un autentico fervore attorno agli auspici dell’Unione Europea per un impiego dell’idrogeno verde (cioè prodotto per idrolisi da rinnovabili) all’interno di un profondo rifacimento del sistema energetico continentale. Naturalmente, essendo uno dei caposaldi della riconversione ecologica, le lobby e i poteri economici dei vari settori si stanno già scontrando aspramente a favore del cambiamento o della conservazione.

La competizione – ovvero lo scontro – maggiore è tra uno spostamento deciso verso i vettori elettricità e idrogeno rispetto al mantenimento di un ruolo massiccio del metano in una lunga e perniciosa fase di transizione. Ho già trattato in post precedenti la questione e accreditato la scelta del superamento definitivo del gas confortandola con il suffragio di studi recenti e assai prestigiosi.

Naturalmente, la tragedia della pandemia in corso ha reso ancor più stringente una scelta che non aggravi le condizioni climatiche, di salute, di inquinamento derivanti dalla combustione di carbone, gas e petrolio. Ora si tratta di mettere urgentemente sul tavolo piani di fattibilità esemplari laddove i danni dell’assetto energetico precedente ha maggiormente martoriato i territori.

La situazione di Civitavecchia è per questioni oggettive (un carbonifero da tempo insostenibile) e per una collocazione geografica favorevole (uno snodo logistico con un porto al bordo del terreno della centrale da smantellare), da trattare con priorità assoluta, anche perché può godere della presenza di una elevata coscienza diffusa tra la cittadinanza, sostenuta da comitati locali per le rinnovabili e contro i fossili, nonché dalla presenza di grande attenzione tra gli studenti preoccupati per il loro futuro. A quanto ne so, la stessa Amministrazione locale e la Regione Lazio risultano informati delle prospettive di riconversione aperte.

Ora si pone una questione cruciale, che spesso ha privato il nostro Paese di occasioni straordinarie. Ne so qualcosa da quando la Fiat e la Giunta Lombarda, nel primo decennio del 2000, hanno fatto saltare la riconversione dell’Alfa Romeo di Arese ad un progetto di mobilità sostenibile che avrebbe anticipato la svolta in corso sul traporto “dolce”. La questione riguarda i tempi e l’accelerazione delle decisioni da prendere per evitare lo smacco della destinazione dei fondi europei ad altre nazioni più sollecite nell’avanzare progetti innovativi realizzabili.

Per ora in Italia Centrale è stato avanzato un piano di Aecom per la ricostruzione delle aree terremotate nel 2016 attraverso quattro macro-aree di intervento, con produzione e utilizzo di idrogeno verde tra l’Appennino abruzzese e i territori coinvolti nel sisma del 2016, l’idrogenizzazione delle ferrovie abruzzesi, compresa quella che collega Fiumicino alla costa adriatica.

Tutto bene, a meno che, tra qualche anno, non accada il paradosso di ritrovarci a pagare alla multinazionale americana Aecom l’idrogeno ed i servizi da questa prodotti ed implementati grazie ai soldi destinati al Recovery Fund da loro utilizzati! Qui una domanda sorge spontanea: ma perché aziende italiane, specie quelle a maggioranza e controllo pubblico tipo, Enel, Eni, Snam etc. non hanno pensato loro a sviluppare questi progetti?

Così Enel a Civitavecchia e in Italia rischia di perdere il treno dell’idrogeno. Perché invece non rilancia anche per qualità e quantità occupazionale una città che tanto ha contribuito all’economia del Paese, subendo impatti, diseconomie e purtroppo anche malattie?

Bonifichi e sviluppi, insieme ad altri partner tecnologici, un centro di ricerca di energia sulle fonti rinnovabili di frontiera, anche rivolte alle attività portuali, mentre l’area della centrale smantellata diventi il sito di produzione fotovoltaico di idrogeno verde, con solare ed eolico on ed off-shore così da fornire elettricità e idrogeno a tutte le attività di prossimità.

il tessuto economico è da troppi anni logorato dalla monocultura energetica, che ha portato la città alla subalternità alle scelte dell’Enel, subendo da tempo, per di più, il pesante inquinamento dovuto al carbone. Ora il carbone è in dismissione, e oltre al danno viene proposta la beffa di una riconversione fossile a gas che oltre ad essere climalterante non è neanche lontanamente in grado di compensare l’occupazione persa dalla giusta dismissione del carbone.

Il porto, mai decollato come importante nodo logistico, è tra i primi porti del mediterraneo per attività crocieristica. La città subisce l’inquinamento delle grandi navi, ma per la sua economia il turismo crocieristico è di impatto minimo. Ed ora la pandemia ha dato il colpo finale anche a quel minimo impatto del turismo da crociera: rimane solo l’inquinamento delle navi ormeggiate.

Oggi Civitavecchia si trova indiscutibilmente ad essere area di crisi economica ed industriale, il progetto Idrogeno verde al posto del gas può essere la risposta in piena coerenza con le linee guida della Commissione Europea nonché con le condizionalità ambientali richieste per l’accesso ai fondi europei.

L’idrogeno così prodotto in particolare sul terreno dell’ex centrale a carbone e integrato e messo in rete con altri siti alimentati da rinnovabili (comprese maree, eolico e pompe di calore) sarà stoccato per un suo successivo riutilizzo come combustibile chimico per sistemi a fuel cell, con utilizzo nei trasporti e nella generazione di potenza, senza rilascio di CO2 e inquinanti.

Le norme europee, le regole del Recovery Fund e i piani di investimento da programmare renderebbero la centrale a gas di Civitavecchia, come tutte le nuove centrali a gas in via di costruzione, già obsolete prima di aver messo il primo mattone in opera. Non è un buon modo di utilizzare denaro pubblico, soprattutto nel quadro della situazione di crisi e degli impegni da prendere in Europa.

Con la riconversione qui prospettata si unirebbero risanamento ambientale e ripresa economica e ne uscirebbero avvantaggiati (win-win) una volta tanto sia i cittadini, che gli occupati, che le istituzioni, che le imprese, una volta tanto rispettose dell’ambiente e della salute.

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Civitavecchia, basta combustibili fossili: ora servono rinnovabili, idrogeno e lavoro

Da anni Civitavecchia registra mobilitazioni popolari contro la combustione in atmosfera di fossili per produrre elettricità a basso prezzo, ma a danno della salute. Come è ormai pratica consolidata, gli enti energetici provano a rinnovare i loro impianti inquinanti laddove il territorio ha già subito una ferita precedente, nella presunzione che la cittadinanza locale si rassegni più facilmente rispetto ad un’altra cui venga prospettato l’insediamento di una centrale mai allestita in precedenza.

È successo già così tra Lodi e Piacenza, nella bassa padana verso la confluenza del Po, nella Puglia o lungo le rive del Mar Ligure, dove pezzo dopo pezzo sono state rianimate e potenziate le centrali che nel tempo diventavano obsolete. Un disagio già subito e pagato con tassi abnormi di malattie, si può ulteriormente monetizzare con qualche risarcimento in più e agitando lo spettro della disoccupazione.

Dopo il Covid 19, a fronte della crisi climatica e con la prospettiva di una profonda crisi economica che richiede un cambiamento nel modo di produrre e di consumare, parrebbe che in Italia, al pari che nei Paesi dell’Est, non si sia ancora prodotto un ripensamento rispetto ad una strategia energetica che è sottoposta invece in tutta Europa a una radicale riconversione.

Mi sembra che il caso di Civitavecchia meriti di diventare esemplare e possa concentrare le risorse intellettuali, culturali, economiche e professionali migliori per riconvertire l’intero territorio – centrale a carbone, porto e mobilità – in base ad un modello basato su 100% rinnovabili, zero emissioni climalteranti e idrogeno da rinnovabili come vettore complementare all’elettricità, già in funzione entro i prossimi venti anni. Niente gas, quindi, né tantomeno gassificatori, magari come ponti per la metanizzazione della Sardegna.

Saremmo così in linea – e non solo a parole – con l’obiettivo di Parigi di stare al di sotto di 1,5°C di aumento di temperatura e con il Green Deal europeo lanciato dalla Von Der Leyen. Sostenendo questo scenario la Giunta della Città e della Regione metterebbero a tacere i timori che la spartizione di poltrone debba risentire degli equilibri che Enel ed Eni trattano nelle loro stanze.

Naturalmente, occorre avanzare un progetto complessivo, avere alle spalle centri di ricerca e finanziamenti, nonché agire in sintonia con l’Europa e saper conseguire un obiettivo così esemplare con il coinvolgimento della cittadinanza, del sindacato, degli operatori economici e in una alleanza sull’intero territorio, che va al di là del solo perimetro del sito carbonifero oggi occupato.

Proprio perché il porto vive una crisi che parte da lontano e che si è aggravata con il Covid, bisogna andare oltre soluzioni solo settoriali, tener conto dell’intero sviluppo della logistica integrata, della cantieristica navale, dello sviluppo di un turismo di qualità che valorizzi la bellezza del paesaggio e la storia culturale anche di prossimità.

Fatte queste considerazioni preliminari, invito a prendere in considerazione e a riferimento uno straordinario progetto, avanzato da Solar Power e dall’Università finlandese Lut, di cui ho trattato nel post precedente e che sembra fatto apposta per una situazione come quella qui in esame. Si tratta di un progetto dettagliato, che suggerisce soluzioni distinte per area geografica e addirittura per stagione a seconda delle località situate nel nostro continente: complessivamente, in oltre 80 pagine, esamina tre scenari distinti di cui uno solo contempla il ricorso al gas.

Nella comparazione effettuata con grafici, dati aggiornatissimi, proiezioni e tabelle, si dimostra che il ricorso al gas (definito “percorso a bassa ambizione”) anziché all’idrogeno prodotto da fonti rinnovabili sarebbe per la società in tutta Europa e in particolare nell’area del Mediterraneo un onere, sia dal punto di vista del cambiamento climatico sia dal punto di vista economico.

La riconversione di un sistema centralizzato come l’attuale richiederebbe una programmazione di medio periodo e interventi coerenti a largo raggio. Occorrerebbe, naturalmente, dare priorità all’elettrificazione a base rinnovabile dell’intera economia del Paese, spianando la strada allo sviluppo di un settore competitivo, basato sullo spiegamento accelerato di risorse energetiche di flessibilità decentralizzata, di cui il solare e il vento off-shore sarebbero i pilastri. Ciò significa lanciare una strategia industriale solare, sviluppare competenze e programmi di formazione per sbloccare il potenziale di lavoro e occupazione qualificata nel settore solare.

Nel nostro caso esistono già competenze e ricerche avanzate che hanno proprio nel Lazio e in Centro Italia punti di convergenza e di interesse internazionale. Il ricorso all’idrogeno prodotto da rinnovabili, oltre alla funzione di stoccaggio di energia, avrebbe un’applicazione virtuosa sia per le banchine del porto che per il ridisegno della mobilità, sia su strada, sia per tratti di ferrovia minori, sia per il trasporto via mare. Lo studio quantifica in sei milioni la nuova occupazione in Europa nello scenario che raggiunge la neutralità climatica già nel 2040 con un costo dell’energia del 17% inferiore a quella prodotta dall’attuale mix energetico, per la massima parte fossile. Una formidabile occasione per il Paese che più ha sofferto la pandemia.

L’Espresso in edicola il 5 luglio esamina in un interessante articolo la presa in considerazione da parte degli enti a partecipazione statale di progetti di sviluppo con esplicito riferimento al superamento del metano e allo sviluppo della filiera delle rinnovabili e dell’idrogeno per risollevare e modernizzare il Paese e, quindi, evitare una bomba sociale, oltre che fare della cura del pianeta e della salute del vivente l’obiettivo per le nuove generazioni.

Molte sono le novità che dovranno intervenire per affrontare le emergenze che potrebbero trovare nel lavoro e nei più indifesi le vittime più esposte. Per stare in concreto, onde evitare, ad esempio, che le piccole aziende metalmeccaniche che vivono con l’indotto della centrale Enel segnino il passo di una lunga e dannosa transizione, con licenziamenti e Cig, occorre da subito far pressione su Enel, Eni e sulle istituzioni per garantirsi in tempi rapidi un piano di transizione, con la possibilità di realizzazione anche in loco impianti e attrezzature necessarie, che mettano in relazione buona occupazione, salubrità dell’aria, un clima il più possibile placato.

La manifestazione svolta sabato 4 luglio proprio a Civitavecchia ha portato alla luce le richieste qui illustrate, tanto ragionevoli quanto improcrastinabili.

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Ripresa economica: puntare sul rinnovabile è possibile e vantaggioso. Vi spiego come

C’è da chiedersi perché un governo costituzionale abbia affidato al buio a un manager privato – Vittorio Colao –, coadiuvato da un team di docenti, esperti e professionisti, l’elaborazione di un piano per il rilancio dell’economia italiana, dopo la serrata imposta dalla pandemia, ricevendone un contributo che assomiglia ad un manifesto della scuola di Chicago con quarant’anni di ritardo. Sembrerebbe che la storia non abbia ripreso nelle sue mani il secolo ed abbia espulso la politica. Ma, mi chiedo, perché non viene definita una strategia di medio periodo per la ripartenza del Paese?

Qui intervengo su una questione di estrema attualità anche per i suoi rapporti con le emergenze che riguardano il futuro dell’umanità, partendo da quanto è già a disposizione, seppure ignorato, sul fronte energetico: una rivoluzione in termini di decarbonizzazione e di riconversione produttiva e occupazionale di assoluta indispensabilità.

Si direbbe che l’intera questione energetica, che riguarda vite, territori, salute, posti di lavoro, sia tenuta lontana dalla decisione politica e resa impermeabile al dibattito democratico, proprio quando siamo all’emergenza di possibili licenziamenti di massa, e di un declino industriale imprevisto per le dimensioni con cui si presenterà se il modello di sviluppo dovesse rimanere inalterato.

Sta proprio alla società intera e al sindacato in particolare non mostrarsi balbettante e compatibilista, per pretendere che il futuro non sia il ritorno alla “normalità” di prima. Qui suggerisco di prendere in grande considerazione il contributo che su base europea ha fornito un gruppo di lavoro molto prestigioso, accreditato e documentatissimo, che ha già portato al tavolo della Ue le sue proposte nella completa ignoranza del mondo politico e dei media italiani.

Riprendo le proposte che Solar power Europe e la prestigiosa Università finlandese Lut hanno avanzato in un paper articolatissimo e documentato sotto il profilo scientifico, tecnologico ed economico, presentando un sistema di energia rinnovabile al 100%, che consenta all’Ue di portare a zero le emissioni climalteranti prima del 2050, ricorrendo al 100% di rinnovabili e con oltre quattro milioni di nuovi occupati nei settori riconverti.

In oltre 60 pagine di grafici e comparazioni, emerge un quadro di impegno di politica industriale, formazione, ricerca e comportamenti sociali del tutto sconvolgenti rispetto alle tendenze oggi in atto nei settori di generazione, stoccaggio e distribuzione di energia, trasporti e calore. Qui elenco alcuni spunti in sintesi: suggestioni realistiche e comprovate, che qualsiasi governo e la stessa proclamata prospettiva di rilancio di un’Europa unita e concorde non possono ignorare, se non sottovalutando le emergenze climatiche, sociali e occupazionali che seguiranno alla pandemia.

I capisaldi della riconversione, avanzata con uno straordinario corredo di immagini che suggerisco di analizzare, si possono così riassumere:

1) L’energia solare è destinata a generare oltre il 60% dell’elettricità dell’Ue entro il 2050 e l’eolico è il secondo pilastro per accedere a fonti esclusivamente rinnovabili.

2) Per raggiungere questo obiettivo, il sistema energetico dell’Ue necessita di un alto tasso di elettrificazione e integrazione settoriale.

3) La Commissione europea deve imporre uno scenario di energia rinnovabile al 100% vincolante per legge e destinare alla sua attuazione le risorse messe a disposizione del piano di riconversione chiamato enfaticamente, ma, per ora, solo retoricamente, Green New Deal.

4) Il vantaggio economico di una soluzione radicale e ad alta ambizione (100% rinnovabili, 1,5°C aumento di temperatura e zero Chg, rispetto a 66%, +2°C e 92% in uno scenari ritardato) comporta costi energetici unitari inferiori e dimostra che il raggiungimento della neutralità climatica entro il 2050 è più conveniente rispetto a qualsiasi livello di ambizione inferiore, raggiunto per faticosi step ritardati e forieri di grandi svantaggi economici e ambientali.

Se lo studio venisse applicato in tutte le articolazioni previste (per singole Nazioni e, addirittura, per distinte cadenze stagionali), ne risulterebbe un sistema energetico europeo meno dipendente dalle importazioni e più resistente agli equilibri geopolitici, oltre che desiderabile certamente per le nuove generazioni anche perché comporterebbe lavoro qualificato per 6 milioni di unità.

Verrebbe finalmente rispettato l’accordo di Parigi, non superando l’aumento di temperatura di 1,5°C senza ricorrere affatto al sequestro di CO2 sottoterra. I guadagni in termini di resa e risparmio sarebbero assai significativi, garantendo una forte integrazione intersettoriale ed eliminando il ricorso alle fonti fossili anche nei settori del trasporto e dell’industria ad alto contenuto di calore.

Infatti, gli elettrolizzatori per la produzione di idrogeno da rinnovabili diventerebbero una tecnologia cruciale per lo scenario previsto, al punto che dal 2030 in poi, l’idrogeno ottenuto da fonti rinnovabili contribuirebbe alla piena decarbonizzazione, diventando il secondo vettore chiave di energia in Europa. Ovviamente, lo stoccaggio dell’elettricità assumerebbe importanza sempre maggiore nel fornire un approvvigionamento energetico ininterrotto, con un contributo di batterie, a prezzi sempre più ridotti, fino al 70% dello stoccaggio.

Si tratta di un approccio evidentemente rivoluzionario e non certo in linea con le politiche energetiche correnti. Eppure, nel rapporto Solar Power & Lut si dimostra che un sistema di energia rinnovabile al 100% e a neutralità climatica è assolutamente possibile dal punto di vista tecnico ed economico in Europa già al 2050.

Sappiamo bene che, da un punto di vista politico e sociale, la questione è tutt’altro che risolta. Fortissime saranno le resistenze ad un modello che si rivela realizzabile solo sovvertendo gli interessi oggi prevalenti. Proprio qui il ruolo del sindacato e delle nuove generazioni potrebbe essere risolutivo.

L’enciclica Laudato Sì sembrerebbe l’ispiratrice di un tale “sovvertimento”, non solo tecnico-scientifico; naturalmente, occorrerà anche una conversione individuale e collettiva a nuovi modelli di produzione e consumo. La posta è tuttavia talmente elevata da meritare la partita. Il nostro Paese, l’Europa, il Pianeta hanno bisogno delle migliori energie intellettuali e sociali oltre che fisiche per una transizione ecologica e socialmente giusta.

Le misure finora proposte non sono all’altezza del compito; sta quindi anche alle organizzazioni della società civile e ai movimenti sociali e alla loro maturità se si riuscirà a tracciare un percorso diverso e possibile.

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Ripresa economica: puntare sul rinnovabile è possibile e vantaggioso. Vi spiego come

C’è da chiedersi perché un governo costituzionale abbia affidato al buio a un manager privato – Vittorio Colao –, coadiuvato da un team di docenti, esperti e professionisti, l’elaborazione di un piano per il rilancio dell’economia italiana, dopo la serrata imposta dalla pandemia, ricevendone un contributo che assomiglia ad un manifesto della scuola di Chicago con quarant’anni di ritardo. Sembrerebbe che la storia non abbia ripreso nelle sue mani il secolo ed abbia espulso la politica. Ma, mi chiedo, perché non viene definita una strategia di medio periodo per la ripartenza del Paese?

Qui intervengo su una questione di estrema attualità anche per i suoi rapporti con le emergenze che riguardano il futuro dell’umanità, partendo da quanto è già a disposizione, seppure ignorato, sul fronte energetico: una rivoluzione in termini di decarbonizzazione e di riconversione produttiva e occupazionale di assoluta indispensabilità.

Si direbbe che l’intera questione energetica, che riguarda vite, territori, salute, posti di lavoro, sia tenuta lontana dalla decisione politica e resa impermeabile al dibattito democratico, proprio quando siamo all’emergenza di possibili licenziamenti di massa, e di un declino industriale imprevisto per le dimensioni con cui si presenterà se il modello di sviluppo dovesse rimanere inalterato.

Sta proprio alla società intera e al sindacato in particolare non mostrarsi balbettante e compatibilista, per pretendere che il futuro non sia il ritorno alla “normalità” di prima. Qui suggerisco di prendere in grande considerazione il contributo che su base europea ha fornito un gruppo di lavoro molto prestigioso, accreditato e documentatissimo, che ha già portato al tavolo della Ue le sue proposte nella completa ignoranza del mondo politico e dei media italiani.

Riprendo le proposte che Solar power Europe e la prestigiosa Università finlandese Lut hanno avanzato in un paper articolatissimo e documentato sotto il profilo scientifico, tecnologico ed economico, presentando un sistema di energia rinnovabile al 100%, che consenta all’Ue di portare a zero le emissioni climalteranti prima del 2050, ricorrendo al 100% di rinnovabili e con oltre quattro milioni di nuovi occupati nei settori riconverti.

In oltre 60 pagine di grafici e comparazioni, emerge un quadro di impegno di politica industriale, formazione, ricerca e comportamenti sociali del tutto sconvolgenti rispetto alle tendenze oggi in atto nei settori di generazione, stoccaggio e distribuzione di energia, trasporti e calore. Qui elenco alcuni spunti in sintesi: suggestioni realistiche e comprovate, che qualsiasi governo e la stessa proclamata prospettiva di rilancio di un’Europa unita e concorde non possono ignorare, se non sottovalutando le emergenze climatiche, sociali e occupazionali che seguiranno alla pandemia.

I capisaldi della riconversione, avanzata con uno straordinario corredo di immagini che suggerisco di analizzare, si possono così riassumere:

1) L’energia solare è destinata a generare oltre il 60% dell’elettricità dell’Ue entro il 2050 e l’eolico è il secondo pilastro per accedere a fonti esclusivamente rinnovabili.

2) Per raggiungere questo obiettivo, il sistema energetico dell’Ue necessita di un alto tasso di elettrificazione e integrazione settoriale.

3) La Commissione europea deve imporre uno scenario di energia rinnovabile al 100% vincolante per legge e destinare alla sua attuazione le risorse messe a disposizione del piano di riconversione chiamato enfaticamente, ma, per ora, solo retoricamente, Green New Deal.

4) Il vantaggio economico di una soluzione radicale e ad alta ambizione (100% rinnovabili, 1,5°C aumento di temperatura e zero Chg, rispetto a 66%, +2°C e 92% in uno scenari ritardato) comporta costi energetici unitari inferiori e dimostra che il raggiungimento della neutralità climatica entro il 2050 è più conveniente rispetto a qualsiasi livello di ambizione inferiore, raggiunto per faticosi step ritardati e forieri di grandi svantaggi economici e ambientali.

Se lo studio venisse applicato in tutte le articolazioni previste (per singole Nazioni e, addirittura, per distinte cadenze stagionali), ne risulterebbe un sistema energetico europeo meno dipendente dalle importazioni e più resistente agli equilibri geopolitici, oltre che desiderabile certamente per le nuove generazioni anche perché comporterebbe lavoro qualificato per 6 milioni di unità.

Verrebbe finalmente rispettato l’accordo di Parigi, non superando l’aumento di temperatura di 1,5°C senza ricorrere affatto al sequestro di CO2 sottoterra. I guadagni in termini di resa e risparmio sarebbero assai significativi, garantendo una forte integrazione intersettoriale ed eliminando il ricorso alle fonti fossili anche nei settori del trasporto e dell’industria ad alto contenuto di calore.

Infatti, gli elettrolizzatori per la produzione di idrogeno da rinnovabili diventerebbero una tecnologia cruciale per lo scenario previsto, al punto che dal 2030 in poi, l’idrogeno ottenuto da fonti rinnovabili contribuirebbe alla piena decarbonizzazione, diventando il secondo vettore chiave di energia in Europa. Ovviamente, lo stoccaggio dell’elettricità assumerebbe importanza sempre maggiore nel fornire un approvvigionamento energetico ininterrotto, con un contributo di batterie, a prezzi sempre più ridotti, fino al 70% dello stoccaggio.

Si tratta di un approccio evidentemente rivoluzionario e non certo in linea con le politiche energetiche correnti. Eppure, nel rapporto Solar Power & Lut si dimostra che un sistema di energia rinnovabile al 100% e a neutralità climatica è assolutamente possibile dal punto di vista tecnico ed economico in Europa già al 2050.

Sappiamo bene che, da un punto di vista politico e sociale, la questione è tutt’altro che risolta. Fortissime saranno le resistenze ad un modello che si rivela realizzabile solo sovvertendo gli interessi oggi prevalenti. Proprio qui il ruolo del sindacato e delle nuove generazioni potrebbe essere risolutivo.

L’enciclica Laudato Sì sembrerebbe l’ispiratrice di un tale “sovvertimento”, non solo tecnico-scientifico; naturalmente, occorrerà anche una conversione individuale e collettiva a nuovi modelli di produzione e consumo. La posta è tuttavia talmente elevata da meritare la partita. Il nostro Paese, l’Europa, il Pianeta hanno bisogno delle migliori energie intellettuali e sociali oltre che fisiche per una transizione ecologica e socialmente giusta.

Le misure finora proposte non sono all’altezza del compito; sta quindi anche alle organizzazioni della società civile e ai movimenti sociali e alla loro maturità se si riuscirà a tracciare un percorso diverso e possibile.

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Clima, le emissioni non sono calate abbastanza col virus: bisogna puntare alle energie naturali

Difficile misurare e prevedere la diminuzione di climalteranti dovuti al blocco delle attività in tempo di coronavirus, perché essa dipende da quali settori dell’economia hanno chiuso e le aspettative di ripresa nel corso dell’anno. Benjamin Storrow, in un documentatissimo articolo spegne alcuni entusiasmi sulla caduta delle emissioni durante la pandemia.

Se si calcola che ormai 4 miliardi di persone in tutto il mondo si sono fermate per contribuire ad arginare la diffusione del virus, il confronto con le previsioni dei meteorologi (poco oltre il 5% nel 2020), pur rappresentando il più grande calo annuale mai registrato, rimane al di sotto del calo del 7,6% che gli scienziati dicono che è necessario ogni anno nel prossimo decennio per impedire che le temperature globali aumentino di oltre 1,5 gradi Celsius.

Non c’è proporzionalità diretta tra calo dei prodotti e abbassamento delle emissioni. Quindi perché le previsioni non prevedono un calo maggiore di CO2 durante una delle peggiori catastrofi economiche della vita? Nei fatti la pandemia sta causando una caduta libera economica che differisce dalle precedenti recessioni.

Solo se le riduzioni di anidride carbonica non ripartissero secondo il cosiddetto “ritorno alla normalità” che sta a cuore di tutti i governi (si pensi da noi agli aiuti a Fca e Alitalia e al mantenimento delle centrali a carbone) registreremmo un obiettivo in linea con l’auspicio dell’Ipcc. Ma occorrerebbe un grande movimento che prema sui governi del mondo e sulle multinazionali e una svolta dalla produzione energivora alla cura dell’intera biosfera e un cambio degli stili di vita.

Sia negli Stati Uniti che in Cina il lockdown non è stato utilizzato per mutare il segno dell’eventuale ripresa, ma solo per tenere in vita con la manutenzione indispensabile il modello che riprodurrà quanto prima le emergenze in corso. I cali in Cina e Usa sono stati solo del 25% e del 14% nel mese di maggior diffusione del virus e la maggior parte dei meteorologi ipotizzano che l’economia riprenderà nella seconda metà dell’anno, spingendo le emissioni verso l’alto con un rimbalzo.

Anche in uno scenario in cui le emissioni sono diminuite del 25%, i tre quarti della produzione globale di CO2 continuerebbero durante un blocco annuale. A differenza delle recessioni passate, il trasporto sta guidando il calo delle emissioni. La spedizione è rimasta costante e la produzione è stata lenta a chiudere. Molte acciaierie e centrali a carbone hanno continuato a funzionare per tutto l’arresto, sebbene spesso a livelli ridotti.

Al contrario è calato il traffico di trasporto individuale delle persone: del 54% nel Regno Unito, del 36% negli Stati Uniti e del 19% in Cina, mentre i viaggi aerei, nel frattempo, sono diminuiti del 40%, con un riflesso drastico sul calo del petrolio (-65% kerosene; -41% benzina). Eppure, l’economia globale sta ancora consumando molto petrolio, sia per gli usi militari e per il mantenimento degli slot da parte delle compagnie aeree, sia per il trasporto su ruota e ferro con diesel.

Poi ci sono prodotti petrolchimici, che sono stati colpiti in modo diseguale dalla crisi. Le materie plastiche utilizzate nella produzione automobilistica sono in calo, ma quelle usate per l’imballaggio alimentare sono in aumento. I numeri mostrano quanto sia intrecciato il petrolio con l’economia globale e quanto sarà difficile decarbonizzare l’economia semplicemente attraverso l’adeguamento comportamentale. Le auto e gli aerei possono essere parcheggiati in massa, eppure il consumo di petrolio diffuso continua.

Questa prima fase di pandemia è stata pagata più dal trasporto aereo e di auto, ma meno dall’elettricità e dal gas naturale. Il carbone, anche se demonizzato in epoca di pandemia, rimane cruciale per la generazione di elettricità in tutto il mondo e rappresenta il 40% delle emissioni globali di CO2, più di qualsiasi altro combustibile. Assieme al petrolio, rimane un ingranaggio centrale nella produzione economica in tutto il mondo.

Ma mentre comincia ad essere matura una lotta per la conversione delle centrali a carbone e gas nelle economie avanzate, la pandemia sottolinea la necessità di rendere da subito accessibili le energie naturali per le parti in via di sviluppo del mondo su cui potrebbe essere riversato l’eccesso di fossili continuamente estratto.

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