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Green deal, la strategia europea per l’idrogeno ha luci e ombre. E c’è chi ne approfitta

di Mario Agostinelli e Angelo Consoli

L’8 luglio di quest’anno la Commissione Europea ha pubblicato “A hydrogen strategy for a climate neutral Europe”, la tanto attesa strategia per l’idrogeno, complementare alla nuova strategia industriale proposta a marzo scorso, come parte del pacchetto di misure per il Green Deal europeo, annunciato a dicembre scorso con l’obiettivo della neutralità climatica (emissioni zero) entro il 2050.

La Commissione afferma senza ambiguità che la priorità viene data all’idrogeno verde (ossia quello prodotto unicamente da fonti rinnovabili), mentre l’idrogeno da fonti fossili viene scartato, salvo che si tratti di idrogeno “blu” (ossia ottenuto dal gas naturale fossile senza emissioni di CO2, catturata e sequestrata con un processo di cattura, detto Ccs, che non la rilascerebbe in atmosfera).

Questa fantomatica tipologia Ccs finirebbe col giocare, come vedremo più avanti, un ruolo di pura copertura nel breve e medio termine, a causa di una sua pretesa (conclamata e mai dimostrata) convenienza economica rispetto all’idrogeno verde. Si tratterebbe, quindi, di un trucco per far guadagnare tempo alle corporation del gas.

Infatti, nella versione iniziale, fatta circolare semi clandestinamente il 18 giugno 2020, la Commissione si limitava a menzionare, senza assegnargli alcun ruolo significativo, l’idrogeno “blu”. Senonché, il 24 giugno seguente, Gasnaturally, la lobby di una coalizione di imprese del gas, sindacati e produttori di tecnologie energetiche, rivendicava l’adozione di una strategia per l’idrogeno che seguisse una impostazione “technology-neutral”, di modo che sia l’idrogeno da fonti rinnovabili che quello ottenuto dal gas con la Ccs potessero essere considerati “Clean Hydrogen”, ovverosia “idrogeno pulito”.

E così, il documento ufficiale dell’8 luglio cambia rispetto al “draft” del 18 giugno e assegna un ruolo – a mio giudizio usurpato – all’idrogeno blu, riconoscendolo “necessario” nel breve e medio termine “allo scopo di ridurre più rapidamente le emissioni rispetto ai sistemi attuali di produzione di idrogeno dalle fonti fossili e favorire così la penetrazione di idrogeno rinnovabile sia attualmente che in futuro”.

Sul piano terminologico la posizione della Commissione è estremamente precisa e non lascia porte aperte ad interpretazioni di comodo, né verso una fonte nucleare né verso una produzione tradizionale come quella del reforming da metano senza eliminazione (peraltro costosa) della CO2. Guardiamo infatti ai numeri: la European Hydrogen Strategy prevede un investimento nell’idrogeno blu in una ristretta forchetta fra i 3 e i 18 miliardi di euro entro il 2050, mentre alla stessa data si prevedono investimenti nell’idrogeno verde da fonti rinnovabili pari a una forchetta fra i 180 e i 470 miliardi di euro. Ma è proprio in questa dichiarata irrilevanza del blu rispetto al verde che si possono aprire varchi consistenti per pregiudicare con le decisioni dell’oggi quel che si ritiene indispensabile, ma si rimanda ad un domani indefinito.

Il sostegno dell’Ue all’idrogeno verde prevede addirittura che il mercato degli elettrolizzatori (apparecchiature per ottenere idrogeno solo da elettricità) sia all’incirca tra 24 e 42 miliardi entro il 2030, a cui va aggiunta una cifra oscillante fra 220 e 340 miliardi per gli impianti di energia rinnovabili necessari a fornire la corrente elettrica per l’idrolisi dell’acqua. Di fatto, la strategia europea prevede che ci siano già 6 Gw (6000 megawatt) di elettrolizzatori installati entro il 2024, e addirittura ben 40 Gw entro il 2030, fino a 500 Gw entro il 2050. Una evidentissima propensione per l’idrogeno da rinnovabili e nella prospettiva di zero emissioni di climalteranti.

In altre parole, l’Ue prevede che per l’idrogeno verde si debbano spendere all’incirca 382 miliardi di euro (elettrolizzatori più rinnovabili correlate) entro il 2030, mentre la spesa prevista per l’idrogeno dai fossili non supera i 18 miliardi di euro addirittura fino a tutto il 2050. Allora perché l’accenno “dal sen sfuggito” al Ccs?

Un contentino? Più probabilmente un cavallo di Troia su cui si sono subito tuffate qui da noi A2A, Enel ed Eni, che senza alcuna discussione preventiva hanno rilanciato immediatamente il gas a fronte della riconversione del carbone prevista entro il 2025 a Monfalcone, La Spezia e Civitavecchia, con un immediato plauso di Confindustria.

Eppure, la strategia della Commissione introduce la nozione dell’ecosistema dell’idrogeno da sviluppare in Europa. Per questo il documento della Commissione introduce anche le nozioni complementari degli “Hydrogen Clusters” o delle “valli dell’idrogeno” da sviluppare a livello locale in conformità alla tipologia di insediamenti industriali e produttivi presenti in ogni regione. Ma se le “valli” di Monfalcone, La Spezia e Civitavecchia vengono presidiate oggi dal rilancio dei metanodotti e delle centrali a metano, che avranno un tempo di ammortamento degli investimenti non inferiore ai 25 anni (sempre che non lieviti, come probabile, la carbon tax), chi svilupperà entro questo drammatico quinquennio post-Covid il sistema rinnovabili+idrogeno verde che porta oltre un milione di posti di lavoro?

[CONTINUA]

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Civitavecchia, lo snodo visibile e attuale della transizione energetica

Da tempo pongo sotto esame la riconversione della centrale a carbone di Civitavecchia come snodo visibile e attuale della transizione energetica, che non può certo essere dilazionata nel tempo dalla persistenza dei segni della pandemia.

Come afferma da New York Dan Gearino – uno dei massimi esperti – in Inside clean energy del 4 settembre, “siamo nel bel mezzo della transizione verso l’energia pulita, ma potreste anche non averlo notato”. Infatti, dagli schermi, dalle onde radio o dalle pagine dei giornali la notizia del giorno sposta quella del giorno prima e il cambiamento che dobbiamo affrontare sembra sempre fuori portata al momento giusto.

Nonostante i suggerimenti di mille task force, ancora non è ben chiaro come si intendono spendere o meglio investire in modo produttivo e coerente i 209 miliardi in arrivo con il Recovery fund. Tra i settori strategici occorrerà mettere in conto prioritario l’energia pulita e la digitalizzazione delle reti. Nella classifica europea relativa alla fornitura di servizi pubblici digitali, l’Italia si trova al 19esimo posto, mentre siamo solo 16esimi per la spesa in investimenti e ricerca nelle tecnologie verdi. Vogliamo continuare ad essere fanalini di coda?

Una grande occasione per ridisegnare l’intera area carbonifera, portuale, industriale turistica e paesaggistica fa la sua prova a Civitavecchia, dove le associazioni ambientaliste locali, assieme agli studenti e ad un numero crescente di cittadini ed esperti, si stanno attrezzando per cogliere la sfida lanciata dall’Europa, che ha posto al centro della sua strategia di contrasto ai cambiamenti climatici proprio lo sviluppo dell’idrogeno verde da rinnovabili, mettendo a disposizione enormi risorse e de-finanziando gli investimenti sui combustibili fossili.

Alcune nazioni, Francia e Germania in testa, rispettivamente con uno stanziamento di 7 e 9 miliardi, hanno già da tempo investito risorse proprie: a Cernobbio l’Italia, secondo l’articolista del Corriere della Sera presente al meeting, ha dichiarato di volersi unire ad esse, nella previsione di 540.000 nuovi posti di lavoro. La notizia è stata ripresa in scarni trafiletti da Repubblica e dal Sole 24 ore, ma è durata lo spazio di un mattino.

Negli stessi giorni, il candidato alla presidenza democratica degli Usa Joe Biden ha proposto un piano per il clima e l’energia pulita che mira a portare il paese a zero emissioni nette entro il 2050. Lo stesso è stato affermato da Ursula von der Leyen per l’Ue. Annunci imprudenti? Niente affatto: oggi l’economia è cambiata così tanto da poter essere decarbonizzata fornendo incredibili vantaggi economici e occupazionali, mentre gli effetti del cambiamento climatico, assai più vistosi di dieci anni fa, rendono la fuoriuscita dal carbonio un obiettivo necessario e popolare.

Mentre città, borghi, alcune aziende – e spesso chiese – sono diventati ispiratori nell’affrontare il cambiamento climatico, i governi ascoltano distrattamente le menti più lucide e continuano a stare attaccati ai posti di lavoro nelle filiere fossili e inquinanti, spesso perfino con il consenso dei sindacati. Eppure, sono molti gli studi che affermano che verranno benefici non solo per il clima e l’ambiente, ma anche per le tasche dei consumatori. Proviamoci, allora, in fretta e a partire da dove la situazione si mostra più foriera di successo.

Dato che non è assolutamente vero che il gas debba avere una funzione strategica nella transizione energetica dobbiamo solo progettare dove e come vada concretamente, vantaggiosamente rimpiazzato da tecnologie e sistemi più moderni e adatti alla partecipazione e alla salute dei cittadini. Il caso di Civitavecchia è lampante.

Enel punta a chiudere i suoi quattro impianti a carbone sul territorio italiano entro il 2025. Nel suo piano industriale 2020-2022 investirà il 50% del capex totale del piano in “decarbonizzazione del parco impianti a livello globale”. Entro il 2020 la multinazionale dell’energia prevede di sviluppare 14,1 Gw di nuova capacità rinnovabile, pari al +22% rispetto al piano industriale precedente. Perché mai la sostenibilità per il colosso energetico multinazionale non dovrebbe essere un fattore abilitante fondamentale anche per la sua strategia finanziaria nel Paese di origine oltre che prevalentemente all’estero?

Ci sono forse patti con Eni o altri interessi che lo impediscono? Il sindaco di Civitavecchia Ernesto Tedesco, contraddicendo l’amministratore delegato di Enel Tamburi, si è chiesto perché “anche qui, come a Taranto non si debba parlare di rinnovabili e sviluppo di idrogeno verde” mentre il consigliere regionale dei Cinquestelle Devid Porrello presentava una mozione per creare una cabina di regia per lo sviluppo dell’idrogeno nel Lazio.

Al più presto gli elettori – chiamati a risparmiare (?!) sulla politica – verranno informati che già il 14 settembre il Parlamento europeo si è misurato con la possibilità di contribuire a liberare le regioni europee dai combustibili fossili e di sostenere la creazione di un vero sviluppo e di nuovi posti di lavoro sostenibili.

Gli eurodeputati in quel giorno voteranno in plenaria sul Fondo Just Transition (per la giusta transizione) da 17,5 miliardi di euro, che mira a sostenere gli Stati membri dell’Ue nella loro transizione verso la neutralità climatica. Quella è già un’occasione per ribaltare la posizione regressiva della Commissione per gli affari regionali del Parlamento Ue, che ha votato a favore dell’ammissibilità del gas al finanziamento del Fondo per la Just Transition. La partita è complessa e non si chiude definitivamente in questi giorni, ma sarà in ogni caso riesaminata a livello nazionale e locale.

Io credo che quello di Civitavecchia sia un caso esemplare, che proverò a riprendere su questo blog anche con il conforto dei massimi esperti sulla transizione energetica pulita e verde, di cui il Paese ha bisogno per costruire parchi alimentati da fonti rinnovabili, da linee di trasmissione per elettricità e idrogeno, per fornire energia eolica e solare dalle aree rurali ai centri abitati, consentire una mobilità meno inquinante, rifornire i porti, i litorali e le ferrovie di alimentazione libera da CO2.

Erano questi tutti settori valutati come fonte di posti di lavoro in rapida crescita prima della pandemia e, senza dubbio, rimangono tali a disposizione dell’unica possibile ripresa: quella non uguale a prima. Tanto più a Civitavecchia, da troppi anni martoriata dagli scarti di produzioni nocive e dove una sospensione della conferenza dei servizi prevista per ottobre potrebbe dare il tempo necessario per un approfondimento, anche alla luce delle novità provenienti dall’Europa e dalla piena informazione e consapevolezza dei cittadini, dei loro movimenti, delle loro istituzioni.

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Civitavecchia: con l’idrogeno verde ha l’occasione di mettere d’accordo economia e ambiente

C’è un autentico fervore attorno agli auspici dell’Unione Europea per un impiego dell’idrogeno verde (cioè prodotto per idrolisi da rinnovabili) all’interno di un profondo rifacimento del sistema energetico continentale. Naturalmente, essendo uno dei caposaldi della riconversione ecologica, le lobby e i poteri economici dei vari settori si stanno già scontrando aspramente a favore del cambiamento o della conservazione.

La competizione – ovvero lo scontro – maggiore è tra uno spostamento deciso verso i vettori elettricità e idrogeno rispetto al mantenimento di un ruolo massiccio del metano in una lunga e perniciosa fase di transizione. Ho già trattato in post precedenti la questione e accreditato la scelta del superamento definitivo del gas confortandola con il suffragio di studi recenti e assai prestigiosi.

Naturalmente, la tragedia della pandemia in corso ha reso ancor più stringente una scelta che non aggravi le condizioni climatiche, di salute, di inquinamento derivanti dalla combustione di carbone, gas e petrolio. Ora si tratta di mettere urgentemente sul tavolo piani di fattibilità esemplari laddove i danni dell’assetto energetico precedente ha maggiormente martoriato i territori.

La situazione di Civitavecchia è per questioni oggettive (un carbonifero da tempo insostenibile) e per una collocazione geografica favorevole (uno snodo logistico con un porto al bordo del terreno della centrale da smantellare), da trattare con priorità assoluta, anche perché può godere della presenza di una elevata coscienza diffusa tra la cittadinanza, sostenuta da comitati locali per le rinnovabili e contro i fossili, nonché dalla presenza di grande attenzione tra gli studenti preoccupati per il loro futuro. A quanto ne so, la stessa Amministrazione locale e la Regione Lazio risultano informati delle prospettive di riconversione aperte.

Ora si pone una questione cruciale, che spesso ha privato il nostro Paese di occasioni straordinarie. Ne so qualcosa da quando la Fiat e la Giunta Lombarda, nel primo decennio del 2000, hanno fatto saltare la riconversione dell’Alfa Romeo di Arese ad un progetto di mobilità sostenibile che avrebbe anticipato la svolta in corso sul traporto “dolce”. La questione riguarda i tempi e l’accelerazione delle decisioni da prendere per evitare lo smacco della destinazione dei fondi europei ad altre nazioni più sollecite nell’avanzare progetti innovativi realizzabili.

Per ora in Italia Centrale è stato avanzato un piano di Aecom per la ricostruzione delle aree terremotate nel 2016 attraverso quattro macro-aree di intervento, con produzione e utilizzo di idrogeno verde tra l’Appennino abruzzese e i territori coinvolti nel sisma del 2016, l’idrogenizzazione delle ferrovie abruzzesi, compresa quella che collega Fiumicino alla costa adriatica.

Tutto bene, a meno che, tra qualche anno, non accada il paradosso di ritrovarci a pagare alla multinazionale americana Aecom l’idrogeno ed i servizi da questa prodotti ed implementati grazie ai soldi destinati al Recovery Fund da loro utilizzati! Qui una domanda sorge spontanea: ma perché aziende italiane, specie quelle a maggioranza e controllo pubblico tipo, Enel, Eni, Snam etc. non hanno pensato loro a sviluppare questi progetti?

Così Enel a Civitavecchia e in Italia rischia di perdere il treno dell’idrogeno. Perché invece non rilancia anche per qualità e quantità occupazionale una città che tanto ha contribuito all’economia del Paese, subendo impatti, diseconomie e purtroppo anche malattie?

Bonifichi e sviluppi, insieme ad altri partner tecnologici, un centro di ricerca di energia sulle fonti rinnovabili di frontiera, anche rivolte alle attività portuali, mentre l’area della centrale smantellata diventi il sito di produzione fotovoltaico di idrogeno verde, con solare ed eolico on ed off-shore così da fornire elettricità e idrogeno a tutte le attività di prossimità.

il tessuto economico è da troppi anni logorato dalla monocultura energetica, che ha portato la città alla subalternità alle scelte dell’Enel, subendo da tempo, per di più, il pesante inquinamento dovuto al carbone. Ora il carbone è in dismissione, e oltre al danno viene proposta la beffa di una riconversione fossile a gas che oltre ad essere climalterante non è neanche lontanamente in grado di compensare l’occupazione persa dalla giusta dismissione del carbone.

Il porto, mai decollato come importante nodo logistico, è tra i primi porti del mediterraneo per attività crocieristica. La città subisce l’inquinamento delle grandi navi, ma per la sua economia il turismo crocieristico è di impatto minimo. Ed ora la pandemia ha dato il colpo finale anche a quel minimo impatto del turismo da crociera: rimane solo l’inquinamento delle navi ormeggiate.

Oggi Civitavecchia si trova indiscutibilmente ad essere area di crisi economica ed industriale, il progetto Idrogeno verde al posto del gas può essere la risposta in piena coerenza con le linee guida della Commissione Europea nonché con le condizionalità ambientali richieste per l’accesso ai fondi europei.

L’idrogeno così prodotto in particolare sul terreno dell’ex centrale a carbone e integrato e messo in rete con altri siti alimentati da rinnovabili (comprese maree, eolico e pompe di calore) sarà stoccato per un suo successivo riutilizzo come combustibile chimico per sistemi a fuel cell, con utilizzo nei trasporti e nella generazione di potenza, senza rilascio di CO2 e inquinanti.

Le norme europee, le regole del Recovery Fund e i piani di investimento da programmare renderebbero la centrale a gas di Civitavecchia, come tutte le nuove centrali a gas in via di costruzione, già obsolete prima di aver messo il primo mattone in opera. Non è un buon modo di utilizzare denaro pubblico, soprattutto nel quadro della situazione di crisi e degli impegni da prendere in Europa.

Con la riconversione qui prospettata si unirebbero risanamento ambientale e ripresa economica e ne uscirebbero avvantaggiati (win-win) una volta tanto sia i cittadini, che gli occupati, che le istituzioni, che le imprese, una volta tanto rispettose dell’ambiente e della salute.

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Civitavecchia, basta combustibili fossili: ora servono rinnovabili, idrogeno e lavoro

Da anni Civitavecchia registra mobilitazioni popolari contro la combustione in atmosfera di fossili per produrre elettricità a basso prezzo, ma a danno della salute. Come è ormai pratica consolidata, gli enti energetici provano a rinnovare i loro impianti inquinanti laddove il territorio ha già subito una ferita precedente, nella presunzione che la cittadinanza locale si rassegni più facilmente rispetto ad un’altra cui venga prospettato l’insediamento di una centrale mai allestita in precedenza.

È successo già così tra Lodi e Piacenza, nella bassa padana verso la confluenza del Po, nella Puglia o lungo le rive del Mar Ligure, dove pezzo dopo pezzo sono state rianimate e potenziate le centrali che nel tempo diventavano obsolete. Un disagio già subito e pagato con tassi abnormi di malattie, si può ulteriormente monetizzare con qualche risarcimento in più e agitando lo spettro della disoccupazione.

Dopo il Covid 19, a fronte della crisi climatica e con la prospettiva di una profonda crisi economica che richiede un cambiamento nel modo di produrre e di consumare, parrebbe che in Italia, al pari che nei Paesi dell’Est, non si sia ancora prodotto un ripensamento rispetto ad una strategia energetica che è sottoposta invece in tutta Europa a una radicale riconversione.

Mi sembra che il caso di Civitavecchia meriti di diventare esemplare e possa concentrare le risorse intellettuali, culturali, economiche e professionali migliori per riconvertire l’intero territorio – centrale a carbone, porto e mobilità – in base ad un modello basato su 100% rinnovabili, zero emissioni climalteranti e idrogeno da rinnovabili come vettore complementare all’elettricità, già in funzione entro i prossimi venti anni. Niente gas, quindi, né tantomeno gassificatori, magari come ponti per la metanizzazione della Sardegna.

Saremmo così in linea – e non solo a parole – con l’obiettivo di Parigi di stare al di sotto di 1,5°C di aumento di temperatura e con il Green Deal europeo lanciato dalla Von Der Leyen. Sostenendo questo scenario la Giunta della Città e della Regione metterebbero a tacere i timori che la spartizione di poltrone debba risentire degli equilibri che Enel ed Eni trattano nelle loro stanze.

Naturalmente, occorre avanzare un progetto complessivo, avere alle spalle centri di ricerca e finanziamenti, nonché agire in sintonia con l’Europa e saper conseguire un obiettivo così esemplare con il coinvolgimento della cittadinanza, del sindacato, degli operatori economici e in una alleanza sull’intero territorio, che va al di là del solo perimetro del sito carbonifero oggi occupato.

Proprio perché il porto vive una crisi che parte da lontano e che si è aggravata con il Covid, bisogna andare oltre soluzioni solo settoriali, tener conto dell’intero sviluppo della logistica integrata, della cantieristica navale, dello sviluppo di un turismo di qualità che valorizzi la bellezza del paesaggio e la storia culturale anche di prossimità.

Fatte queste considerazioni preliminari, invito a prendere in considerazione e a riferimento uno straordinario progetto, avanzato da Solar Power e dall’Università finlandese Lut, di cui ho trattato nel post precedente e che sembra fatto apposta per una situazione come quella qui in esame. Si tratta di un progetto dettagliato, che suggerisce soluzioni distinte per area geografica e addirittura per stagione a seconda delle località situate nel nostro continente: complessivamente, in oltre 80 pagine, esamina tre scenari distinti di cui uno solo contempla il ricorso al gas.

Nella comparazione effettuata con grafici, dati aggiornatissimi, proiezioni e tabelle, si dimostra che il ricorso al gas (definito “percorso a bassa ambizione”) anziché all’idrogeno prodotto da fonti rinnovabili sarebbe per la società in tutta Europa e in particolare nell’area del Mediterraneo un onere, sia dal punto di vista del cambiamento climatico sia dal punto di vista economico.

La riconversione di un sistema centralizzato come l’attuale richiederebbe una programmazione di medio periodo e interventi coerenti a largo raggio. Occorrerebbe, naturalmente, dare priorità all’elettrificazione a base rinnovabile dell’intera economia del Paese, spianando la strada allo sviluppo di un settore competitivo, basato sullo spiegamento accelerato di risorse energetiche di flessibilità decentralizzata, di cui il solare e il vento off-shore sarebbero i pilastri. Ciò significa lanciare una strategia industriale solare, sviluppare competenze e programmi di formazione per sbloccare il potenziale di lavoro e occupazione qualificata nel settore solare.

Nel nostro caso esistono già competenze e ricerche avanzate che hanno proprio nel Lazio e in Centro Italia punti di convergenza e di interesse internazionale. Il ricorso all’idrogeno prodotto da rinnovabili, oltre alla funzione di stoccaggio di energia, avrebbe un’applicazione virtuosa sia per le banchine del porto che per il ridisegno della mobilità, sia su strada, sia per tratti di ferrovia minori, sia per il trasporto via mare. Lo studio quantifica in sei milioni la nuova occupazione in Europa nello scenario che raggiunge la neutralità climatica già nel 2040 con un costo dell’energia del 17% inferiore a quella prodotta dall’attuale mix energetico, per la massima parte fossile. Una formidabile occasione per il Paese che più ha sofferto la pandemia.

L’Espresso in edicola il 5 luglio esamina in un interessante articolo la presa in considerazione da parte degli enti a partecipazione statale di progetti di sviluppo con esplicito riferimento al superamento del metano e allo sviluppo della filiera delle rinnovabili e dell’idrogeno per risollevare e modernizzare il Paese e, quindi, evitare una bomba sociale, oltre che fare della cura del pianeta e della salute del vivente l’obiettivo per le nuove generazioni.

Molte sono le novità che dovranno intervenire per affrontare le emergenze che potrebbero trovare nel lavoro e nei più indifesi le vittime più esposte. Per stare in concreto, onde evitare, ad esempio, che le piccole aziende metalmeccaniche che vivono con l’indotto della centrale Enel segnino il passo di una lunga e dannosa transizione, con licenziamenti e Cig, occorre da subito far pressione su Enel, Eni e sulle istituzioni per garantirsi in tempi rapidi un piano di transizione, con la possibilità di realizzazione anche in loco impianti e attrezzature necessarie, che mettano in relazione buona occupazione, salubrità dell’aria, un clima il più possibile placato.

La manifestazione svolta sabato 4 luglio proprio a Civitavecchia ha portato alla luce le richieste qui illustrate, tanto ragionevoli quanto improcrastinabili.

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