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Ucraina, gli Usa hanno un enorme interesse a impedire la dipendenza europea dal gas russo

L’escalation bellica in Ucraina ha subito una accelerazione drammatica dopo la decisione di Putin, condannata senza riserve, che rischia di marcare un’irreversibilità nella prospettiva di un’Europa di pace, soffocata da blocchi contrapposti. L’autocrate di Mosca brandisce addirittura l’arma nucleare e il gesto inconcepibile richiama l’esposizione alle minacce incombenti sull’umanità ricordate da Francesco: la guerra annientatrice, il clima ostile alla sopravvivenza, l’ingiustizia sociale che corrompe le esistenze.

Questa nota uscirà quando già avremo condiviso manifestazioni e azioni spero di riconciliazione e di deterrenza, come il digiuno del 2 marzo, ed è per questo che si rivolge oltre alla drammaticità del tempo immediatamente contingente, seppure tanto tragico. Non possiamo dimenticare che la sindemia aggredisce tuttora gran parte del pianeta e che la estrema siccità, come quelle dei campi da semina in Europa o lo scioglimento accelerato del permafrost in Siberia, vengono rimosse sotto la minaccia dello spettro del nucleare militare e civile lambito dai combattimenti.

Gli sprovveduti, che a volte fanno persino opinione, dicono che le guerre non hanno mai risolto nulla, come se non cambiassero mai nulla, e quindi non avessero un senso perverso ad essere combattute. Non è certo così per la guerra ucraina. L’errore strategico di Putin, oltre all’insana ferocia del ricorso all’invasione, è essere ripartito dagli abbagli dell’impero zarista, anziché collocare la contesa che è in corso nel cuore dell’avanzamento americano e dell’occidente verso l’oriente (in una espansione monodirezionale, se si guarda un atlante), ininterrotto ormai da oltre cinquant’anni. Una volta che l’Urss si è disintegrata, la Russia ha sciolto il Patto di Varsavia, ha stabilito un regime politico sull’onda delle democrazie europee, ha restaurato un capitalismo oligarchico perfino con elementi mafiosi, ha aperto la sua economia al capitale straniero e ha addirittura giocato con l’idea di entrare nella Nato.

L’operazione militare lanciata in extremis contro l’Ucraina è la conseguenza di una situazione politica non imparziale, ovvero il punto finale di fronte a quella che Boaventura de Sousa Santos ha definito “l’assoluta inettitudine dei leader occidentali nel rendersi conto che non c’è e non ci sarà sicurezza in Europa se non è garantita anche per la Russia”. Non bisogna dimenticare che la forza militare attiva dal 1991 sono gli Stati Uniti. La politica statunitense dell’amministrazione Clinton di condurre una nuova espansione militare attraverso la Nato ha pagato un dividendo di 30 anni sotto forma di spostamento della politica estera dell’Europa occidentale e di altri alleati americani, facendo della Nato l’organismo europeo di politica estera e il procacciatore di “occupazione” di territori carichi di risorse economicamente strategiche per la crescita e la rivoluzione tecnologica.

Se si considera la politica economica ed estera degli Stati Uniti in termini di complesso militare-industriale, complesso petrolifero e del gas (e minerario) – tutti interessi a rendita monopolista – l’interesse a un crollo della Russia è tangibile, sia per le vendite di armi alla Nato che per l’esportazione petrolifera e gasiera in forte concorrenza, implementata con l’escavazione di fossili dalle rocce di scisto (“shale”) del Nord America. Lo si è visto dall’impennata dei loro titoli appena avviata la guerra in Europa. Per l’Ucraina, invece, l’impoverimento è sconvolgente; per la Germania il colpo è durissimo: aumento al 2% di Pil per le armi e acquisto a prezzi doppi di gas da “shale” dagli Usa.

Non c’è solo quindi l’oscenità della guerra: avendo la Germania rifiutato di autorizzare il Nord Stream 2 ad entrare ufficialmente in funzione diventa conseguente monopolizzare il mercato delle spedizioni statunitensi di gas naturale liquefatto (Gnl) e l’aumento dei prezzi dell’energia: il che sottrarrà gran parte del vigore all’economia tedesca. Dobbiamo riconoscere ora che il monopolio del mercato petrolifero dell’area del dollaro e l’isolamento dal petrolio e dal gas russi, assieme a un accesso facilitato alle immense risorse di terre rare dell’area asiatica, è una delle principali priorità degli Stati Uniti da qualche anno. E risulta allora più chiara la ragione di un allarme insistito nei confronti del “nemico” russo, che sembrava un’assurdità, tenuto conto della competizione in atto con la Cina.

Noi – l’Italia – andiamo a ruota del declino tedesco, ma senza titubanze, sotto la guida atlantista di Draghi, che non è né Prodi, né Andreotti, né Merkel. L’obiettivo politico accessorio – ma purtroppo decisivo in questo contesto – è ignorare e rifiutare le spinte ambientaliste a sostituire petrolio, gas e carbone con fonti di energia alternative. Perciò Cingolani la tira per le lunghe e il governo sostiene l’espansione delle perforazioni in/offshore e pensa alla diffusione di gassificatori nei porti, oltre alla metanizzazione della Sardegna e al riavvio del carbone. C’è, insomma, un enorme interesse degli Stati Uniti a impedire una qualche dipendenza dell’Europa-Nato dalla Russia e, in particolare, dai suoi gasdotti.

È quindi il capitalismo finanziario postindustriale di oggi che spinge la Nato al riarmo. Il fascino dell’alleanza militare influisce perfino sulla trasformazione dei servizi di pubblica utilità in monopoli in cerca di rendita per fornire servizi di base a prezzi massimi (assistenza sanitaria, istruzione, trasporti, comunicazioni e tecnologia dell’informazione, acqua), invece che a prezzi agevolati per gli elettori. Le nostre aziende energetiche – fuorché Enel – con le municipalizzate in testa, non si ritraggono certo dal gas e dal carbone che viene loro suggerito. In questo senso è straordinaria la vittoria dal basso ottenuta a Civitavecchia con la sostituzione del turbogas con eolico galleggiante (naturalmente ritardato nei meandri dei corridoi ministeriali).

Tra le conseguenze del conflitto russo-ucraino, aumenteranno anche i prezzi dei generi alimentari, guidati dal grano (la Russia e l’Ucraina rappresentano il 25% delle esportazioni mondiali di grano). Ciò comprimerà molti paesi con deficit alimentare vicino all’est e al sud del mondo, peggiorando la loro bilancia dei pagamenti e minacciando l’insolvenza del debito estero. Se, tuttavia, la Cina decidesse di considerarsi la prossima nazione minacciata e si unisse alla Russia in una protesta comune contro la guerra commerciale e finanziaria degli Stati Uniti, le economie occidentali subirebbero un grave shock.

Oltre il blocco dell’invasione dell’Ucraina e il ristabilimento di una pace durevole, a mio parere l’obiettivo è superare la Nato e quindi promuovere le politiche di disarmo e denuclearizzazione generali per cui la Russia aveva spinto a suo tempo, con Gorbaciov. Questo non solo ridurrà gli acquisti esteri di armi statunitensi, ma potrebbe finire per portare a sanzioni contro il futuro avventurismo militare statunitense, che con troppa accondiscendenza è lasciato fuori dai nostri canali mainstream. I leader europei chiederanno allora perché i loro paesi dovrebbero pagare per le armi statunitensi che li mettono solo in pericolo; pagare di più per il Gnl e l’energia degli Stati Uniti; pagare di più per il grano e le materie prime prodotte dalla Russia: il tutto mentre si perde la possibilità di realizzare vendite all’esportazione e profitti su investimenti non militari in Russia – e, forse, perdere anche la Cina.

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Contro gas e nucleare faremo una mobilitazione nazionale. L’alternativa ai fossili c’è

C’è da chiedersi perché, fin dall’inizio, Roberto Cingolani abbia proposto come cardini di riferimento della transizione energetica due fonti non rinnovabili: gas e nucleare. Le uniche fonti, a ben vedere, non ancora poste in “phase out”, ma tuttora resistenti ad ogni principio di precauzione, in attesa di un “cambiamento di tecnologia” che le riporti in un ambito di “sostenibilità”. Cosa impossibile in rapporto ai tempi di una crisi climatica in brusca accelerazione.

In fondo c’è piena assonanza tra l’insistenza del ministro ed il risultato che le lobby energetiche hanno per ora spuntato sulla tassonomia europea: una coincidenza che rivela il segno di una cultura tecnocratica ancora prevalente nell’economia di mercato, in cui la rigenerazione della natura e il cambiamento irreversibile del clima non trovano ancora il posto dovuto. In fondo, è assai significativo come venga contrapposta la progettazione di complessi manufatti (si pensi ai reattori atomici di qualsiasi generazione o agli impianti di sequestro della CO2 o, anche, semplicemente, agli enormi consumi di acqua, elemento vitale per eccellenza, per immettere vapore nelle turbine alimentate da combustione) alla convivenza con le forze e le fonti naturali, che governano l’equilibrio del nostro pianeta e che non vanno ad esaurimento accumulando scorie ed effetti disastrosi.

Chiedersi perché non ci sia uno sforzo prodigioso verso le rinnovabili da parte di un’industria manifatturiera tuttora capace di mobilitarsi eccezionalmente soltanto per le forniture di armi per le guerre che insanguinano il pianeta, corrisponde a capire la nuova forma sotto cui si presenta il negazionismo climatico.

Direi che siamo alla terza fase: dapprima si negava l’evidenza; poi, l’affidabilità delle conferme e degli studi scientifici internazionali – come quelli dell’IPCC – ha suggerito di abbandonare al loro destino i più poveri e indifesi, contando sull’esenzione delle nazioni con maggiori risorse tecnologiche e organizzative dai danni più irreparabili; ora, pur di non abbandonare un concetto consunto e in contrasto anche con la giustizia sociale come quello della crescita, si punta alle riserve finanziarie pubbliche e alla garanzia di profitto per quelle private, pur di salvare il tenore di vita di una frazione “recintata” della popolazione umana. Quella che può meglio adattarsi ad un accrescimento inarrestabile della temperatura – ovvero dell’energia interna – del pianeta. In attesa dello sviluppo alienante di un’ingegneria climatica che ripari i guasti, simulando gemelli digitali e virtuali della Terra, della sua atmosfera, del suo rapporto con l’Universo a cui rimane, al di là delle pretese umane, interconnessa e, proprio per questo, adatta alla vita. E tutto per il rigetto di un approccio interdisciplinare e risolutivo come quello dell’ecologia integrale, che richiede democrazia prima che tecnocrazia.

Dobbiamo preoccuparci se non si ascolta il “gemito della Terra”. Nemmeno nell’agenda politica esposta da Mattarella, si è parlato di clima, mentre negli stessi giorni il Ministero del Tesoro italiano (non della Transizione energetica!), inviava una nota alla Commissione Ue per chiedere criteri addirittura più permissivi sulle emissioni di metano nella “tassonomia verde” in esame a Bruxelles.

Sono già state raccolte oltre 161.000 firme contro gas e nucleare considerate fonti “rinnovabili” nel primo passaggio del percorso europeo sul finanziamento pubblico delle fonti energetiche, mentre si continua a restare all’oscuro di come venga cambiato il PNIEC per rimanere almeno entro i dettami fissati dal Next Generation UE.

In sostanza è come se ci preparassimo a due sfide di un unico “campionato”: 1) raggiungere in Italia almeno il 55% di riduzione di climalteranti entro il 2030, ma partendo decisamente da subito; 2) ottenere che la maggioranza degli eurodeputati respinga la qualifica “verde” ai nuovi impianti di metano e al nucleare. Apriamo una partita ragionando e progettando come se si fosse in phase out da tutti i fossili e dall’atomo, perché la soluzione c’è: nelle rinnovabili, in buona occupazione, nelle comunità energetiche, nell’elettrificazione, nel cambio dei modelli di produzione e consumo e in una predisposizione alla cura dell’intero mondo del lavoro, dello studio, della ricerca. Una prospettiva di futuro che ci potrebbe essere negata.

I conflitti territoriali già in corso, pur soffocati dal silenzio dei media, possono e devono necessariamente riferirsi al quadro globale del “campionato” – così definito per voluta allusione ad inizio paragrafo – per portare avanti, su basi di “partite” fatte di concretezza, obiettivi di validità generale. Le mobilitazioni locali, l’informazione, le proposte alternative necessarie, l’impegno del mondo studentesco e di quello del lavoro devono inevitabilmente intervenire sulla riscrittura del PNIEC e sull’impostazione della tassonomia europea.

Molte associazioni si stanno preparando ad una mobilitazione su gas e nucleare per sabato 12 febbraio. Intanto, cinque ex primi ministri del Giappone si sono pronunciati contro l’atomo ed è stato annunciato da FFF lo sciopero mondiale degli studenti. Purtroppo piovono anche notizie tutt’altro che rassicuranti: Sogin rimanda ad un futuro indefinito la scelta del sito nazionale per le scorie radioattive, mentre i programmi scolastici che si dovrebbero inserire in una riforma epocale dell’organizzazione degli studi (licei quadriennali a vocazione ecologica e digitale) vengono affidati, con il compiacimento del Ministero per l’Educazione, ad Elis un consorzio privato di 100 grandi imprese.

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Tassonomia verde, contro gas e nucleare si mobilita anche la società civile europea

Grande consenso – i sottoscrittori sono attualmente 146.922 e aumentano di minuto in minuto – sta riscuotendo la petizione contro la proposta della Commissione Europea, che ne discuterà nei prossimi giorni, di inserire nucleare e gas fossile nell’elenco europeo delle energie verdi: il che in sostanza significa usare i soldi del Next Generation Eu (in Italia Pnrr) per queste fonti pericolose e inquinanti.

Andrebbe peraltro ricordato dai nostri rappresentanti in Europa e dallo stesso Governo italiano che il nucleare è già stato bocciato in Italia da ben due referendum popolari (1987 e 2011) mentre l’Europa deve sviluppare fonti di energia veramente rinnovabili come eolico, fotovoltaico, geotermico, idraulico. Nucleare e gas fossile non lo sono.

L’inaccettabile posizione della Commissione Europea in particolare per il nucleare è un cedimento alle pressioni della lobby nuclearista, che ha nella Francia la capofila. La Francia ha infatti bisogno di una quantità spropositata di miliardi di euro (si parla di 400) per mettere in sicurezza le vecchie centrali e per costruirne di nuove, nonché per completare i costosissimi depositi per le scorie radioattive. Ma i costi proibitivi del nucleare civile vengono nascosti e scaricati sulle finanze pubbliche. Per questo la Francia insiste per scaricare i costi del suo nucleare su tutta l’Europa e altri paesi sperano di fare altrettanto. L’Italia pensa forse di accodarsi per gli interessi che intende mantenere e procrastinare nel settore del metano a danno delle rinnovabili?

Contro questa proposta della Commissione si sta mobilitando la società civile europea e proprio in data 19 gennaio i presidenti della commissione per i problemi economici e monetari (Econ) del Parlamento europeo, Irene Tinagli (S&D, Italia) e la commissione per l’ambiente, la sanità pubblica e la sicurezza alimentare (Envi), Pascal Canfin (Renew Europe, Francia), hanno espresso preoccupazione per la procedura seguita dall’istituzione in merito al progetto di atto delegato complementare sulla tassonomia dell’Unione europea.

Intervenendo a nome della “maggioranza dei coordinatori Econ ed Envi, Tinagli e Canfin hanno deplorato la mancanza di consultazione sulla bozza di testo e la mancanza di una valutazione d’impatto. Hanno quindi chiesto alla Commissione di avviare una consultazione pubblica, come è stato fatto per il primo atto delegato sulla tassonomia e di concedere “tempo sufficiente per le reazioni delle parti interessate”.

La classificazione Ue delle attività economiche che possono essere considerate sostenibili a lungo termine dal punto di vista ambientale, in sostanza la cosiddetta tassonomia “verde”, dovrebbe rappresentare uno strumento discriminante, il più possibile mirato e costrittivo ai fini di una rapidissima riconversione verso il 55% di riduzione di emissioni climalteranti. La nuova proposta della Commissione europea, al contrario, altera sostanzialmente l’uso futuro e l’impatto del quadro tassonomico della Ue.

Inserire tout court gas e nucleare alla stessa stregua delle rinnovabili per ricevere finanziamenti significa offrire uno strumento che vincola la trasformazione dell’economia, ponendo queste fonti nelle stesse condizioni di quelle pulite e ostacolando il cambiamento. È come fornire incautamente a interessati e malevoli lobbisti una bacchetta magica senza libretto di istruzioni.

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Nucleare: se la Terra piange, le borse e i governi interessati se la ridono

Riprendo i temi del post precedente introducendo un’ulteriore considerazione. Raramente ci rendiamo conto che ogni particella di materia ed energia – che ha a che fare con gli oggetti con cui ci circondiamo, le guance che accarezziamo, gli alberi che vediamo crescere, l’acqua che facciamo bollire – in qualunque forma si presentino, provengono da una unica storia di onde e particelle che, da un certo punto e momento in poi, si sono separate, ricomposte e organizzate o in ammassi e corpi inerti e caotici nell’Universo o, dopo miliardi di anni, successivamente in tempi più recenti, si sono ordinati in organismi dotati di auto-organizzazione e di vita, in grado di riprodursi, di nascere e morire, assumendo energia dall’ambiente esterno.

Energia purché compatibile con una crescita di ordine interno, con la specializzazione di proprie funzioni, con l’adattamento e l’evoluzione delle specie, fino alla formazione di istinto, memoria e autocoscienza. Non tutti gli ordini di energia sono predisposti al compito di alimentare una vita così concepita: ad esempio la combustione non lo è, sia per la distruzione immediata dei legami chimici nei tessuti, che per le emissioni in atmosfera che, alla lunga, possono mutare l’energia dell’ambiente vitale e il clima del nostro pianeta.

Dopo le considerazioni fin qui esposte – comprese quelle del post precedente – veniamo ora al significato della apertura Ue alla “tassonomia verde di metano e nucleare” contro cui si stanno sollevando avversioni e forti critiche non solo dal mondo ambientalista. Per quanto riguarda il metano verde (?!) si danno spesso solo dati vaghi: a parità di flusso termico, esso produce una quantità di anidride carbonica pari al 48% del carbone: ma, come avverte l’ultimo rapporto dell’Ipcc, la maggior preoccupazione viene dalle perdite dirette di CH4 nelle fasi di estrazione, lungo i gasdotti e nelle centrali, con effetti di 80 volte superiori a quello della CO2 nei primi vent’anni dopo le fughe in atmosfera. Si tratta di un dato sconcertante, che non era stato in precedenza preso abbastanza in considerazione e che ora allarma le stesse agenzie energetiche internazionali, che hanno fatto pressioni sulle banche per scoraggiare nuovi interventi sull’intera filiera del gas naturale.

Ma, se la Terra piange, le borse e i governi interessati se la ridono e, dopo una forte resistenza sull’applicazione del carbon pricing e una continua polemica sui sussidi alle rinnovabili, è scattata una resa dei conti internazionale per salvare l’economia del gas naturale. La Russia si sta attrezzando per mandare più gas alla Cina limitando le quote per fornire a sufficienza l’Europa e facendo lievitare i prezzi. In compenso, data la competizione in corso per il mercato Ue, gli americani stanno cercando di contrastare i produttori russi e di inviare navi metaniere dall’Atlantico. Ma, poiché il gas dagli Usa costa molto più caro per via del trasporto via mare, bisognerebbe convincere gli Europei a investire in una massiccia infrastruttura di impianti di rigassificazione ai porti e ad accettare di consumare shale gas, meno caro ma con disastrosi impatti ambientali.

Le pressioni, cui si sommano anche quelle da Egitto e Turchia, spingono i governi europei ad aprirsi a un’operazione di sostegno con danari pubblici alla struttura metaniera: un’operazione scandalosa sotto il profilo ambientale, occupazionale, geopolitico e finanziario, che allontanerebbe la soluzione delle rinnovabili a portata di mano. Lo stesso movimento operaio continentale deve prendere una posizione chiara e scartare soluzioni settoriali di ispirazione corporativa, come avvenuto nel caso dei sindacati elettrici nazionali.

Per la prospettiva di un ritorno al nucleare, le motivazioni contrarie non sono solo dovute al vincolo insormontabile di ben due referendum, ma al contrasto invalicabile di tutte le argomentazioni esposte sul rapporto vita-energia. Già in premessa il documento Ue di “apertura” all’atomo nega la sua praticabilità: “Ogni progetto deve prevedere un piano per stoccare in sicurezza i rifiuti radioattivi, piano che deve comprendere il sito di stoccaggio e i fondi necessari”. Un autentico ossimoro ormai convalidato in tutto il mondo. Lo stesso ministro Cingolani, che ha più volte espresso una sua condiscendenza per il ritorno all’atomo, in audizione alle Commissioni riunite afferma che “non si può fare, non ci sono né i reattori modulari né quelli a fusione e io non mi rifarei a una prima e seconda generazione”.

Esaminiamo allora i fatti: per i reattori oggi in funzione (anche l’ultimissimo arrivato in Finlandia, di cosiddetta “terza generazione”) è nota la presenza di isotopi radioattivi nelle scorie nucleari, derivate dalla fissione dell’uranio nel reattore, che emettono calore e possono restare pericolosi per migliaia di anni. Meno noto è che nel caso di fusione del reattore, le stesse reazioni possono continuare nonostante la distruzione dell’impianto, come è avvenuto e sta avvenendo ancor oggi a Chernobyl, nonostante “il sarcofago” di tonnellate di cemento sabbia e boro nel tentativo di neutralizzare la miscela di uranio, acciaio, cemento e grafite, fusa dal calore e infiltratasi nel terreno sottostante.

Per Fukushima, le cose non stanno meglio. La catastrofe è nota: i tre noccioli del reattore si fusero, liberando gas di idrogeno e rilasciando nell’ambiente grandi quantità di materiale radioattivo. I valori di radioattività ancor oggi rilevati sarebbero così alti che se un lavoratore lavorasse lì per otto ore al giorno durante un intero anno, potrebbe ricevere una dose equivalente a più di cento radiografie del torace. Ci sarebbero enormi accumuli di materiale radioattivo, in particolare il cesio, intrappolati nelle sabbie e nelle acque sotterranee fino a 96 chilometri circa di distanza dalle coste giapponesi.

Si dice però che si potrebbe puntare alla fusione nucleare, che richiederebbe una temperatura dell’ordine di un miliardo di gradi dopo una compressione del plasma di idrogeno da parte di un sistema di Laser di potenza. L’edificio di contenimento non sarebbe inferiore a 8 mila metri cubi e i tempi di realizzazione imprevedibili. D’altronde c’è chi sogna piccoli reattori modulari a fissione dell’ordine di 300-400 MW, ma l’implementazione di nuovi progetti è troppo lontana per avere un impatto climatico tempestivo o benefico. Il problema delle scorie, infine, sarebbe ancora più preoccupante, vista la notevole disseminazione di impianti sull’intero territorio.

Dopo 60 anni, l’industria dell’energia nucleare rimane fortemente dipendente dai sussidi, affronta sfide costose e irrisolte di smaltimento dei rifiuti e lascia una lunga scia di responsabilità ambientali in corso. Nel frattempo, le alternative come l’energia eolica e solare, i guadagni di efficienza e lo stoccaggio delle batterie sono ora più economiche della generazione nucleare. Ma, soprattutto, più vicine a un’idea di sostenibilità che la pandemia e la crisi climatica ci suggeriscono di affrontare da specie vivente, non da incessanti creatori di superflui manufatti.

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Cingolani ministro durerà qualche tempo, ma il nucleare è per sempre

Roberto Cingolani ministro durerà magari solo giorni: più sfortunatamente per noi anche per mesi, ma il nucleare, purtroppo, è per sempre.

Come a me, anche a lui avranno insegnato, dai licei alla laurea in Fisica, quanto un determinismo presuntuoso possa illuderci di governare potenza ed energia sul pianeta senza darci pena di come esse possano essere dissipate in atmosfera o negli oceani o degradate senza procurare guasti ai cicli naturali. Lo studio delle scienze in Occidente – ora forse ad una inversione decisiva – è stato per secoli orientato entro un quadro di espansione a dismisura del mondo artificiale: un cumulo di protesi, di manufatti e di scarti in continua crescita, che ostacolava la cura del vivente e della natura, mentre il mercato non perdeva occasione per assegnare a quest’ultimi un valore di scambio.

Questo, tranne rare occasioni, era il percorso in cui si assimilava l’educazione e lo studio delle materie scientifiche e l’orizzonte a cui erano – ed ancor oggi spesso sono – indirizzati tecnologi e scienziati, prima che le nuove scienze, dal secolo scorso in poi, provocassero una svolta che ancora stenta ad affermarsi.

Io ho avuto in sorte di intuire – dalle contraddizioni dell’esperienza sindacale, dall’incontro con i protagonisti della primavera ecologica degli anni ‘70 e dalla pacata e straziante determinazione degli allarmi della Laudato Si’ e dell’Ipcc – quanto l’illusione di un’espansione illimitata della “potenza” umana sia incompatibile con la continuità della sua stessa storia sulla Terra. Forse il ministro Cingolani non è passato attraverso sufficienti esperienze partecipative o di crisi del modo di produzione per valorizzare momenti di dialettica e confronto e, quindi, si permette di esibire una cultura manageriale che risulta sviante di fronte ad emergenze epocali che la popolazione tocca con mano, senza che le sia data voce.

Mentre Germania e Spagna su Next Generation procedono con linearità, il nostro Paese manifesta ritardi sui tempi, confusione sulle tecnologie energetiche da abbandonare, carenza di politiche industriali da avviare subito, anche solo per non dover usare le risorse eccezionali del Pnrr per importare impianti solari eolici o di stoccaggio o componenti elettrici prodotti all’estero.

Nell’approccio di questo governo manca totalmente una visione di come il cambiamento possa essere tanto radicale quanto vantaggioso e possibile. Provo a fare qui alcune considerazioni.

1. Il lavoro umano sul Pianeta ha raggiunto una capacità trasformativa delle risorse naturali rigenerabili assolutamente insostenibile nel giro di un massimo di decine di anni, con orari individuali assurdi, precarietà illimitata e salario differito e welfare praticamente inconsistenti per più della metà degli occupati. L’impronta ecologica degli abitanti dei paesi industrializzati non travalica la metà di un anno solare.

L’orario di lavoro e lo spostamento dell’attività umana verso la cura e l’istruzione permanente è quindi indifferibile: un marchio da cambio di civiltà. Eppure, non esiste una organizzazione mondiale, europea, nazionale sindacale che abbia al centro questa straordinaria rivendicazione.

2. Le politiche energetiche continuano a fissare le loro aspettative sui fossili che vanno lasciati sottoterra e la cui reiterazione è solo remunerata dalla speculazione finanziaria e dall’attività militare cui prestano un sostegno indispensabile in tempi di guerra. I bilanci territoriali di emissioni e scarti delle attività di produzione e consumo sono largamente debordanti e antieconomici, se non fossero sostenuti da sussidi impropri e dalla non applicazione delle tasse sulle emissioni di climalteranti.

3. La riconversione ecologica integrale richiede il ridisegno e la riprogettazione radicale di tutti i componenti oggi impiegati in funzione di protesi umane di amplificazione di potenza, velocità e approvvigionamento alimentare sicuramente da contenere. Da dove cominciare, se non dai territori e da forme di educazione permanente che attraversino la scuola e la diffusione di corsi di formazione popolare?

Ma c’è qualcosa ancora più a monte che riguarda – con l’approssimazione dovuta ai limiti dei nostri sensi e della mente – quel che nella normalità rappresentiamo come genere umano, biodiversità, cicli naturali, elementi che ci circondano; una realtà che non è quel che ci appare.

Che ogni particella di materia ed energia, in qualunque forma si presenti o si componga, venga indistinguibilmente da un unico “atto” – il Big Bang – in cui si è formato tempo e spazio più di tredici miliardi di anni addietro e che tutto quanto – energia e materia – sia interconnesso, trovi forme di aggregazione, ripulsa, auto-organizzazione, attraverso continue cosmogenesi in tempi e spazi da allora in espansione, non l’abbiamo ancora metabolizzato.

Che la dinamica dell’Universo non riguardi solo la nostra storia non l’abbiamo per niente introiettato. Soprattutto, non siamo in grado di apprezzare a fondo la comparsa del vivente, solo pochi miliardi di anni fa, con la sua originalità e fragilità. Così, non siamo avvezzi a considerare meccanismi che ci obbligano a considerarci da unici individui intelligenti a genere non dominante sul pianeta, e, perciò, a specie sociale in contatto vitale con una natura dinamica, che ha una propria autonomia e proprie leggi cha vanno “dall’infinitamente piccolo all’infinitamente grande”, l’uno e l’altro sottratti per ora ai nostri sensi e alla normale percezione mentale.

La cultura che interpreta la realtà e le stesse aspettative in cui viviamo e creiamo relazioni va completamente rivista alla luce dell’interrelazione che percorre l’intero universo “dal più piccolo all’infinitamente grande”. Ce lo fanno capire quotidianamente la sindemia e il brusco cambiamento climatico in corso.

Tutta l’interpretazione determinista che ha invaso anche le scienze economiche ed umane andrebbe riconsiderata, ma non è qui il caso di trattarne. Dato che siamo partiti dal ministro per la Transizione energetica, lo inviterei a pensare che nelle esternazioni cui è così sollecito tenga conto che la storia dell’Universo e le particolarità delle particelle elementari ci trasportano immediatamente in un confronto impressionante sulla articolazione estrema della densità energetica della materia che si vorrebbe impiegare per risolvere senza danno la crisi energetica attuale e che è spiegabile con i tempi assai remoti in cui quella particolare densità si è costituita.

Ebbene: con buona approssimazione si può ritenere che, per ottenere pari energia, a fronte di un grammo di fusione tra isotopi di idrogeno occorrerebbe trattare la fissione di 8-10 grammi di uranio, ovvero portare a combustione 5000 tonnellate di carbone o bruciare in centrale 6300 metri cubi di gas, o, ancora far cadere da 1000 metri un terzo di tutta l’acqua del lago d’Iseo. Diverse fonti di energia risalenti nella loro formazione ad ere anche relativamente ben distanti nel tempo.

Si tratta solo di un puro esercizio che ricorre ad eccessive semplificazioni e modelli mentali assai grezzi, ma può subito dare un’idea di come l’energia nucleare e fossile possano avere ordini di grandezza più o meno devastanti sui tempi e l’integrità dell’ambiente e della persona umana. Ho inteso questa nota come una premessa per analizzare in un prossimo post, con un dettaglio meno “immaginoso” e più aderente alle singole tecnologie impiegate, la crisi del nucleare di qualunque “generazione” e in qualunque configurazione.

Continua

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