L’era digitale offre campi inesplorati per un orizzonte di crescita che sembrerebbe contraddetto dalla dematerializzazione implicita negli attuali sistemi di comunicazione, riconoscimento e calcolo. Dietro l’espansione di questi apparati si celano grandi corporation come le Big Tech Usa che puntano strutturalmente ad un’espansione oltre limite dei loro profitti, a discapito di rilevanti bilanci di energia e materia consumati. In particolare, i consumi elettrici a monte delle prestazioni dei data center sostengono sempre più corpose trasformazioni di materie prime e combustibili, tutt’altro che incolpevoli di danni all’ambiente naturale. Gli algoritmi e i chips che interrogano i big data per l’Intelligenza Artificiale documentano una fame di energia che si scontra con i limiti della sua produzione e gli obiettivi della decarbonizzazione.
L’Agenzia Internazionale per l’Energia (Aie) conferma che l’impatto dei data center sul consumo di energia e di acqua sarà devastante se non interverrà un’attività regolatoria. Il consumo elettrico mondiale stimato nel 2022 intorno ai 460 TWh (il 2% della domanda di energia elettrica globale) in base ai modelli predittivi supererà nel 2026 i 1050 TWh. C’è da chiedersi allora se l’intelligenza artificiale, con la sua fame di energia, si stia trasformando in nemico del clima.
I segnali non sembrano confortanti. Ad esempio, in Irlanda per la prima volta la quota dei data center nel consumo di elettricità ha superato quella di tutte le famiglie messe insieme. Inoltre, è molta l’acqua richiesta per raffreddare questi sistemi con effetti importanti sul consumo e sulla biodiversità. Basta fare da dieci a 50 domande a un chatbot per consumare mezzo litro d’acqua!
Sotto la lente delle emissioni di CO2, le Big Tech stanno valutando la possibilità di costruire accanto ai loro data center centrali nucleari convenzionali o di nuova generazione, in particolare piccoli reattori (Smr) o reattori avanzati (Amr) tra i 50 e i 300MW: l’azzardo è accarezzato anche dal nostro governo. Il traino del nucleare da parte dell’IA viene giustificato da una richiesta di incontenibile crescita dei consumi e dalla esigenza di continuità di potenza sette giorni su sette e 24 ore su 24.
Eppure, lo stridente contrasto nel ricorrere alla tecnologia della fissione a fronte di processi digitali di apparente dematerializzazione potrebbe risolversi in soluzioni realmente sostenibili con rinnovabili assistite da pompaggi o accumuli di batteria e da un ammodernamento delle reti integrate da comunità energetiche con costi ridotti in bolletta. C’è invece una narrativa a sostegno della crescita che approda a soluzioni che prevedono ordini di grandezza delle energie in gioco del tutto incompatibili con la vita. Una posizione che ammette che le presenti generazioni accolgano il rischio dell’atomo senza curarsi che migliaia di generazioni dopo di noi possano pagarne il prezzo per l’impossibilità – ad ora scontata – di smaltirne e neutralizzare le scorie.
Ma anche senza scomodare il principio di precauzione si può confutare più in dettaglio la “sostenibilità” e la plausibilità della soluzione nucleare, accampata da qualche tempo dal nostro governo (v. ddl “nucleare sostenibile”) ricorrendo alla documentazione fornita da uno dei maggiori esperti mondiali: Wolfgang Ehmke. I Small Modular Reactors (Smr), oggetto di ricerca in tutto il mondo, sono progettati per essere prefabbricati, installati più e più volte in tutto il Paese con un conseguente rischio di proliferazione e una copertura di piani di emergenza che coprono intere regioni abitate. Negli Usa sta già emergendo che le costose mini-centrali nucleari non hanno alcuna possibilità in un mercato energetico non sovvenzionato. I loro costi sono proibitivi: l’Institute for Energy Economics and Financial Analysis aveva fissato un prezzo obiettivo di 5,8 centesimi per KWh a metà del 2021. Ora è salito a 8,9 centesimi per kilowattora e non si vede una fine. Per fare un paragone: in Germania l’energia elettrica prodotta da impianti eolici e solari costa già 3 o 4 centesimi al kilowattora e la disposizione di stoccaggi per ridurne l’intermittenza incide solo per 1 o 2 centesimi aggiuntivi.
Ad oggi non è all’orizzonte un deposito definitivo per le scorie: sorge quindi la questione della sicurezza dei contenitori a fianco degli impianti disseminati che originariamente dovevano essere conservati in superficie per circa 40 e non per 100 anni, come ora sta diventando più probabile. Come poi queste strutture possono essere protette da incidenti aerei mirati, droni o attacchi esterni, non essendo progettati per resistere agli effetti della guerra?
Un ulteriore aspetto della digitalizzazione riguarda la moneta. Prende vigore anche per il lancio di Trump il mining da bitcoin. Per i “miner” la probabilità di ricevere una ricompensa è determinata dalla quantità di potenza computazionale spesa. Il termine magico usato in questo caso è il ricorso in loco “all’energia in eccesso” dovuta alle produzioni intermittenti di elettricità da rinnovabili. Ma non è vero che il bitcoin è rispettoso del clima, se non apparentemente. Infatti, per massimizzare i potenziali profitti a costi minimi, i “miner” sono costantemente alla ricerca delle fonti di energia più economiche e queste provengono dalle rinnovabili in loco quando producono in eccesso. Ma un’unità di energia verde in eccesso che diventa disponibile non elimina automaticamente un’unità di energia fossile dal sistema, mentre consente ai miner di impiegare più energia e hardware all’interno dello stesso equilibrio di mercato, aumentando, in ultima analisi, il consumo complessivo di risorse.
In definitiva, la riduzione dei costi “dell’estrazione mineraria” porta direttamente a un aumento del consumo di risorse, esacerbandone l’impatto ambientale. Anche le frontiere del digitale vanno quindi poste sotto la lente non scontata dell’impatto ecologico.
L’articolo Devastante impatto dei data center su consumo di energia e acqua: l’Ai sta diventando nemica del clima proviene da Il Fatto Quotidiano.