a cura di PierLuigi Albini – 1 ottobre 2018
1. Per una diversa “scienza della città”
Nella storia dell’urbanistica e nelle sue teorizzazioni è talvolta emersa l’idea di una scienza della città come paradigma in grado di far convergere diverse discipline verso una pianificazione che governi in modo razionale l’urbanizzazione. Ma di ciò si vedrà più avanti, intanto va ricordato che è a Novecento inoltrato che l’urbanistica ha perso le sue radici di disciplina che comprende il fattore umano come fondamento. Ma quello che interessa prima di tutto sottolineare è che – a parte la necessità di rivedere la legislazione in materia e la critica dell’assoggettamento dell’interesse pubblico a quello privato, avvenuto negli ultimi decenni – nessuna delle precedenti nozioni di scienza della città o di cultura della città – a seconda dei punti di vista – teneva in considerazione l’emergenza climatica come perno necessario di un insieme di competenze progettuali e di decisioni politico-amministrative in grado di pensare delle città a prova di clima, appunto; e quindi di fare fronte ad uno dei più gravi problemi del secolo XXI: forse il più grave.
Secondo il giudizio di Henri Lefebvre – sociologo, filosofo e urbanista – “a parte pochi meritevoli sforzi, l’urbanistica non ha assunto lo statuto di un vero pensiero della città. Anzi, si è man mano rattrappita fino a diventare una sorta di catechismo per tecnocrati”. Va tuttavia detto che – come si vedrà nel paragrafo successivo – oggi il nesso clima-urbanistica è diventato una questione di vita o di morte e da qui la necessità di applicare nella pianificazione (leggasi Piani Regolatori Generali e decisioni urbanistiche) la valutazione dei servizi ecosistemici come parte essenziale di una lotta di contrasto al cambiamento climatico; e quindi di cambiare completamente l’approccio progettuale ed esecutivo a vari livelli: “diritto alla città e diritto alla natura tendenzialmente coincidono”.
Infatti, se la cosiddetta sostenibilità, che vede nelle città un attore essenziale per la sua realizzazione e come conseguenza obbligata al contrasto del cambiamento climatico, non è solo un vacuo slogan, occorre dire ad alta voce che si tratta di una questione di sopravvivenza, di fronte alla quale appare delittuoso e suicida continuare con le vecchie e incontrollate pratiche governate dagli interessi privati. Qui, proprio a proposito di urbanistica, si inserisce una lunga citazione di un saggio del 2005 che conserva tutta la sua attualità.
“Il fatto è che negli ultimi decenni l’urbanistica, da strumento di garanzia dei diritti dei cittadini e di contenimento dello sfruttamento incontrollato del territorio da parte della rendita, è divenuta uno strumento di garanzia della rendita e di esclusione dei cittadini dai processi di governo del territorio. Al disinteresse culturale e politico fa riscontro la debolezza e l’obsolescenza della disciplina: per molte ragioni risulta ormai inadeguata la strumentazione offerta dalla legge fondamentale (n°1150/42), mentre tuttora disattesa è quella riforma dell’urbanistica che si invoca da tempo e che dovrebbe assumere la fattispecie di legge quadro nazionale per aggiornare e mettere ordine nella materia, senza però derogare ai principi costituzionali sull’uso del territorio e sulla tutela dei beni ambientali [e per rispondere all’emergenza climatica, nda]. Rimane quindi tuttora irrisolto l’insieme dei problemi (di ordine istituzionale, fondiario, ambientale, funzionale) accumulatisi nel tempo. […]
Rimangono [quindi] aperte tutte le questioni derivanti dalla crescente complessità dei problemi di governo del territorio, anche perché il dibattito si è molto affievolito, al più limitato agli ambienti specialistici; i cittadini “fruitori” del territorio sono stati del tutto esclusi.
Come è noto, fino dagli anni sessanta e settanta la materia è stata oggetto di un acceso confronto soprattutto ideologico, mentre con la perdita di centralità dello Stato (sul principio del suo ruolo centrale si basava la legge 1150/42) e il progressivo processo di decentramento istituzionale si è sviluppato un crescente conflitto, sia all’interno dei diversi soggetti istituzionali sia tra questi e i soggetti privati (basti pensare alle vicende irrisolte del regime giuridico delle espropriazioni, dei vincoli, della disciplina generale dei suoli edificabili).
Nasce così negli anni ’90 l’urbanistica negoziata in cui al criterio ordinatore basato sulla gerarchia fra i piani si sostituisce quella per campi di interesse di volta in volta emergenti, mentre i nuovi strumenti e i nuovi istituti (Programma di Riqualificazione Urbana, Programma di Recupero Urbano, Programmi Integrati di Intervento, Contratti d’Area, Patti Territoriali, Prusst) vengono utilizzati, talvolta anche con finanziamento pubblico, come variante automatica agli strumenti urbanistici ordinari, fino a che il piano si riduce ad una meccanica e semplicistica sommatoria di progetti.
Con il processo di riforma (o, meglio, controriforma, nda) che ha avuto inizio a partire dal 1990 si è passati così da un sistema nel quale allo Stato era assegnato un ruolo di assoluta centralità a uno nel quale convivono una pluralità di centri decisionali (non solo in materia di diritto urbanistico) titolari di proprie attribuzioni.
Quindi, non solo le competenze urbanistiche dello Stato sono, evidentemente, ormai residuali, ma la stessa materia urbanistica non è più quella totalizzante pensata negli anni Trenta, non riguarda più la universitas dello spazio fisico e umano, ma è subordinata a un complesso di decisioni relative ad altri interessi pubblici specializzati insistenti sul territorio: la difesa del suolo (attraverso i piani di bacino), la protezione della natura (attraverso i piani dei parchi), la tutela dei valori estetici (attraverso i piani paesistici), e, accanto a questi, gli strumenti delle politiche di settore (i piani dei trasporti, dell’energia, dei rifiuti, delle cave, ecc.).”
Ora, la questione centrale è che l’insieme di questi piani non sono messi a sistema e le decisioni e gli atti amministrativi procedono appoggiandosi dunque a questo o a quell’aspetto del territorio e secondo le competenze burocratiche, nella pressoché totale ignoranza dei contesti e in assoluta carenza di coordinamento.
Tutto ciò è accompagnato dal passaggio dall’urbanistica concertata all’urbanistica contrattata, in cui – come detto – il ruolo dell’interesse pubblico è sempre più marginale o viene comunque piegato a quello privato utilizzando una normativa contraddittoria e saltando spesso allegramente le procedure tuttora prescritte dalla regolamentazione.
Mentre a livello nazionale sono sempre attese una legge sull’urbanistica che rimetta ordine nella normativa e una legge ormai urgente sul consumo zero di suolo, a livello regionale talune leggi che, per esempio, sembrano promuovere la cosiddetta rigenerazione urbana sono viziate da meccanismi premiali per l’aumento di cubature, per la concezione di un intervento non di sistema e multilivello (quartieri), nonostante si dichiari che i “programmi di rigenerazione urbana [sono] costituiti da un insieme coordinato di interventi urbanistici, edilizi e socioeconomici volti, nel rispetto dei principi di sostenibilità ambientale, economica e sociale […]” Quel che è infatti accaduto finora Roma è l’abbattimento e la ricostruzione di palazzine del Novecento di pregio. Insomma, si prevede una “offerta” normativa per ampliamento e ricostruzioni accompagnate da indirizzi programmatici riguardanti anche l’ambiente, ma non è stato recepito il concetto di rete ecologica ormai essenziale per ogni intervento multilivello. Nella legge regionale del Lazio 18 luglio 2017, n. 7, per esempio, la parola “clima” appare una sola volta a proposito del Piano agricolo regionale e non riguarda le città. Inoltre, non c’è un collegamento sistematico fra i vari aspetti di una nuova pianificazione (energia, trasporti, dissesto idrogeologico, acqua e così via). Ancora Claudio Canestrari, scriveva nel saggio citato:
“Deregolamentazione urbanistica, concertazione procedurale, delegittimazione della pianificazione di area vasta, marketing urbano spettacolare e privo di contenuti reali, sono i fattori messi in campo senza valutare gli elementi di coerenza territoriale complessiva e gli effetti economici, sociali e ambientali di medio/lungo periodo. Devastanti sono gli effetti della dispersione insediativa associata alle procedure deregolative.
Eppure sulla quantificazione dei costi collettivi e dei costi pubblici derivanti da tali politiche gli studi sono numerosi, sia in Italia sia in taluni contesti europei e perfino nord americani […]”.
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