Con una postilla sul referendum del 17 aprile 2016
a cura di Giovanni Carrosio
Siamo nel mezzo di una crisi energetica, forse la piùimportante nella storia dell’umanità. Faccio riferimento al concetto di crisi, così come è stato adoperato da Immanuel Wallerstein: una fase nella quale le contraddizioni interne al sistema energetico dominante non possono piùessere risolte ristrutturando il sistema tale e quale, ma inducono ad un periodo di transizione caratterizzato da instabilitàe oscillazioni sempre più estreme tra varie alternative possibili di uscita dalla crisi. Una fase nella quale il sistema è aperto a diverse soluzioni alternative, ognuna delle quali èintrinsecamente possibile: si fronteggiano progetti di egemonia differenti, alcuni con più possibilità di affermazione, perchésorretti da poteri ancora dominanti, altri più fragili, perché decisamente discontinui rispetto ad essi.
Nei periodi di transizione, chi del sistema è parte, sia in una logica consociativa che antagonistica (movimenti sociali, forze politiche organizzate, gruppi di interesse economici, governi e istituzioni, cittadini e comunità locali) esercita un ruolo importante: in base alla composizione delle pressioni esercitate, il sistema prende un orientamento che con il tempo si fa dominante. I periodi di transizione possono essere anche molto lunghi, certamente caotici: il sistema oscilla in modo disordinato spinto da logiche contraddittorie, ma a un certo punto, il risultato delle pressioni diventa coerente e ci si ritrova collocati in un sistema energetico differente.
Assai difficile prevedere quali saranno i caratteri peculiari del nuovo sistema, non siamo ancora in una fase matura della transizione, e per questo i movimenti sociali, le nuove eco-imprese e le comunità locali hanno ancora molte possibilità per orientarne la direzione. Ciòche dobbiamo fare è innanzitutto cercare di comprendere in modo analitico ciò che sta succedendo. Èindispensabile uno sforzo di analisi per collocare le nostre scelte nel presente, affinché le cose prendano verosimilmente il corso che auspichiamo.
Le ragioni della crisi energetica
La crisi energetica prende forma per una serie di ragioni interne ed esterne al sistema: sono ragioni interne l’esaurimento delle risorse e la crescita della domanda globale di energia; sono invece fattori esterni il cambiamento climatico, la nascita di gruppi di pressione che orientano il proprio agire politico per modificare il sistema energetico, le lotte ambientali portate avanti dalle comunità contro i danni ambientali provocati da grandi impianti per la produzione di energia.
Proviamo ad approfondire i vari fattori citati. Il progressivo esaurimento delle risorse fossili è uno dei fattori predominanti della crisi: su di esso esistono proiezioni condivise, nonostante sia molto difficile fare delle previsioni. I paesi detentori delle risorse fossili tendono a minimizzare i dati che mostrano la scarsità di risorse, così come le grandi compagnie di estrazione. La maggior parte degli scienziati, tuttavia, concorda su proiezioni che ci vedono nel pieno del picco del petrolio, con conseguenze imprevedibili sulla scala temporale: è difficile prevedere quando vi saranno conseguenze irreversibili sui sistemi socio-politici e con quale velocità. L’andamento del prezzo del petrolio sarà un nodo cruciale di accelerazione o rallentamento della crisi energetica: controllarne le dinamiche significa anche governare la crisi. Esistono perciò forze organizzate che certamente hanno più potere di altre nell’orientare il sistema durante la transizione. Il secondo fattore, strettamente connesso al primo, è l’incremento dei consumi da parte dei paesi emergenti. Il fatto che Cina, India e Brasile abbiano sempre più bisogno di energia per dare gambe alla crescita economica, introduce un elemento di instabilità nel sistema energetico globale. Non solo le risorse fossili sono in esaurimento, ma il numero di pretendenti si allarga ed i consumi globali crescono vorticosamente. Le instabilitàche si producono sono soprattutto di natura geopolitica, dovute alla contraddizione tra sicurezza energetica degli stati nazionali e contrazione delle risorse disponibili e alle conseguenti tensioni tra stati per l’accaparramento di nuovi giacimenti. I recenti accadimenti in Ucraina ci mostrano con forza come la competizione per le risorse produca conseguenze geopolitiche incontrollabili. E le drammatiche tensioni che continuano a generarsi a partire dal Medio-Oriente, con l’avanzata del terrorismo di Daesh che si sorregge su un’economia petro- terroristica, ci ricordano come il legame tra consumatori occidentali di energia e padroni dei pozzi sia fatto di intrecci che producono commistioni e zone d’ombra tra apocalittiche categorie etiche come quella del Bene e del Male.
Un fattore esterno al sistema energetico rende il quadro ancora più complesso: mi riferisco al climate change, ovvero alle alterazioni che le emissioni per la produzione di energia da fonti fossili hanno provocato al clima. Gli effetti del riscaldamento del pianeta sono ormai tangibili: essi prendono forma nel caos climatico, che si manifesta con eventi estremi sempre più frequenti, capaci di mettere in ginocchio intere regioni del pianeta. L’esistenza della specie umana sulla terra rischia di diventare assai difficile, a causa dell’innalzamento dei mari, dell’inaridimento di vaste porzioni di terra, di temperature sempre piu elevate e dell’erosione del saggio di produttività dell’agricoltura, che potrebbe mettere in serio pericolo la sicurezza alimentare su scala globale. Le conseguenze economiche di questi eventi atmosferici, che attirano l’attenzione dei poteri dominanti piùdelle catastrofiche conseguenze ambientali, non sono piùtrascurabili e pongono il tema della lotta al cambiamento climatico e delle strategie di mitigazione e adattamento al centro dell’agenda politica di una parte delle organizzazioni internazionali. Una delle principali misure per ridurre le emissioni in atmosfera riguarda proprio il settore energetico: diminuire drasticamente i consumi e convertire il sistema fossile verso un sistema carbon free è l’obiettivo prioritario per provare a mitigare il cambiamento climatico. Queste esigenze si scontrano però con quelle dei paesi emergenti, di molti governi e con gli interessi di grandi gruppi industriali: i paesi emergenti pretendono di perseverare sulla strada della crescita, come l’Occidente ha fatto nel corso degli ultimi due secoli; i governi occidentali e grandi gruppi economici temono che un’applicazione rigorosa del protocollo di Kyoto li porti a perdere l’egemonia sul sistema economico globale.
Esistono ancora due fattori esterni, che si manifestano come frattura tra sistema energetico dominante e società. In primo luogo, crescono le opposizioni delle comunità locali alla ricerca di nuovi siti estrattivi, alla costruzione di nuove infrastrutture energetiche, alla presenza di impianti inquinanti. Ne sono un esempio, nel caso italiano, i movimenti contro la conversione a carbone delle centrali di Porto Tolle, La Spezia, Rossano Calabro, Civitavecchia; i comitati che si battono per la conversione ecologica del sito minerario del Sulcis, la rete di associazioni che contesta la costruzione di rigassificatori al largo delle coste, i cittadini organizzati che si oppongono alle attività estrattive dell’ENI in Basilicata. In secondo luogo, prende forma un consumerismo critico dell’energia. Nascono gruppi di consumatori ed associazioni che reclamano energia pulita e giusta. Alcuni esercitano pressione sui grandi gruppi che gestiscono le risorse fossili e si organizzano per acquisti collettivi di piccoli dispositivi per la micro-generazione di energia da fonti rinnovabili – per esempio le cooperative Retenergie – oppure danno vita a cooperative di consumo di energia 100% etica e rinnovabile – come ènostra, che consente ai propri soci di staccarsi dai tradizionali fornitori di energia elettrica. Altri, si organizzano in forme comunitarie per il raggiungimento dell’autonomia energetica su scala locale, diventando co-produttori di energia. Le associazioni in particolare – come Energia Felice, Comitato Sìalle Rinnovabili No al Nucleare – si mobilitano in positivo per la piena attuazione del referendum sul nucleare. Accanto ai movimenti sociali per l’alternativa energetica, vi è una fitta rete di imprese medio-piccole, che cercano spazio tra le pieghe non presidiate dal sistema dominante: professionisti, installatori, produttori di micro-dispositivi, certificatori energetici, appartenenti alla filiera della nuova edilizia a consumi zero.
Un altro fronte, spesso sottovalutato dai movimenti sociali e loro potenziale alleato, è dato dal riposizionamento di grandi imprese ad alto tasso di innovazione tecnologica, come Siemens, che stanno investendo in nuove tecnologie legate alle smart grid, dando una spinta dall’interno del mondo industriale alla transizione. Si tratta di operazioni spesso ambivalenti, portate avanti anche da colossi del settore energetico tradizionale – pensiamo ai concentratori solari luminescenti di ENI – che fanno parte allo stesso tempo di strategie di conservazione (si veda prossimo paragrafo), e di operazioni che aprono contraddizioni e dissociazione di interessi all’interno dello stesso regime energetico.
Le strategie di conservazione: grandi imprese, carbon lock-in e la trappola del gas
Abbiamo giàdetto come la transizione energetica non sia un processo univoco. Il passaggio da un sistema incentrato sulle risorse fossili ad uno fondato prevalentemente su quelle rinnovabili èun percorso accidentato, con fasi di accelerazione, fasi di stallo e momenti di arretramento. Nei periodi di transizione operano tante forze: resistenza e cambiamento si scontrano. Le forze dominanti adottano diverse strategie per non perdere l’egemonia sul sistema energetico. Alcuni parlano di carbon lock-in, come quell’insieme di azioni funzionali alla conservazione del sistema tecno- istituzionale che sfrutta le fonti fossili. Per riprodursi incontrastato, questo sistema agisce su diversi fronti.
Il primo èpiù tangibile: si tratta della strenua conservazione dell’esistente, soprattutto laddove non esistono forti opposizioni politiche e sociali capaci di mettere in discussione le loro attività e i sistemi regolativi sono molto permissivi sotto il profilo ambientale. La Strategia Energetica Nazionale di Passera va ampiamente in questa direzione, prevedendo anche la sottrazione della materia energetica alle regioni per un ri-accentramento decisionale. Il caso lucano ci rimanda a questo tema: un’area socialmente fragile, dove non esistono consistenti risorse di mobilitazione capaci di rimettere in discussione le attività dell’ENI.
Il secondo fronte èpiù subdolo, perché propagandato spesso come cambiamento in una direzione di sostenibilita. Si tratta dell’ammodernamento dell’esistente, secondo i principi della modernizzazione ecologica. I grandi investimenti in ricerca e sviluppo per la diffusione di tecnologie di cattura e stoccaggio di CO2 nelle centrali a carbone, sono un esempio di come i grandi gruppi orientano la ricerca sulle tecnologie per combattere il cambiamento climatico in una logica di preservazione della propria egemonia. Il carbon capture and storage consente di continuare a produrre energia da carbone, rendendo il processo meno inquinante in termini di emissioni. Si tratta di una innovazione interna al percorso tecnologico del carbone, che ne consente la sopravvivenza anche in ambienti più ostili, dove le pressioni sociali sono forti e le normative ambientali più stringenti. In questo caso si innova per conservare, affinché la produzione di energia da carbone non venga sostituita da sistemi tecnologici alternativi. Su questa tecnologia esistono controversie scientifiche importanti. Molti scienziati e analisti ritengono che lo stoccaggio di anidride carbonica nel sottosuolo non sia affatto sicuro: alcuni paventano un legame tra incremento del rischio sismico ed esperimenti di storage. Si tratta pertanto di una soluzione difficilmente percorribile al fine di ridurre le emissioni climalteranti, ma sulla quale si riversano enormi quantità di denaro per ricerca e sviluppo (a discapito della ricerca su risparmio e rinnovabili). Ancora una volta, perciò, non si trova soluzione ad un problema ambientale, ma lo si sposta su un altro versante non ancora saturo.
Il terzo fronte èdi apertura nei confronti delle rinnovabili e di condizionamento delle politiche di incentivazione e di regolazione. Il sistema dominante entra nel mercato delle rinnovabili, per orientarlo e governarlo, imprimendo accelerazioni e provocando fasi di stallo a seconda delle proprie esigenze. Il tentativo di governare le rinnovabili è funzionale a costruire un sistema nel quale esse ricoprano un ruolo esiziale e complementare. Enel, per esempio, ha da qualche anno dato vita alla società controllata Enel GreenPower, con l’obiettivo di investire nelle energie rinnovabili, mantenendo il controllo sul mercato dell’energia. Gli investimenti nelle rinnovabili cresciuti con forza negli ultimi cinque anni, hanno provocato una destabilizzazione del sistema elettrico nazionale, con importanti problemi di gestione della rete. I grandi gruppi hanno investito in produzione di energia, senza intervenire sullo stoccaggio e l’ammodernamento delle reti. In questo modo, contribuiscono a diffondere una immagine falsata sulle rinnovabili creando un clima di delegittimazione. L’immagine che trasmettono è di inaffidabilità e incapacità di garantire la continuità nella fornitura di energia.
Ai tre fronti di conservazione va aggiunta la trappola del gas: ovvero, l’idea dominante per cui il passaggio dalle fonti fossili alle rinnovabili richieda una fonte di transizione rappresentata dal gas naturale. Ma gli ingenti investimenti che stanno facendo le grandi imprese fossili con il consenso di alleanze interstatali su questo fronte sono un ulteriore tentativo di bloccare la transizione. L’imponente apparato tecno-istituzionale del gas naturale si impone come nuovo dispositivo di conservazione del sistema fossile. L’Italia si trova al centro di questa strategia, con l’ambizione di diventare hub strategico del gas per il resto d’Europa. Rientrano in questo obiettivo i tre rigassificatori entrati in funzione negli ultimi anni (Panigaglia, Porto Tolle e Livorno), i quattro approvati (Porto Empedocle, Gioia Tauro, Priolo Gargallo, Trieste, Capobianco) e i cinque ancora in fase progettuale (Ravenna, Taranto, Monfalcone, Rosignano, Porto Recanati). A questi va aggiunto il Trans Adriatic Pipeline (TAP), un progetto di gasdotto che dalla Grecia dovrebbe passare per l’Albania, immergersi nel Mar Adriatico per poi rispuntare in Puglia, in uno dei tratti di costa piu belli e incontaminati del Salento. Il TAP èsolo un segmento di un’opera ancora più grande, un serpentone di 3.500 chilometri che una volta completato porterà in Europa il gas che si trova al largo dell’Azerbaigian, nel Mar Caspio. In un secondo momento il Corridoio potrebbe comprendere anche il gasdotto Trans-Caspian, dal settembre 2011 oggetto di un negoziato diretto tra la Commissione europea e il governo del Turkmenistan. Gli altri due tratti si chiamano Trans Anatolian Gas Pipeline (TANAP) che, come dice il nome, interesserà il territorio turco, e Southern Caucasus Gas Pipeline, che parte dal Mar Caspio e passa per le Georgia.
L’alternativa energetica: risparmio, micro-generazione e comunità locali
Di fronte alla pervasività del sistema dominante e alla sussunzione delle rinnovabili all’interno di una strategia di conservazione, sembra impossibile intervenire dal basso per orientare la transizione energetica verso un sistema energetico democratico, giusto e libero dal carbonio. Nella lunga transizione dal carbone ai giorni nostri, i soggetti del cambiamento sono mutati.
Un bravo storico della Columbia University, Timothy Mitchell, nel suo libro “Carbon Democracy. Political Power in the Age of Oil (2012)”, ha delineato una relazione molto stretta tra l’avvento del carbone e l’importanza della classe operaia come soggetto politico organizzato all’interno delle democrazie occidentali. Il ciclo del carbone permetteva alla classe operaia di poter rivendicare diritti attraverso lo sciopero in una serie di nodi centrali del ciclo produttivo, dalla sua estrazione fino all’utilizzo nelle centrali. Bloccare una sola di queste fasi significava far mancare energia a tutto il sistema produttivo di uno stato nazionale. Pensiamo a quanta risonanza e valore simbolico ha avuto ancora negli anni 1984-1985 lo scontro tra i minatori del carbone e la Tatcher, che voleva chiudere – ed effettivamente chiuse – tutti i siti minerari in Inghilterra non solo per ragioni economiche, ma per sottrarre ai lavoratori un terreno di lotta attraverso cui rivendicare diritti e democrazia. E non a caso, la chiusura delle miniere prevedeva una transizione energetica verso petrolio e nucleare, fonti energetiche che richiedono un sistema di potere molto concentrato.
Per Mitchell il declino tardo novecentesco del movimento operaio come forza del cambiamento ha una delle cause proprio nel mutamento del sistema energetico e nel passaggio dalla centralità del carbone a quella del petrolio. Quest’ultima, fonte poco controllabile socialmente perché dislocata soprattutto nei paesi mediorientali e bisognosa di un apparato militare per gestirne le implicazioni geopolitiche, ha fatto sì che i lavoratori e i cittadini dei paesi occidentali perdessero la possibilità di controllare l’elemento primario per il funzionamento degli apparati sociali e produttivi della società contemporanea.
Come si collochino oggi i lavoratori nella transizione energetica, se forza di cambiamento o di conservazione, è un elemento che richiederebbe un approfondimento. Se il conflitto è tra decentramento dei sistemi produttivi – fino ai micro-dispositivi famigliari – e centralizzazione emergono nuovi soggetti: i cittadini e le comunità locali, insieme ai professionisti e alle piccole e medie imprese, hanno ampi spazi di agibilità politica dentro il paradigma della transizione. Essi mettono in luce una serie di antinomie che ci portano oltre la dialettica tra capitale e lavoro: decentramento/accentramento, risparmio/produzione, autonomia/dipendenza, sovranità energetica/sicurezza energetica. Dentro questa cornice concettuale, il modello “fordista” di produzione di energia entra certamente in crisi con tutte le sue componenti, anche quella del lavoro e della sua rappresentanza. E cambiano anche le forme e i fini delle lotte. Il risparmio energetico diventa lo strumento più forte per orientare la transizione dal basso (si veda Leonardo Becchetti, Il mercato siamo noi. Politiche per un’economia della felicità) mettendo in discussione il patto produttivistico tra imprese fossili e lavoro. Risparmiare energia significa rendere superflua una buona parte della produzione, riducendo il peso che le grandi imprese energetiche hanno sull’ambiente. Con le nuove tecnologie e adottando comportamenti virtuosi è possibile ridurre drasticamente i consumi di energia mantenendo inalterata la qualità delle nostre vite. Fare pressione per ambiziose politiche di risparmio energetico su più livelli è molto importante. Ma è altrettanto importante mobilitare cittadini e comunità locali perché adottino strategie di risparmio. Il risparmio di energia è una forma di critica materiale al sistema energetico dominante: bisogna riflettere come mai fino ad oggi le mobilitazioni locali contro il biocidio delle grandi imprese di energia non hanno promosso forme di lotta inedite e generalizzabili come lo sciopero dei contatori; può essere mobilitato un patrimonio di creatività per innovare le forme di protesta, in modo tale da sottrarre al sistema fossile la linfa vitale. Il secondo strumento per orientare la transizione energetica è la produzione di energia in forma decentrata, a livello di comunità o di singole famiglie. In Italia, ad esempio, vi è stata una straordinaria diffusione del fotovoltaico.
Questa diffusione ha avuto certamente connotati ambivalenti: ci sono state speculazioni sugli incentivi da parte di fondi di investimento e imprese multinazionali e una buona parte della potenza installata è rappresentata da impianti a terra, che hanno occupato terreni agricoli talvolta molto fertili. La questione importante che pochi osservatori hanno messo in evidenza, è che circa 200 mila famiglie, grazie al sistema di incentivazione, hanno installato piccoli impianti raggiungendo l’autonomia energetica della propria abitazione. Le motivazioni possono essere molteplici, ma la cosa che conta è che queste persone sono uscite dal sistema fossile per la produzione di energia domestica. Su un livello più alto, è necessario ripensare l’interazione tra utenti ed ex municipalizzate, soprattutto nel Nord Italia. Le più importanti multi-utilities del Paese si muovono ormai come imprese de-territorializzate e rappresentano uno dei freni più importanti alla transizione energetica.
La rivendicazione di spazi di democrazia all’interno di questi gruppi, attraverso la partecipazione diretta dei cittadini, è un elemento fondamentale per gestire a livello locale la transizione, invertendo la deriva produttivistica che queste imprese hanno assunto e riportando la lettura dei bisogni delle comunità locali al centro delle strategie imprenditoriali. Altrettanto importante, conoscere e mettere in rete le comunità locali che hanno adottato in modo autonomo azioni collettive per la produzione ed il risparmio di energia locale: nei piccoli comuni delle aree interne del Paese, esistono tanti progetti ed esperienze concrete di socializzazione dell’energia e di comunità in transizione verso un sistema libero dal carbonio. In altre zone, emergono esperienze come i Gruppi d’Acquisto di energia verde, o ancora i GAS per l’acquisto collettivo di micro- dispositivi energetici. Si fanno largo imprese sociali che operano nel settore del risparmio, e nuove cooperative di produzione e consumo, per la realizzazione di impianti fotovoltaici, mini- idroelettrici, eolici attraverso forme di azionariato popolare.
Legare queste esperienze di pratica dell’alternativa energetica alle lotte contro il biocidio provocato dal sistema energetico dominante è allora strategico, al fine di intervenire nella crisi energetica ed aprire inedite vie d’uscita, che si pongano come alternativa alle diverse facce assunte dalla predominante spinta alla conservazione.
Postilla: il referendum del 17 aprile 2016 nella transizione energetica
Il referendum del 17 aprile – al di là del perimetro ristretto del quesito sul quale siamo chiamati ad esprimerci – rappresenta un voto sulla transizione energetica. Quel giorno siamo chiamati a fare una scelta di campo: con il mondo ormai decadente delle fossili, o per una alternativa energetica ancora in gran parte da scrivere, ma sulla quale i cittadini, le eco-imprese, le comunità locali, i movimenti sociali possono realmente incidere nella sua definizione. E sarà anche l’occasione per chiedere con forza l’attuazione degli impegni presi durante la Conferenza di Parigi, COP21. Arturo Lorenzoni, economista dell’energia dello IEFE – Bocconi, coglie questa macroscopica contraddizione “applaudiamo al timido accordo raggiunto a Parigi alla Cop21, auspicando un’azione efficace per decarbonizzare l’economia, oppure ignoriamo i vincoli climatici e continuiamo a guardare all’economia attuale, preservandone equilibri e traiettorie tecnologiche? Le due cose non sono conciliabili, per quanto il nostro governo provi a difendere la sua posizione altalenante”.
Allo stesso modo, Giovanna Ricoveri, nell’ultimo editoriale della rivista Ecologia Politica, ci ricorda come il referendum rappresenta una occasione per invertire la politica ambientale del governo italiano, che da una parte sottoscrive l’impegno preso alla Conferenza di Parigi per contenere la febbre della Terra e dall’altra non solo incentiva le fonti energetiche fossili a discapito delle rinnovabili, ma invita i cittadini a non andare a votare affinché il referendum fallisca.
La vittoria del SI al referendum del 17 aprile prossimo sarà un ulteriore tassello per orientare la transizione energetica verso un modello democratico e giusto, che guarda al futuro e al lavoro, come avrebbe detto un grande profeta liberale e socialista del nostro paese, Aldo Capitini, un voto per l’omnicrazia (energetica).