di Michele Mezza (tratto da Zenit.org)
Nel bel mezzo di almeno quattro rivoluzioni – la globalizzazione dei mercati e della cultura, il cambiamento delle comunicazioni tramite la rete telematica ed i social network, l’ingegneria genetica con tutte le implicazioni di opportunità e rischi, lo stravolgimento etico e morale del gender con leggi che relativizzano la famiglia originaria e aprono la strada a nuove forme di schiavitù quali l’affitto di uteri, ed il commercio di gameti ed ovociti – la scena mondiale viene conquistata da un Pontefice che si comporta in maniera semplice, naturale, umana.
La scorsa settimana la stampa mondiale ha colto nella visita di Papa Francesco ad un ottico nel centro di Roma una notizia di grande novità. Ma come può un gesto così semplice attirare l’attenzione dei media a livello mondiale? ZENIT lo ha chiesto al giornalista, scrittore, saggista Michele Mezza. Già inviato Rai, Mezza ha curato e realizzato Rainews24, di cui è stato anche vicedirettore. Attuale vicedirettore di Rai International, è autore di diversi libri e saggi su nuovi mass media, tecnologie digitali, multimedialità e internet. Di seguito l’intervista.
A proposito della vista del Papa al negozio di ottica a Roma, che ha attirato l’attenzione della stampa mondiale, qual è il suo giudizio a proposito? Dove sta, secondo lei, la novità, dov’è la notizia e perché è rilevante?
A me pare che il Pontefice usi se stesso per un processo che coinvolge in realtà l’intera comunità di vertice della struttura ecclesiastica. È un processo radicale che mira a riordinare quel potere per contenuti e non più per forme. L’umanizzazione del Papa impone una riumanizzazione del Collegio vescovile e sopratutto della Curia. I due fenomeni ormai non sono disgiungibili. La scena di Francesco che si aggira nell’angusto spazio dell’ottico romano, con il titolare del negozio che gli mette, normalmente, la mano sulla spalla, è un messaggio di una potenza planetaria. È un punto di non ritorno. Proviamo ad immaginare il prossimo Pontefice come dovrà comportarsi dopo questa svolta. È plausibile il ripristino di segni di diversità del Papa dopo Francesco?
L’immagine di Francesco nella bottega romana ha fatto il giro del mondo attraverso i social network, ricevendo migliaia di ‘retweet’. A proposito di rete e di social, lei nel suo ultimo libro “Giornalismi nella rete” (edito da Donzelli) sostiene che con essi stanno cambiando tutti i parametri dell’informazione: il software è come un flusso di informazioni che incide e si pone il problema di chi e come impagina il flusso. Cioè, da una parte, una maggiore libertà, dall’altra, rischi di pensiero unico. Può spiegarci meglio il suo punto di vista?
Nel libro ‘Giornalismi nella rete’, che non a caso ha un formato multimediale, ragiono attorno alla constatazione che Il flusso è oggi il nuovo format della conoscenza. Questa è la tesi che propongo alla discussione. Per flusso intendo un unico getto continuo di contenuti caratterizzato dalla velocità e per certi versi anche da un’oculata casualità .Il prototipo di questa configurazione è il recente accordo stipulato da Facebook con alcune fra le principali testate giornalistiche globali, come il New York Times ,Il Guardian , il Washington Post: i giornali consegneranno al social network le notizie che verranno distribuite come flusso permanente lungo le pagine del miliardo e mezzo di navigatori .Il giornale perde la sua forma storica e stabile di pagine e diventa fornitore di un unico sistema che a sua assoluta discrezionalità consegnerà ad ognuno di noi le notizie in un ordine e con una cronologia che sarà determinata dai nostri profili che Facebook ha elaborato. Un’operazione gigantesca che chiude la parentesi di Guttemberg ed apre una nuova fase in cui nessuno leggerà lo stesso giornale dell’altro. Lo stesso meccanismo sarà adottato da Amazon per i libri e nelle università americane già ci si sta adeguando per gli strumenti didattici. Il flusso è un linguaggio di per sè, conseguenziale, mai stabile o definito, dove alla gerarchia dei contenuti, tipico valore guida nella pagina stampata, si sostituisce la relazione fra la notizia che appare e i temi che stiamo trattando proprio in quel momento. L’obbiettivo è ovviamente creare uno stato emotivo selettivo. Su questo processo credo sarebbe opportuno riflettere ed intervenire. Il quesito che vedo dominante è: chi impagina il flusso? Chi decide per un miliardo e mezzo di edizioni ogni minuto?
In questo contesto sta emergendo il grande problema della proprietà intellettuale. Di che si tratta?
Questa è la grande guerra che si sta combattendo da anni ormai. La rete ha innestato questo nuovo conflitto fra content provider, ossia i titolari delle biblioteche di contenuti (audio, video e testuali) e i net provider , ossia i grandi centri servizio, come Google e Amazon. Questo scontro si basa su un dato antropologico: l’ambizione di ogni individuo in rete di autogovernare la propria dieta mediatica, senza accettare i pedaggi degli statuti proprietari. Questa forma di utente-corsaro, che prende quello che vuole, è anche la conseguenza di un istinto per cui ognuno di noi sa che nel momento in cui scarica o condivide un contenuto sta dando valore e diffusione esattamente all’autore di quel contenuto, e rivendica come sua retribuzione il diritto di usarlo gratuitamente. Quest’ambizione di libertà viene strumentalizzata dalle grandi agenzie dei servizi in rete per spostare definitivamente il baricentro del mercato dalla produzione alla distribuzione. Ma se proviamo a guardare questo tema da un’altro punto di vista, ossia la rivendicazione di intere comunità nazionali, come quelle dei paesi più poveri, di veder riconosciuto il proprio diritto all’accesso al mercato delle conoscenze, in materia scientifica, o farmacologica, mercato che utilizza in larga parte culture e prodotti naturali proprio di quei paesi, allora la guerra del copyright ci appare come un fenomeno di riequilibrio delle ragioni di scambio nel mondo. Esattamente come si discuteva del debito diseguale negli anni ’70. Questo tema mi pare si identifica con un destino: l’inesorabile spinta dei popoli ad avere il sapere come bene comune.Un concetto che Papa Francesco accarezza nella sua ultima enciclica.
C’è poi il problema enorme dell’acquisizione e del controllo dei dati sensibili, in particolare della cartella clinica di ognuno. Sembra che già in alcune Nazioni avanzate la decisione per assumere o non assumere passi per la conoscenza della cartella clinica digitale dei candidati. Cosa sta accadendo e quali sono i rischi sociali di questa tendenza?
Questa è la frontiera del nuovo big data. Siamo ormai arrivati a considerare il corpo umano non più come un centro da servire con le protesi digitali, ma come una piattaforma da usare per accelerare lo scambio di dati. Gli ultimi sistemi, penso al digital watch della Apple o al nuovo sistema di bluetooth che usa i segnali elettrici del corpo, si stanno avvicinando a creare circuiti di scambio dei dati biologici. La nostra cartella clinica diventa la nostra carta di identità. Già negli Usa ormai nelle ricerche di personale si chiede l’accesso alla cartella clinica digitale. Questo è un campo su cui diventa essenziale intervenire con valori e soggettività pubbliche forti. Due sono i temi: uno generale che riguarda la natura e struttura dell’algoritmo, il vero ordinatore sociale, che deve essere trasparente e negoziabile, io devo sapere che tipo di algoritmo si usa e d eventualmente devo poterlo modificare; secondo il limite alla circolarità dei dati biologici: un dato personale che non può e non deve essere disponibile per la discrezionalità del mercato.
Chi e come può porre limiti etici a queste tendenze? Papa Francesco nella Enciclica Laudato Si’, ad esempio, mette in guardia dallo strapotere di derive che utilizzano tecnologia e conoscenza scientifica per dittature che non servono il bene comune. Che ne pensa?
L’enciclica Laudato Si, la citavo prima, mi pare un grande passo su un terreno ancora inesplorato: come la comunità umana nella sua complessità, può umanizzare la corsa tecnologica. Il documento papale introduce un concetto fortissimo: come l’acqua anche il sapere, e specificatamente il software, deve essere un bene comune: accessibile, scambiale, modificabile. Si tratta di riconoscere che la tecnica non è neutra, e più assume potere di interferenza sulla natura umana più deve essere garantita e controllata. Il punto è capire chi è il soggetto negoziale. Papa Francesco mette in campo la sua autorevolezza morale e culturale, accanto a lui ci deve essere la società civile e politica: l’Europa, l’Italia, le grandi città, le università. Tutti quei soggetti che sono utenti e controparti dei nuovi imperi dell’algoritmo .Esattamente come accadde all’inizio del secolo scorso con la fabbrica, quando quell’enorme sistema di produzione fu civilizzato dalla società civile e dalla politica grazie all’organizzazione del mondo del lavoro.