di Mario Agostinelli – Il Fatto Quotidiano – 12 novembre 2013
Come da copione, la tragedia delle Filippine non riesce a turbare la coscienza dei governanti del vecchio mondo. “In fondo – pensano – per ora non ci tocca e i Paesi meno sviluppati soffrano perché non hanno ancora sistemi di prevenzione all’altezza delle catastrofi. Peggio per loro, finché qui ne siamo immuni e possiamo lavarci la coscienza con un po’ di carità a disastro avvenuto”.
Che la prevenzione stia invece nel ridurre noi le emissioni climalteranti, con tutto quanto consegue sull’uso delle risorse, sugli stili di vita, sulla convivenza con l’ambiente e sulla qualità del lavoro, non è argomento di riflessione per una politica che, se si compiace di esibire “palle d’acciaio”, inconsciamente manifesta una propensione più androide che umana.
Eppure, si aprirà a giorni in Polonia il vertice sui cambiamenti climatici: i governi dell’Europa purtroppo ci arriveranno in ordine sparso, mentre tutto il mondo della finanza fiuterà affari e le banche faranno pressioni per drenare risorse verso i loro bilanci, anziché per ripianare il debito verso la natura.
L’Ue, per la verità, si era posta l’obiettivo per la riduzione delle emissioni di CO2 e aumentare la quota di energia rinnovabile entro il 2030. Ma le differenze tra gli Stati membri e gli interessi economici divaricanti potrebbero compromettere questa ambizione. Mentre la Danimarca rinuncia alle trivelle in mare a favore dei mulini a vento e la Germania si è da tempo impegnata sull’energia verde, la Polonia punta sull’estrazione di gas da scisto (shale gas) e l’Inghilterra annuncia la costruzione di nuove centrali nucleari. In compenso, l’Italia si accontenterebbe di smistare il gas che le viene portato da lontano, rinunciando ad una politica industriale e occupazionale che la sua esposizione naturale favorirebbero.
La Commissione Europea continua ad affermare che la matrice energetica è di competenza esclusiva degli Stati membri, ma, se questo valeva nel secolo scorso, il cambiamento climatico e le rivoluzioni informatica ed energetica portano a omogeneizzare in dimensione continentale una strategia dell’efficienza, della cooperazione, dell’accumulo della produzione rinnovabile,dell’impiego di reti intelligenti. Le iniziative non coordinate dei singoli Stati non sono più senza conseguenze, come dimostra lo stesso esempio della transizione energetica in Germania, dove la sospensione della produzione nucleare e il conseguente sviluppo della produzione sostitutiva da vento e sole hanno avuto un forte impatto sui paesi limitrofi. Già nel 2013 durante il picco di produzione, volumi di elettricità verde che la rete tedesca non poteva assorbire sono stati trasferiti alle reti polacca e ceca.
Una Europa sempre più liberista e sempre meno sociale mostra tutti i suoi limiti anche in campo energetico. Con una strategia incerta, piegata alle privatizzazioni e influenzata dalle lobby energetiche che stazionano a Bruxelles, gli ingenti fondi a disposizione non servono a conseguire gli obbiettivi dichiarati. Gli inglesi vogliono sovvenzionare la costruzione di centrali nucleari? I polacchi vogliono avere una legislazione che non consideri i guasti ambientali del gas da scisto? I tedeschi vogliono difendere un’industria automobilistica che sforna vetture a elevate emissioni? Niente di meglio che non pestarsi i piedi e evitare di armonizzare le politiche energetiche di 27 nazioni.
Tuttavia, il futuro procede in altra direzione: già ora nessun paese è un’isola energetica e la rete elettrica a venire è irreversibilmente europea! Sarà pertanto residuale la battaglia dei grandi gruppi per mantenere sistemi centralizzati e impianti di grande dimensione alimentati da fonti non rinnovabili, pur con minori emissioni climalteranti. Perdente, dal momento che le tecnologie – nucleare e CCS (cattura e sequestro di CO2 sotto terra) – che dovrebbero rispondere a questi requisiti, sono in crisi dopo Fukushima e la decisione della Norvegia di porre fine all’ambiziosoprogetto di cattura nella raffineria di Mongstad.
La decarbonizzazione dell’economia funziona all’origine dei processi, comportando che i capitali siano dirottati verso le fonti rinnovabili – in grado di eliminare le emissioni di oggi – anziché verso la realizzazione di insicure discariche dei combustibili nucleari e fossili del passato. La diffusione delle rinnovabili entra ormai definitivamente in collisione strutturale con gli interessi dei monopoli nazionali, che proteggono il loro mercato locale anche a dispetto del clima.
Si può ben dire, in conclusione, che la diffusione delle rinnovabili costituisce l’antidoto più potente al catastrofico riscaldamento del pianeta.