Emissioni di anidride carbonica record nel 2023: il tempo scade, il mondo va in direzione opposta

Dalle elezioni europee, la somma di astensioni e di rigurgiti diffusi di destre anche estreme, segnalerebbe che tra la popolazione l’emergenza climatica sia passata in secondo piano, a fronte del riarmo e del divampare delle guerre tra blocchi in lotta per l’egemonia globale. Al contrario, occorre andare più a fondo per capire che è in corso una frattura profonda tra cittadini – che non si sentono rappresentati – e poteri politici ed economici schiacciati sul presente, ma incapaci di cooperare per un futuro in cui ci sia posto dignitosamente per tutti sul Pianeta.

Riferendomi alla crisi climatica, per cui non abbiamo più tempo a disposizione, provo ad illustrare lo sfasamento tra emergenze vissute dal basso e mancate soluzioni fornite dall’alto, illustrando le conclusioni di due indagini di grandissima affidabilità e a rilevante estensione: il documento dell’Undep sulla sensibilità al cambio climatico fra le popolazioni mondiali e quello di Carbon Brief sulla crescita delle energie rinnovabili nel 2023, purtroppo non ancora dissociata da quella parallela delle fonti fossili.

Il report dell’Undep interroga sul cambiamento climatico un significativo numero di soggetti, in modo tale da far riferimento alla vita quotidiana, includendo persone provenienti da gruppi emarginati nelle parti più povere del mondo. L’indagine è stata svolta dall’Università di Oxford e dallo studio GeoPoll in base alla formulazione di 15 domande a più di 75.000 persone in 77 paesi che parlavano 87 lingue diverse, in rappresentanza del 90% della popolazione mondiale: insomma, il più grande sondaggio di opinione pubblica autonomo mai condotto sul cambiamento climatico. Le domande sono state progettate per aiutare a capire come le persone stiano vivendone gli impatti e come vogliano che i leader mondiali rispondano.

La ricerca rivela che oltre l’80% delle persone registrate vuole che i loro governi intraprendano azioni più decise per affrontare la crisi climatica, mettendo da parte le differenze geopolitiche per lavorare insieme su un’emergenza sempre più incombente.

L’indicazione è chiara perfino in dettaglio: i loro leader dovrebbero trascendere le loro differenze, per conseguire “contributi determinati a livello nazionale nell’ambito dell’Accordo di Parigi”. A livello globale, quindi, il clima è nella mente delle persone e la loro preoccupazione sta crescendo; il 53% ha dichiarato di essere più preoccupato rispetto all’anno scorso e l’allarme è più alto nei Paesi meno sviluppati. Nei nove piccoli Stati insulari in via di sviluppo, ben il 71% ha dichiarato di essere più angosciato rispetto al 2022. Quindi, il tempo in quei luoghi “corre” più veloce.

Il 69% delle persone in tutto il mondo ha affermato che il cambiamento climatico sta avendo un impatto sulle loro decisioni più importanti, come dove vivere o lavorare. Tutti sono a favore dell’eliminazione dei combustibili fossili e per una transizione più rapida. Questo vale anche per i paesi tra i primi 10 maggiori produttori di petrolio, carbone o gas, come Nigeria e Turchia, Cina, Germania Arabia Saudita, tutti al di sopra del 70%; solo gli Stati Uniti si attestano al pur rilevante 54%. Il 93% – Italia compresa – concorda per una transizione verso “l’energia verde”. Emerge, infine, la richiesta di aiuto ai paesi più poveri e di un sostegno all’educazione al cambiamento climatico nelle scuole.

Se è vero che questa è l’opinione pubblica mondiale scientificamente accreditata, i riscontri del documento pubblicato da carbon Brief sembrerebbero, a prima vista incontrare il favore anche del sistema di potere e dell’economia: infatti, per la prima volta nella storia, nel 2023, l’eolico e il solare combinati hanno aggiunto più nuova energia al mix globale di qualsiasi altra fonte. Ma, evidentemente lo sforzo non basta, in quanto il record della domanda globale di energia ha raggiunto un nuovo massimo per l’uso di carbone e petrolio, facendo registrare un record assoluto nel 2023 per le emissioni globali di anidride carbonica (CO2).

In sostanza, la domanda globale di energia ha raggiunto il livello record di sempre e, nonostante l’eolico e il solare insieme abbiano rappresentato il massimo di nuova energia il resto dell’aumento netto è arrivato dal petrolio (+39% di aumento), dal carbone (+20%), dal nucleare (+4%), mentre il gas si è stabilizzato. Se si computa anche l’effetto climalterante del metano e del flaring: il totale ha superato per la prima volta i 40 miliardi di tonnellate di anidride carbonica equivalente (GtCO2e). Il tempo sta per scadere, ma i nuovi dati per il 2023 mostrano che il mondo sta ancora andando nella direzione sbagliata, con nuovi record per le emissioni di carbone, petrolio e CO2.

Anche se l’eolico e il solare, combinati, hanno aggiunto più nuova energia al mix globale nel 2023 rispetto a qualsiasi altra fonte, il clima continua a mantenersi sotto tiro e fuori misura. Anche se, cioè, per la prima volta nella storia queste nuove forme di energia rinnovabile hanno superato ciascuno dei combustibili fossili, questi rimangono le fonti di energia dominanti del mondo.

In conclusione l’anno trascorso registra: il record del consumo energetico, quello del consumo di combustibili fossili, quello delle emissioni di CO2, quello delle energia rinnovabili. Ciò significa che, nonostante tutta questa crescita esponenziale, la rapida crescita del solare ci ha permesso di consumare più energia, piuttosto che sostituire la nostra energia più sporca (combustibili fossili). E se continua così, sembrerà molto più un’aggiunta di energia piuttosto che una transizione energetica. Non a caso l’amministratore delegato dell’Energy Institute, Nick Wayth, ha dichiarato in una conferenza stampa che “i dati potrebbero essere interpretati per suggerire che la transizione energetica globale “non è nemmeno iniziata”.

Che dire allora del rapporto tra cittadini e classi dirigenti così ampiamente messo a confronto? Non siamo ancora sul crinale di inversione: eppure i cittadini lo esigono: consumare di meno, sostituire all’efficienza la sufficienza, lasciare sottoterra petrolio gas e carbone e puntare su una riconversione della politica industriale verso l’espansione dell’eolico e del solare, mentre si diffondono le comunità energetiche. Risulta allora più chiaro come nella sconfitta degli interessi dei combustibili fossili e dell’immaginario del nucleare si muova il primo passo verso la giustizia sociale.

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Le guerre in presenza di impianti nucleari sono un nuovo rischio per la sicurezza

C’è una coincidenza non casuale tra gli Stati che si sono dotati dell’arma atomica e la presenza sul proprio territorio di reattori nucleari civili: il ciclo dell’uranio militare è integrato col funzionamento di centrali in cui la fissione è tenuta sotto controllo con le apparecchiature e i software più sofisticati per ridurre il rischio di incidenti catastrofici. Militare e civile si sono sviluppati di pari passo in tempo di pace, ma in tempi di guerra permanente, il rilancio del nucleare civile deve prendere in considerazione risvolti che già si sono rivelati inquietanti.

Nessuna delle potenze in campo nella “guerra grande” potrebbe impunemente annunciare di voler risolvere lo scontro con il ricorso all’impiego dell’ordigno nucleare. Anche se tra di loro la sola Cina esclude l’uso del “first strike” – un “primo colpo” – con un attacco preventivo e a sorpresa con l’impiego dell’atomica, è pur vero che sia in Ucraina che in Israele e Iran esistono grandi impianti nucleari civili, la cui fusione e dispersione catastrofica potrebbe essere provocata da un loro bombardamento con potenti e mirate armi convenzionali. Un first strike dissimulato, a cui seguirebbe una risposta annientatrice su scala globale: un Armadeggon imprevisto.

Ira Helfand, noto medico antinuclearista dell’Università del Massachusetts, ritiene che più volte il Pentagono abbia simulato l’uso di armi nucleari tattiche per innescare a sorpresa una guerra nucleare, che finirebbe col risultare totale e che un procedimento simile sia stato preso in conto anche dai comandi russi e dal gabinetto di guerra di Netanyahu, oltre che dall’Iran. Mai, come nella fase attuale, siamo stati vicini a questa spaventosa eventualità, ma, per buona sorte, abbiamo solo sfiorato ipotesi tanto esiziali per l’umanità.

Eppure, nella constatazione che le guerre in corso non possano finire con la vittoria assoluta di una parte e l’annientamento dell’altra, sta prendendo piede la tentazione di agitare in modo indiretto la minaccia atomica, attraverso una pressione inusitata sui reattori e gli impianti civili, portandoci, alla fine, dentro vicoli ciechi strategici, che avrebbero egualmente, come conseguenza, l’innesco di uno scambio di testate nucleari in un conflitto globale.

Ho trattato nel post precedente all’attuale la questione degli insensati attacchi – attribuiti ora all’una ora all’altra parte in conflitto – alla centrale ucraina di Zaporizhzhia, la più potente nel nostro continente. Pur non essendo più in funzione i suoi sei reattori, tutta l’enorme carica di materiale radioattivo contenuto nei noccioli e nei depositi potrebbe essere rilasciata e dispersa a seguito del lancio di potenti testate montate su droni o bombardamenti penetranti con esplosivo tradizionale.

E’ la prima volta nella storia che una guerra con armi avanzatissime si sta svolgendo in presenza di impianti e infrastrutture nucleari, ponendoci di fronte ad un nuovo tipo di rischio per la sicurezza. Nelle ultime settimane le strutture ausiliarie della centrale sono state colpite e, se anche a partire dal 13 aprile, tutti e sei i reattori erano in arresto a freddo, c’è ancora la possibilità di un grave incidente dovuto ad un sabotaggio intenzionale volto a causare un rilascio radioattivo. Questo è il grido d’allarme lanciato all’Onu dal segretario dell’Aiea Daniel Grossi.

L’analogia con Chernobyl è tutt’altro che campata in aria: anzi, date le condizioni feroci di combattimento, l’inadeguatezza dei soccorsi farebbe paradossalmente parte – da qualunque dei due confliggenti fosse innescata – di un’azione della più atroce guerra nucleare, e costituirebbe la premessa per un “first strike” dissimulato. Non accadrà, ma non viviamo in un’epoca usuale.

Anche nell’altra “guerra grande” in corso in Medio Oriente, l’attacco israeliano a Isfahan – sede di impianti nucleari iraniani – per quanto a livello dimostrativo, ma assai allusivo nel suo significato, segnala una strategia bellica che non avevamo mai messo in conto come aspetto ordinario: minacciare un incidente ad un sito nucleare, con tutto il corollario di accessori attinenti al ciclo di arricchimento del materiale fissile.

Ciò comporterebbe effetti terribili, in quanto aumenterebbe considerevolmente la probabilità di una risposta di ritorsione da parte di Teheran, che colpirebbe luoghi sensibili nel territorio israeliano, possibilmente estendendosi agli interessi americani e giordani nella regione, oltre a fornire agli ayatollah la motivazione per progredire verso lo sviluppo di bombe atomiche.

Non possiamo dimenticare che la densità energetica di cui sono dotati i reattori civili, sebbene adeguatamente moderati durante il loro funzionamento e controllati lungo il loro ciclo di vita, è di un ordine di grandezza non molto inferiore da quello delle testate nucleari e che, se venisse sprigionata simultaneamente in un’azione di guerra, innescherebbe un effetto catastrofico.

A maggior ragione, quindi, e a partire da queste realtà sotto i nostri occhi, evapora definitivamente il concetto di “guerra giusta”, dato che il suo esito concreto risulterebbe nell’annientamento non tanto del nemico, ma, anche a seguito di inevitabili ritorsioni, dell’esistenza su larga scala dell’intero vivente. Nessuno può plausibilmente trarre utilità o ottenere alcun vantaggio militare o politico da attacchi contro gli impianti nucleari: solo una de-escalation di fatto e per via diplomatica può tener testa al pericolo che incombe.

Come si giustifica allora l’invio di armi sempre più potenti e precise ai contendenti “amici” da parte di un Occidente che mantiene pressoché secretate centinaia di testate perfino a Ghedi e Aviano? E come potrebbe la Russia pretendere di riavviare per sé la centrale nucleare ucraina di Zaporizhzhia, resa insicura dalle azioni di guerra e di conquista, senza un piano di manutenzione per il 2024 e, per di più, minata dalla mancanza di acqua di raffreddamento del bacino idrico ormai esaurito posto dietro la diga di Kakhovka sfondata a colpi di mortaio?

Ali Alkis sul Bulletin of the Atomic Scientists (newsletter@thebulletin.org del 17 aprile) lamenta che l’Aiea terrà la sua Conferenza internazionale sulla sicurezza nucleare a maggio per rilanciare il “nuovo nucleare civile”, ma non dedicherà nemmeno una sessione alla protezione degli impianti nucleari nelle zone di conflitto! Non una dimenticanza, ma, temo, un’azione altamente imprevidente.

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Zaporizhzhia come obiettivo militare: qual è la situazione e cosa si rischia coi continui blackout

Viviamo nell’Antropocene: un’era recente, non ancora abbastanza assimilata nella consapevolezza comune, in cui la società umana è scossa da eventi dei quali è protagonista attiva, nonostante mettano in discussione la sua integrità, la continuità, della sua storia, se non, addirittura, la sua sopravvivenza.
L’incontrollabilità di tecnologie che, quando si scatenano, sfuggono al controllo democratico e sociale, è diventato un problema tragico della nostra era. In queste ore rimaniamo scossi dalla tragedia di Suviana, ma ad ogni imprevisto stentiamo a cercare risposta. Sembra che l’artificiale sfugga di mano all’umano.

Qui provo ad esaminare un caso particolare – utilizzando molte fonti di informazione – da Euronews ad Indipendent, ad Al Jazeera, al Guardian – in cui la follia della guerra, assieme all’insistenza a protrarla con l’invio di armi sempre più sofisticate e sempre più deflagranti, trova un punto di svolta drammatico nel bombardamento della centrale di Zaporizhzhia. Le versioni propagandistiche delle due parti in conflitto, che si accusano a vicenda del lancio di ordigni, non limitano certo il pericolo imminente di un disastro incalcolabile, tutt’altro che irripetibile.

Zaporizhzhia non è solo la centrale più potente di Europa, ma può diventare l’Hiroshima del nuovo millennio, confermando la tragica continuità tra il nucleare civile e quello militare. Il pericolo di una catastrofe si era già avvicinato un anno fa, quando il bacino della centrale idroelettrica di Kakhovka, con l’abbattimento della diga di contenimento, era sceso al livello più basso degli ultimi tre decenni, mettendo a rischio le risorse di irrigazione e acqua potabile, nonché i sistemi di raffreddamento della vicina centrale nucleare di Zaporizhzhia.

Già quell’episodio, che ancora non riguardava l’atomo, rappresentava il più grande ecocidio in Ucraina, con migliaia di specie travolte dalla breccia nella diga che, oltre a contaminare le riserve idriche, ha distrutto centinaia di specie animali e vegetali rare, oltre che ad aver costretto migliaia di persone a evacuare l’area che si trova sul suo corso a valle. La regione allagata ospitava una quantità significativa di foreste e riserve, come la Riserva della Biosfera del Mar Nero, che nutre migliaia di specie, e il deserto di Oleshky Sands, colpiti dalle inondazioni, con il rischio di estinzione globale di specie animali, fungine e vegetali, oltre che di distruzione delle residenze di uccelli migratori.

L’Ucraina ha 15 centrali nucleari e nella sua storia c’è il dramma di Chernobyl del 1986, tuttora vivido e irrisolto, ma è Zaporizhzhia ad essere focalizzata, attirando oggi l’attenzione più inquietante. Nonostante gli appelli dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica, giungono quotidianamente notizie di attacchi nella regione. Intervistato da Euronews, un ex capo dell’AIEA ritiene che oggi siamo più esposti al pericolo che nel 1986. Una situazione per certi versi peggiore, perché si tratterebbe di un attacco intenzionale, provocato e calcolato dall’uomo: è infatti molto difficile proteggere una centrale nucleare se munizioni o missili colpiscono il posto sbagliato.

Già all’inizio dell’invasione le truppe russe presero il controllo della struttura di Zaporizhzhia. Tuttavia, l’impianto ha continuato ad essere gestito da lavoratori ucraini, mentre veniva ripetutamente messa fuori uso la rete elettrica nazionale, provocando blackout nella stessa centrale nucleare dove è necessaria una fornitura di energia costante per evitare il surriscaldamento dei reattori.

Dopo mesi di insicurezza, nel settembre 2022, l’ultimo reattore è stato spento. L’impianto è entrato quindi in un’altra fase operativa, meno delicata, ma non per questo meno pericolosa. “In realtà la situazione sta peggiorando – scrive il rapporto di Grossi, direttore dell’IAEA – a Zaporizhzhia è presente solo circa un quarto del personale addetto alla manutenzione, del tutto insufficiente perché le centrali nucleari hanno un sistema di conservazione regolare, ispezioni regolari e controlli di sicurezza delle autorità: il che significa che l’impianto si sta deteriorando con il passare del tempo”. Mancano i pezzi di ricambio e questo può avere conseguenze che sono imprevedibili e possono portare al rilascio di radioattività anche a reattori spenti.

Entrambi i nemici affermano di gestire l’impianto, quindi non ci si aspetterebbe che lo considerino un obiettivo militare, ma il sito in sé nell’ultimo mese sembra essere stato deliberatamente preso di mira dai bombardamenti. Per ora si tratta di bombardamenti che hanno luogo intorno all’impianto e ci sono stati uno o due casi in cui un proiettile ha colpito alcune parti del sito. I reattori hanno muri di cemento spessi un metro e rivestimento in acciaio. Quindi sono edifici molto robusti, con una protezione che dovrebbe essere sufficiente per un tipo di impatti accidentali che non sono diretti deliberatamente. Ma se lo fossero? Se, cioè fossero obbiettivi di guerra?

Il 9 marzo, l’impianto è andato in blackout per la sesta volta dall’occupazione, costringendo gli ingegneri nucleari a passare ai generatori diesel di emergenza per alimentare le apparecchiature di raffreddamento essenziali. “Ogni volta lanciamo un dado – avverte Rafael Mariano Grossi – e se permettiamo che ciò continui di volta in volta, allora un giorno, la nostra fortuna finirà”. Per questo è indispensabile una zona di sicurezza intorno alla centrale nucleare.

A fine febbraio, è stato chiuso anche il collegamento all’ultima linea elettrica di riserva, che rende ancora più fragile la situazione della sicurezza nel sito.
Rosatom, l’impresa russa che ha preso l’impianto sotto la sua giurisdizione, dichiara che la causa della disconnessione non è stata immediatamente nota, aggiungendo di essere stata informata dall’operatore di rete ucraino che i lavori sulla linea erano in corso. Una imprevidenza o una azione militare inconsulta? Qualsiasi interruzione di corrente o danni alle linee elettriche può minacciare i reattori altamente reattivi e le loro altre funzioni essenziali, che hanno bisogno di elettricità per raffreddarsi, anche quando risultano spenti.

In origine l’impianto aveva a disposizione quattro linee da 750 kV e sei linee da 330 kV per mantenere in funzione l’erogazione di energia da nucleare. Quindi non ci sono più opzioni di backup per l’alimentazione off-site e ciò significa che i sei reattori VVER-1000 V-320 raffreddati ad acqua e moderati ad acqua contenenti uranio-235, oltre al combustibile nucleare esaurito, potrebbero essere un bersaglio spaventosamente vulnerabile. Rosatom accusa Kyev per un lancio di un drone sulla cupola di un reattore e il ferimento di tre operai nella mensa dell’impianto, mentre Zelensky ha sottolineato che gli attacchi russi continuano incessanti su Zaporizhia.

Non siamo più solo all’atrocità della guerra e allo scambio di accuse tra contendenti: siamo di fronte ad una delle molte questioni esemplari ed esiziali del tempo in cui viviamo. Occorre porre fine a questo terrore e allontanare dal nostro mondo l’illusione che la parola “vittoria” abbia ancora senso quando si tratta delle emergenze dell’Antropocene. Che andrebbero affrontate con la visione che solo un sofferente papa Francesco ha saputo anticipare, in solitudine tra i leader mondiali distanti dai loro popoli.

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L’Enel di Civitavecchia rallenta sulla transizione e i lavoratori scioperano: le parole non bastano

di Mario Agostinelli e Mauro Mei

L’8 marzo 2024, i lavoratori elettrici di Enel hanno incrociato le braccia in una mobilitazione promossa dalle categorie sindacali nazionali di Cgil, Cisl e Uil. L’iniziativa esprime preoccupazione per la direzione che sta prendendo l’azienda energetica italiana. Dopo la gestione dell’ad Starace, proiettata verso il nuovo paradigma energetico per affrontare la crisi climatica e raggiungere gli obbiettivi di riduzione delle emissioni definite dal Green Deal europeo, il nuovo gruppo dirigente di Enel ha subito dato segni di minore autonomia rispetto ai grandi interessi ereditati dai potentati dell’era fossile ed ha rivolto la sua attenzione alla speculazione finanziaria e – come dice il comunicato di Cgil, Cisl e Uil nazionali – rischia di non “rimanere un motore essenziale nella giusta transizione energetica del paese, tradendo la vocazione industriale che da sempre ha contraddistinto l’azienda”. E’ infatti in corso un progetto di ridimensionamento che ha sollevato preoccupazioni tra le lavoratrici ed i lavoratori.

I sindacati criticano i tagli del personale e l’esternalizzazione di alcuni servizi, specialmente nella distribuzione, mettendo a rischio la continuità del servizio elettrico nelle case degli italiani, giorno dopo giorno. Assai significativa, tra le motivazioni della mobilitazione che ha già avuto precedenti momenti di rilievo, è la contrarietà alla riduzione degli investimenti nelle fonti rinnovabili che avevano aperto solide aspettative nel periodo più recente della gestione dell’Ente.

Siamo nella fase di “Phase -out” dal carbone e di sempre maggiore urgenza nell’adeguare il sistema centralizzato di produzione elettrica alla riconversione territoriale, cui concorrono le fonti rinnovabili, diverse forme necessarie di stoccaggio, forme di compartecipazione che riducano i consumi e contengano i costi in bolletta. Per Brindisi e Civitavecchia si tratta di garanzie di occupazione nel cambio strutturale dei sistemi che hanno alimentato fino ad ora i due poli.

L’astensione dal lavoro è risultata massiccia e, in particolare a Civitavecchia, lo sciopero davanti ai cancelli di Torre Valdaliga Nord ha avuto larga risonanza e solidarietà tra la popolazione da tempo impegnata alla trasformazione da una centrale a carbone ad un avanzato sistema eolico-offshore a 30 Km dalla costa. Il nuovo progetto è al vaglio con la piena convergenza di tutte le forze politiche e sociali: registriamo al riguardo la riuscita di un convegno partecipatissimo lo scorso 14 marzo a conferma del progetto da fonti rinnovabili ed un comunicato del Pd a sostegno della lotta aperta anche dai lavoratori dell’indotto per il loro futuro. (v. telegiornale locale dal min.7).

Il ministro Pichetto ha cercato di rassicurare: “Io sono determinato a dire che noi chiudiamo Civitavecchia e Brindisi il prima possibile. E’ chiaro che la chiusura deve vedere da parte della proprietà un impegno di riconversione, rioccupazione e gestione di un trapasso che dobbiamo portare avanti a che va gestito anche con le autorità locali e il diritto sindacale di porre le questioni di merito sul lavoro”. Ma le parole non bastano certo. La città e le rappresentanze sindacali e politiche pretendono dall’Enel risposte chiare e non dilatorie, preoccupata dall’assenza di progettualità e di un confronto serrato con l’ente elettrico, impegnato in una vertenza generale cui si sta sottraendo, nonostante la conversione energetica debba avere tra gli attori protagonisti l’Enel stessa, che ancora non si è impegnata in compartecipazioni indispensabili, come la definizione e costruzione di sistemi di accumulo e l’integrazione dell’alimentazione elettrica dell’area portuale.

Lavoratrici e lavoratori e la cittadinanza tutta attendono risposte adeguate da chi ha mantenuto una servitù prolungata su un territorio generoso, che ora attende realistiche misure per un futuro più salubre e foriero di buona e stabile occupazione.

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Lo sviluppo sottotraccia dei piccoli reattori nucleari ha l’apparenza di una chiamata alle armi

Sulla transizione energetica il nostro governo procede per annunci, spesso contradditori e quasi sempre proiettati in decenni successivi alle scadenze cui saremmo chiamati a rispondere riducendo l’impatto climatico del nostro sistema. Che si tratti della fusione nucleare con cui imitare il sole o del piano Mattei con cui ricolonizzare il sud del Mediterraneo, o infine dell’”hub europeo” creato per raccattare e sequestrare la CO2 emessa dai residui turbogas rimasti in Europa, non c’è proposta di politica energetica che ci abbia riabilitati come diligenti esecutori del Green Deal Ue.

Adesso, però, rientriamo volentieri nell’alveo della “ritirata” di Ursula Von der Leyen, timorosa di essere danneggiata dalla “frenesia verde” (secondo la “grammatica” di Vox, Fpoe, Fidesz e Afd) che l’aveva fatta conoscere come alfiere delle rinnovabili, invise alle destre europee in crescita nei sondaggi e, insieme, oppositrici di qualsivoglia inclinazione ecologista.

Così sta prendendo piede, con un protagonismo italo-francese, una tacita rinascita dell’atomo attraverso un consorzio europeo di rilancio del nucleare a cui la Commissione Europea non sembra insensibile. E come sfuggire a questa occasione, che il ministro Pichetto Fratin definisce “nuovo nucleare pulito, fatto di piccoli reattori nucleari sparsi per il territorio” e tanto allettanti da far dimenticare l’enorme mole di controindicazioni che provengono ormai da decine di anni di studi scientifici, oltre che da spaventosi incidenti nelle centrali esistenti e dall’esito di due referendum popolari? Insomma: qualsiasi soluzione, purché, in una penisola ricca di sole, di bacini di stoccaggio e di vento che spira sui mari che la contornano, si lasci a languire la riconversione della seconda manifattura d’Europa verso il sistema delle energie rinnovabili.

Dopo l’insediamento di una commissione nazionale per lo sviluppo di piccoli reattori nucleari (SMR), il Ministro del Mase ad inizio febbraio, come racconta La Stampa dell’8 febbraio 2024, ha incontrato i vertici di Ansaldo Nucleare per affidare loro un ruolo da primattore nell’alleanza europea, che si avvarrà del know-how e delle competenze tecnologiche dell’impresa, che aveva contribuito in maniera determinante alla creazione del consorzio. Infatti, il Gruppo Ansaldo Energia ha firmato negli ultimi mesi accordi strategici per la cooperazione specifica nella costruzione di Smr di diverse tipologie in collaborazione con Edf, Edison, Westinghouse e altri attori internazionali.

Vale la pena a questo punto di inquadrare lo sviluppo (quasi sottotraccia) di questa nuova tecnologia che ha tutta l’apparenza di una chiamata alle armi. E la ragione di tanto interesse sta nelle speranze di nuova crescita che sono affidate allo sviluppo impetuoso dell’Intelligenza Artificiale (Ia). In effetti, nella prospettiva di una rivalutazione del nucleare diffuso di piccola taglia, lo sviluppo dell’Ia ha un ruolo rilevantissimo, in quanto questi reattori minori (attorno ai 400 MW) assicurerebbero la fornitura di elettricità 24 ore su 24 e 7 giorni su 7 agli innumerevoli data center in cui vengono conservati i cloud con i big data e vengono alimentati i chip di ultimissima generazione. I consumi di energia per l’Ia sono stati finora trascurati, ma l’aumento medio per l’elaborazione e il raffreddamento dei sistemi ad apprendimento automatico è valutato dell’odine del 43% rispetto agli analoghi sistemi di computazione tradizionale.

Ad oggi si stima che i data center consumino tra l’1 e il 2% dell’elettricità mondiale, ma l’ascesa di strumenti come ChatGpt innesca già previsioni del consumo energetico globale che potrebbe aumentare di cinque volte. Secondo Carlos Gómez Rodríguez, professore di Informatica e Intelligenza Artificiale presso l’Università di La Coruña: “L’Ia generativa produce più emissioni dei normali motori di ricerca, che pure consumano molta energia perché, dopotutto, sono sistemi complessi che si tuffano in milioni di pagine web. Ma – continua Carlos – l’intelligenza artificiale genera ancora più emissioni, perché utilizza architetture basate su reti neurali, con milioni di parametri che devono essere per lunghi tempi addestrati”.

Nel panorama attuale l’intelligenza Artificiale è considerata la strategia decisiva per la quarta rivoluzione industriale e per la potenza delle forze armate. I data center delle compagnie di informatica potrebbero diventare un segmento di mercato significativo a livello globale per gli Smr nei prossimi decenni e non a caso sono oggetto di ricerca e di prototipizzazione da parte anche delle imprese leader dell’informatica proprietaria, in particolar modo negli Usa, in Inghilterra, Belgio, Taiwan e Giappone.

Già in un post precedente ho posto la questione della novità di una diffusione pervasiva di scorie nucleari sul territorio: analogamente a quanto è avvenuto nel settore chimico, dovremmo fare i conti con un controllo altrettanto capillare, con una variante di tossicità e di militarizzazione impressionante. Peraltro, in uno studio della Stanford University intitolato Nuclear waste from small modular reactors, la gestione e lo smaltimento dei flussi di rifiuti nucleari prodotti dagli Smr rivelano che i progetti Smr, comparati con i Pwr a scala di gigawatt, aumenteranno i volumi equivalenti dei rifiuti nucleari, che necessitano di gestione e smaltimento, con il volume dei rifiuti ad alta attività che aumenterà addirittura di un fattore 30. E poiché le proprietà del flusso di rifiuti sono influenzate dalla fuoriuscita di neutroni dal nocciolo ridotto, gli Smr aggraveranno anche le problematiche legate allo smaltimento degli impianti a fine corsa.

Is+Smr: l’ennesima formula per mantenere la crescita. Che ne sarà del clima, della democrazia e della giustizia sociale?

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